GIOVANNI PROIA

UN OTTUAGENARIO SI RACCONTA

2003-2005

 

Copyleft © Emilioweb settembre 2005

Premessa

Perché mi sono deciso a buttar giù tutte queste pagine che, crescendomi giorno per giorno per il lievitare della memoria, sono infine divenute interminabili sino all’assurdo? Due sono le ragioni fondamentali che mi hanno motivato a mettermi al lavoro.

Tempo fa mi è capitato di dover stendere la cronistoria degli ultimi cinquanta anni di una istituzione sociale del mio paese, la Società Operaia di Mutuo Soccorso. Ho accettato malvolentieri l’incarico e di malumore mi sono messo a cercare e scartabellare registri e scartoffie conservati casualmente e in più sedi. Mi sono poi reso conto – e soprattutto hanno constatato alcuni amici - che se non avessi io con pazienza e sistematicità esplorato, ordinato e raccontato tanti fatti anche minuti di quel cinquantennio, a breve quel pur recente periodo sarebbe divenuto un buco nero, laddove invece tanti lettori avevano ora potuto riconoscere una parte della loro stessa storia altrimenti già sfumata e dimenticata.

Mi è sembrato perciò di far cosa utile per i miei coetanei  e soprattutto cosa interessante e magari attraente per i giovani di oggi rievocare con una certa compiutezza – e, cioè, con validità rappresentativa –  anni che sembrano così vicini, gli anni dei loro padri e dei loro nonni, ma che, a vederli con un po’ di attenzione, appaiono ormai appartenere a un’altra epoca della storia dell’uomo, tante e tanto profonde e tanto rapide sono state le mutazioni intervenute  sull’ambiente negli ultimi ottanta anni e cioè nel corso della mia vita. Si dice che l’uomo sente il bisogno di conoscere le proprie radici per vedervi l’origine plasmatrice del proprio presente. Io credo che, almeno, sia interessante per molti avere un quadro più ampio e più circostanziato di quel che hanno sentito tante volte accennare dagli anziani su quei tempi ormai quasi mitici proprio perché così nebulosi e vaghi. A questo ho pensato portando la mia  testimonianza sulla vita del mio paese di ottanta anni fa.

Un secondo motivo, che però precede nel tempo le riflessioni sopra riportate, nasce dai miei rapporti con mio padre.  Mio padre, peggio ancora di me, non aveva il dono della parola. Non mi è mai occorso di sentirgli fare un discorso filato o una conversazione distesa. E tanto meno gli ho sentito raccontare della sua vita e del suo passato. Tutto quello che so di lui è ciò che ho visto direttamente e ciò che ho sentito raccontare da altri. Quel poco che sentivo dagli altri mi suscitava una grande curiosità: egli veniva dall’Ottocento, aveva traversato tanti periodi diversi delle vicende italiane, aveva trascorso cinque anni a inizio secolo vagando per l’Europa centrale con un lavoro che lo teneva sempre a vivo contatto con la gente, gli riconoscevano tutti una sicura padronanza di sé, una autorevolezza in ciò che faceva e una inusitata onestà, ma io sapevo così poco di lui. Certo, avrei voluto chiedergli tante cose, ma da dove cominciare e soprattutto come indurlo ad aprirsi finalmente alla conversazione? Ho avuto poco tempo da passare con lui dopo la mia fanciullezza e solo nell’ultimo anno della sua via l’ho avuto per una settimana a Roma tutto per me per passeggiare insieme nei miei pomeriggi liberi e finalmente egli si è sciolto un poco. Ma in fondo egli era dominato da un riserbo timido, stranamente timido anche con suo figlio: è che non era strutturalmente capace di  vantarsi di qualcosa, di evidenziare i lati positivi della sua vita, dopo aver costretto tutto il suo personaggio nella parte del burbero quasi scontroso. E così, mi è rimasta una penosa curiosità definitivamente insoddisfatta.

Mi ritrovo però a rivivere all’inverso una vicenda simile, benché assai meno radicale, con i miei figli: certo, io sono più loquace di mio padre, ma quasi come lui negato alla parola; i miei figli mi hanno, magari più volte, sentito raccontare questo o quell’episodio della mia vita in conversazioni con estranei e io capivo che anche loro ascoltavano con interesse. Credo perciò che farebbe loro piacere sapere di me un po’ più di quel che sanno, ma io stesso non immagino come possa un bel giorno prenderli a parte e rispondere a loro domande sistematiche sul mio passato che è anche in qualche modo il loro passato. E naturalmente, per narrare il mio passato dovrei anche esporre come era l’ambiente nel quale sono nato e cresciuto. Ecco che le due motivazioni di queste pagine si intrecciano rafforzandosi a vicenda.

Debbo però confessare con sincerità che ho un terzo motivo a spingermi a scrivere ed è il motivo che ha ogni vecchio a credere che i suoi fatti debbano interessare gli altri: ed è come se raccontando la propria vita questa si prolunghi in qualche modo nella memoria altrui, specie se si tratta dei propri figli.

I quali tuttavia non sono affatto obbligati a subire le memorie paterne.


 

 

Capitolo I
Il Paese della mia infanzia

I.1)  La mia infanzia

Non so bene in quale giorno del mese di maggio 1923 io sono nato. Da ragazzo, in famiglia si festeggiava il mio compleanno il giorno 12, un giorno che mi piaceva perché quel giorno di quell’anno era un sabato, “di sette il più gradito giorno” (Leopardi). Ma una volta, narrandomi di quell’evento .. felicissimo della mia famiglia – io sono l’ultimo di sette figli ed unico maschio – qualcuno mi disse che mio padre quel giorno si trovava con la sua banda musicale in un paese del circondario per la festa patronale celebrata di domenica e che un paio di amici si precipitarono in calesse a portargli la lieta novella e ricondurlo a casa; giuravano che fosse domenica, ma allora doveva essere il 13 e non il 12 maggio. Quando poi, dopo diversi anni, ebbi finalmente bisogno di un certificato di nascita, risultai registrato all’anagrafe il giorno 14 come nato nello stesso giorno. Un bel pasticcio. Mi sono poi immaginato di essere nato il sabato sera tardi e che solo il mattino dopo, di domenica, gli amici siano andati a portare l’annuncio a mio padre e che finalmente solo il lunedì 14, alla riapertura dell’ Anagrafe comunale, mio padre abbia potuto fare la denuncia formale della nascita  dichiarandola, come cosa irrilevante, avvenuta nello stesso giorno. Il mio compleanno è perciò un triduo, anche per alcuni dei miei amici.

Alla mia nascita mia madre Domenica Candeloro aveva 43 anni e mio padre Giovanni (per la precisione, Giovanni Battista) ne aveva 48. Ambedue erano  di famiglie da tempo radicate nel paese, specialmente i Candeloro.

Mia madre, donna energica e molto religiosa, ventenne aveva sfidato di essere diseredata per sposare mio padre, che non era un possidente. Sono stati per una vita intera sempre molto innamorati, anche se nessuno lo avrebbe immaginato sentendo i ricorrenti acerbi rimproveri coi quali lei rinfacciava a lui l’incapacità di difendere gli interessi della famiglia nei confronti dei furbi (lei però era sotto sotto assai fiera della rigorosa onestà di lui, che pure costava cara ai bilanci domestici).

Mio padre aveva esercitato varie attività e per lo più il commercio (la tabaccheria ereditata dal suocero, ma anche stoffe e piccole confezioni, cartoleria e perfino alimentari), ma aveva una sola vera passione: la musica. Giovanissimo aveva imparato a suonare la tromba in si bemolle e a leggere partiture. Con la sua tromba passò cinque anni, dal 1900 al 1905, in giro per l’Europa centrale (Germania soprattutto, ma anche Svizzera, Belgio, Olanda), dapprima scritturato in un complessino di un certo Loreto Tesone marchigiano, poi con un complessino suo, suonando in grandi birrerie, ristoranti, café-chantants, stabilimenti termali, ecc. Tornava ogni anno per qualche settimana a casa a fare figli e rinnovare poi i contrastati distacchi dalla giovane  sposa. Al quinto anno dovette scegliere tra una lunga scrittura per un transatlantico tedesco e il recupero in extremis della pace familiare. Fu poi capo-banda del “concerto” bandistico del paese, anzi negli anni ’30 lo ricostituì a proprie spese rovesciando poi sulla famiglia l’esito fallimentare dell’iniziativa in un’epoca segnata a lungo dalla grave crisi del 1929; alla famiglia rimasero, con i debiti da pagare, le uniformi da sera di bel panno nero, i timpani, le campane ed altre percussioni, qualche bombardino e altri materiali vari che occupavano una soffitta per i miei divertimenti; le divise di panno furono riciclate dalle mie sorelle per farne bei tailleurs, giubbetti, ecc.

Alla mia nascita, la mia prima sorella Giulia, ventunenne, era già sposata ed aveva appena avuto una bimba. La sua floridezza le permise di sostituire spesso nel mio allattamento il petto ormai quasi esaurito di mia madre. Così, mia nipote aveva quaranta giorni più di me e mia sorella Giulia  mi ha fatto anche un po’ da mamma. Del resto, una ventina di mesi dopo un’altra sorella, Elvezia, di nove anni maggiore di me, ebbe il compito e la responsabilità di badare a me durante il suo tempo libero e mi trattava come un suo giocattolo, con la stessa disinvoltura con la quale poteva trattare una bambola di pezza.

Della mia infanzia non ho praticamente ricordi, salvo una vaga immagine del nonno paterno Alfonso seduto, col suo bastone accanto, che mi guarda giocare. Non mi è rimasto nulla della nonna Maria Carmina Arioli, né dei nonni materni Angelo Candeloro e Maria Panella.

Per quanti sforzi abbia mai fatto per ripescare nella memoria qualcosa di quegli anni, sono riuscito ad evocare ben poco; una immagine molto sfumata: io bimbo dalla strada vicino a casa mia guardo verso l’uscita dal paese a sud e vedo un assembramento di persone che assistono al passaggio di una corsa di cavalli. Altro ricordo, come ho già detto, la vaga immagine del nonno Alfonso. Ricordo anche un momento particolare: c’era stata una scossa di terremoto e mia sorella Elvezia cui ero affidato mi aveva  lasciato in strada dentro una cassetta fuggendo. Un po’ meno remoto e più articolato il ricordo di un signore con portamento fiero che veniva condotto da due fascisti verso il centro per somministrargli l’olio di ricino; il signore era il marito di una cugina di mia madre.

I.2)  Il paese

Il mio paese è Luco dei Marsi, sito nell’Abruzzo aquilano. Ai miei tempi si chiamava Luco nei Marsi; non ho mai capito perché sia stata mutata ufficialmente la preposizione articolata. A questo proposito mi torna in mente un mio brevissimo incontro con Ignazio Silone in occasione di una manifestazione in suo onore presso la Società degli Autori. Io non potei fare a meno di dirgli che ero anch’io marsicano. E lui: “Di  dove?” “Di Luco”.  “Ah, Luco – egli disse – nella Marsica più profonda”. Il mio paese era davvero nel territorio degli antichi Marsi, a differenza di altri centri come ad esempio Avezzano o Magliano dei Marsi o Scurcola Marsicana, che sono compresi  da secoli nella Marsica, ma ai tempi degli Italici erano in territorio degli Equi.

Luco è parola latina che vuol dire “bosco sacro”. In antico, nell’ambiente esisteva un santuario dedicato alla dea Angizia, che nel IV-III secolo a. C. era circondato da mura poligonali per una superficie di 30 ettari circa e che diede luogo poi a un municipio latino. Virgilio ricorda nell’Eneide (libro VII, 750-760) il “nemus Angitiae”; scavi recenti hanno portato alla luce templi e statue di notevole interesse archeologico.

Il paese è al margine occidentale della piana già occupata dal lago Fucino, a 670 metri s.l.m. Esso  è allungato ai piedi di una catena montuosa rivestita da una vasta e bellissima foresta, prodiga di ossigeno pei fortunati abitanti. Ha pieno sole al mattino e il tramonto assai precoce, il che rende i luchesi solerti al lavoro dei campi al mattino e affezionati alla vita sociale del borgo alla sera.

Lo stemma del Comune ha al centro una colonna sormontata da una corona ducale, simbolo della Famiglia Colonna che lo ha avuto in feudo negli ultimi secoli nell’ambito del Ducato di Tagliacozzo. Ai due lati della colonna sono raffigurati Sant’Andrea, patrono dei pescatori, e San Bonifacio IV, Papa all’inizio del VII secolo, che la tradizione locale considera nato a Luco.

Finché c’era il lago, Luco era il paese dei pescatori per eccellenza (il mio nonno materno era l’ultimo dei miei antenati responsabile della cosiddetta stanga ove si controllava il pescato; nelle sue cantine si conservano, ancora oggi intatte,  le vasche di pietra usate alla bisogna).

In pochi decenni prima della mia nascita il paese aveva subito una straordinaria e profonda trasformazione. Dapprima il prosciugamento del Fucino (era il terzo lago d’Italia per ampiezza) ad opera di Alessandro Torlonia, completato nel 1876 – un anno dopo la nascita di mio padre – aveva mutato forzatamente i pescatori in agricoltori e aveva dato spazio all’ampliamento dell’abitato verso il piano. Poi il terremoto del 13 gennaio 1915 aveva causato circa 200 morti e danni assai gravi all’abitato. Anche la casa ove abitavano i miei genitori era in parte crollata: la figliola più piccola, di appena dieci mesi, rimasta sotto un trave si salvò miracolosamente conservandone per sempre il ricordo in una linea incisa nella fronte. Alla mia nascita era stata terminata da poco la costruzione di una nuova casa, che conservò a lungo un certo carattere di affrettata provvisorietà.

Il paese aveva cominciato a scendere in basso, al livello delle sponde dell’ex lago, con i nuovi edifici allineati lungo una nuova strada (Viale Duca degli Abruzzi) rettilinea e lunga, dalla quale risalgono verso la montagna i numerosi  vicoli paralleli (le rue). L’ampliamento dell’abitato avvenne per giustapposizione, conservandosi la formazione del borgo più o meno serrato, salvo una modesta zona centrale della nuova fascia,  destinata a servizi pubblici. Le costruzioni marginali in piano erano per lo più costituite da stalle, fienili, rimesse agricole e locali artigianali.

Nei primi anni ’30 venne per la prima volta pavimentata la bella Piazza Umberto I°, ampia terrazza centrale sul Fucino, e asfaltata la direttrice Via Roma – Via Vittorio Emanuele che attraversa il paese da nord a sud. Il nuovo parallelo Viale Duca degli Abruzzi rimase ancora a pavimentazione cilindrata (così come le altre strade principali) che veniva periodicamente ripassata dai grandi rulli schiacciasassi, a riempimento delle buche e dei solchi provocati dalla circolazione dei carri agricoli muniti di grandi ruote a cerchioni di ferro. Fango d’inverno e polvere d’estate (con intermezzo di pozzanghere lasciate dai temporali estivi) costituivano la superficie delle strade, condita dal letame naturale lasciato dalle bestie di passaggio (cavalli, muli, somari, buoi, mucche, pecore, capre) e al più presto raccolto da solerti ragazzetti  muniti di secchio e paletta e in gara fra loro.

La direttrice Via Roma – Via V.Emanuele divideva praticamente il paese in due zone diverse. Nella parte alta, le vecchie case in pietra (molte rimaste dirute dal terremoto) erano affiancate ai due lati dei vicoli e costituite da un pianterreno o seminterrato ad ingresso indipendente, nel quale sovente veniva tenuto il bestiame (il somaro, il maiale, i conigli, i polli), un primo piano con ingresso principale cui si accede con qualche scalino esterno fino al piancatello al livello della porta e costituito dalla cucina e la dispensa, quindi il piano superiore con un paio di stanze da letto; in una tipica abitazione di questo tipo erano alloggiate intere famiglie anche numerose. Naturalmente non esistevano gabinetti: i vasi da notte venivano svuotati al mattino ai margini del paese in alto o in basso se non in qualche interstizio cloacale tra vecchie case. Ai miei tempi, negli  anni ’30, venne finalmente realizzato un sistema fognario abbastanza efficiente che fece fare un enorme passo avanti all’igiene e alla vita civile.

La generalità delle abitazioni non aveva conduttura d’acqua. Questa veniva attinta alle diverse fontanine pubbliche dislocate qua e là, per mezzo della classica conca di rame, pesante anche quando era  vuota, che le donne portavano con eleganza sulla testa – poggiata su un cercine (spara) – camminando erette per strade e vicoli dopo essersi eventualmente fatte aiutare a porla sul capo. Un tipico mestolone di rame, il maniero, serviva a prendere acqua dalla conca e talvolta a rompere la superficie di ghiaccio che in pieno inverno si formava nella notte.

Il paese disponeva di un buon lavatoio pubblico, dotato di quattro lunghe vasche parallele dai larghi bordi in pietra ben levigata,  con abbondante acqua corrente; le due vasche centrali erano più corte e coperte da una tettoia. Nella buona stagione, le ragazze allietavano il lavoro sbattendo energicamente i panni con accompagnamento di vivaci conversazioni, canti, risate e magari qualche lite; in un prato accanto sulla bella erba verde si stendevano ad asciugare i panni più grandi. Il bucato era invece fatto in casa mettendo i panni in un grande mastello di legno (quello che fungeva anche da vasca per il bagno delle persone), con la copertura di una tela di iuta o di canapa attraverso la quale veniva versata l’acqua bollente con la cenere; questa faceva il miracolo  di sciogliere ed eliminare radicalmente anche lo sporco più intenso. I panni lavati asciugati stirati ripiegati si riponevano nei canterani o nelle cassapanche con qualche rametto di spighetta (lavanda) raccolto sul monte.

I.3)  L’agricoltura

Da molti decenni Luco ha una popolazione di poco superiore ai 5.000 abitanti. E’ quindi uno dei comuni più grossi della Marsica ed è anche quello ad economia più tipicamente agricola, come conseguenza della scomparsa del lago. Prima di questa, venivano coltivate non soltanto le non abbondanti campagne che circondavano il Fucino, ma anche quel poco di pianori esistenti tra le selve del monte  (ancora  negli anni ’30 i miei .. sfruttavano – per modo di dire – dei campicelli a quasi 900 metri di altitudine, ove qualche contadino coltivava a mezzadria un po’ di granturco). Il prodotto agricolo totale era quindi abbastanza modesto. La nuova disponibilità delle terre emerse mutò radicalmente l’economia del paese, anche se queste terre erano di proprietà dei Torlonia.

La differenza di produttività delle vecchie e delle nuove terre era, curiosamente, marcata dalla differente misura agraria, la “coppa”: si chiamava coppa rustica quella del .. campo a monte ed equivaleva a un decimo di ettaro; coppa gentile era quella delle terre del Fucino ed equivaleva ad un ventesimo di ettaro. Oltre ai cereali, le nuove terre venivano coltivate specialmente a patate e a barbabietole. Le patate erano immagazzinate in ampi locali in attesa del momento favorevole alla vendita: era una scommessa assai  aleatoria date le  drammatiche altalene dei prezzi di mercato; e intanto i tuberi abbisognavano di una certa manutenzione (un minimo di riscaldamento ad evitare il gelo, la eliminazione dei cicci che potevano avvizzirle). Le barbabietole venivano portate subito al locale zuccherificio (impiantato dallo stesso Torlonia) che le ritirava ad un prezzo regolarmente contestato dalle associazioni  degli agricoltori. Un via vai di enormi carri tirati da buoi invadeva le  strade specie durante la campagna dello zuccherificio. Questo stabilimento era il solo impianto industriale esistente nella zona e dava lavoro fisso a pochissimi operai specializzati e lavoro stagionale a un certo numero di manovali.

Una parte consistente dell’area fucense compresa nel territorio del comune di Luco era stata suddivisa dall’Amministrazione Torlonia in appezzamenti organici (poderi) di 50 ettari, dotati ciascuno di casa colonica, stalla, magazzini, porcilaia, orto. Uno su due (fronteggiantisi al di qua e al di là delle strade che solcavano con regolarità la piana, a metà tra i canali di irrigazione e di scolo) aveva alternativamente un fontanile e un forno. Questi appezzamenti vennero assegnati a famiglie di esperti agricoltori prese dal Teramano – zona confinante con le Marche – e dai luchesi chiamati  marchigiani”: gente assai laboriosa che per sei giorni alla settimana si dedicava ai campi e alle bestie e alla domenica poteva venire in paese in calesse a sentir messa e a fare i rifornimenti di tutto il necessario. Non disponevano di corrente elettrica (benché ad ogni casa colonica arrivasse la linea dell’energia elettrica, utilizzata annualmente per la macchina trebbiatrice). Un ometto di buona volontà sufficientemente preparato visitava ad uno ad uno i casotti (così chiamavamo le case coloniche) per insegnare ai bambini a leggere, scrivere e far di conto. I “marchigiani” erano stati chiamati per la loro esperienza agricola, tenuto conto che i luchesi erano conosciuti solo come pescatori. L’ abitare lontano dal paese che li rendeva più rustici, il loro dialetto, la semplicità dei modi induceva qualcuno dei paesani ad atteggiamenti lievemente canzonatori nei loro confronti, ma presto essi si fecero apprezzare sinceramente e poco alla volta si sono completamente integrati nell’ambiente locale.

Una modesta porzione del territorio fucense, situata nel territorio del comune di Avezzano al confine col territorio di Luco, era gestita direttamente dall’Amministrazione Torlonia (agricoltura e allevamento, anche con sperimentazioni) che impiegava un certo numero di esperti agrari e un bel numero di salariati fissi e stagionali.

La più gran parte del Fucino era suddivisa in unità medio-piccole concesse da Torlonia ad agricoltori dei comuni ripuari con contratti d’affitto atipici, la cui peculiarità era la durata sostanzialmente illimitata (salvo ovviamente la possibilità giuridica di rescissione per gravi inadempienze, di cui non conosco casi concreti) e la facoltà per il fittavolo di trasferire a terzi – per atto tra vivi o per successione – per la totalità o per una porzione del fondo i suoi diritti e doveri; gli atti di trasferimento venivano registrati presso gli uffici dell’Amministrazione che ne prendevano atto. Il fittavolo non viveva sul fondo e utilizzava normalmente un bracciantato formato per lo più da manodopera femminile: le ragazze che nelle sere d’estate rientravano al paese dal lavoro pigiate su carretti e calessi non di rado cantavano allegramente motivi popolari abruzzesi. La mietitura, eseguita allora manualmente col falcetto, abbisognava di molta mano d’opera per un  breve volgere di giorni (il rischio dei temporali estivi che piegassero a terra le messi era sempre incombente): folle di mietitori, ciocie ai piedi e falcetto alla cintola, affluivano allora  dai paesi della vicina Valle Roveto, erano ospitati su giacigli di paglia in grandi stanzoni a cura del Comune e alle primissime ore del giorno si presentavano in piazza per rispondere alle chiamate degli agricoltori; questi braccianti erano quasi sempre più numerosi del bisogno e allora la gara per essere chiamati diveniva drammatica; la manodopera assunta per la giornata riceveva una paga (talvolta fissata d’autorità come minimo garantito) e il vitto e quest’ultimo per molti di loro era un vero miraggio.

I luchesi hanno finito per diventare i maggiori proprietari delle terre del Fucino e la loro è considerata una  comunità agricola particolarmente agiata fra i comuni circonfucensi.

La disponibilità delle terre del Fucino non fece ovviamente abbandonare le terre del “campo a monte” (le sole di proprietà dei luchesi) che continuarono ad avere le stesse colture di prima e cioè la vite, il grano, il granturco, i legumi, e che presentavano una bella vegetazione arboricola con la predominanza di querce maestose, noci, mandorli, ciliegi e – ai piedi della montagna – castagneti. Una coltura povera era quella del granturco, che attecchiva anche nelle zone più elevate e di minor valore, aveva meno bisogno di cure e correva meno rischi per le irregolarità stagionali; la raccolta delle pannocchie era però ugualmente allegra per le operazioni di scartocciamento fatte da tutti i vicini attorno al mucchio e per quegli strani apparecchi usati per la sgranatura delle pannocchie, i cui ingranaggi erano azionati da un gran volano affidato alla foga e al divertimento dei ragazzi; non si sprecavano poi né i cartocci, usati per riempire i sacconi da letto, né i fusti secchi delle piante (stammucchi) usati per il fuoco.

I.4)  L’allevamento

Attività tradizionale in tutti i centri dell’Appennino abruzzese era la pastorizia. Anche a Luco naturalmente c’erano gli allevatori di pecore e capre, ma non particolarmente numerosi. La scarsità di prati naturali (la montagna boscosa e la pianura tutta coltivata lasciano poco spazio al pascolo) obbligava gli allevatori di ovini ad utilizzare stalle in paese e casali in campagna, ove pecore e capre erano nutrite con erbe di rimessaggio. Essi comunque soddisfacevano interamente le esigenze del paese in carni (agnelli, capretti, castrati, ecc.), latte e latticini (ricotta e formaggi). Rilevante era l’allevamento di bovini,  ampiamente utilizzati come animali da lavoro (trazione di grossi carri, di aratri e altri strumenti agricoli), da latte e da carne; tenuti  in capaci stalle, davano rinomate carni di vitello e naturalmente il latte e i latticini. Il latte era venduto in strada da fanciulle che giravano di prima mattina gridando “ecco il latte” e usavano come misura un bicchierone di latta da un quarto di litro circa. Nella stagione  estiva i  bovini da carne potevano essere tenuti in alta montagna.

I.5)  Il commercio

Negli anni ’30 gli esercizi commerciali nel paese erano pochissimi. Tre rivendite di sali e tabacchi (una delle quali era gestita dai miei genitori), due o tre negozi di generi alimentari (che vendevano la pasta industriale, il riso, l’olio, lo zucchero, la marmellata, gli scatolami, il baccalà, i succedanei del caffè, il cioccolato in polvere, i cioccolatini e le caramelle e poco altro), le macellerie (che vendevano carne vaccina e ovina, quasi soltanto di domenica), una frutteria, uno o due negozi di stoffe, uno di scarpe, uno di cappelli e infine una oreficeria-orologeria. Dal meccanico-ciclista era possibile rivolgersi per l’acquisto di una bicicletta. Acquisti più importanti si potevano facilmente effettuare ad  Avezzano distante appena nove chilometri. Per i corredi femminili il paese era continuamente visitato da commessi viaggiatori che, ospitati in una casa con ragazze da marito, sciorinavano davanti ai loro occhi cupidi un campionario di meraviglie di prodotti  sofisticati. Un deposito-rivendita di attrezzi da lavoro e materiali da costruzione completava il quadro. Il genere cartoleria era un complemento di altri esercizi, come le tabaccherie, i quali al momento buono vendevano anche i pochi testi scolastici per le elementari.

Le condizioni economiche della popolazione non potevano alimentare un commercio florido. Anche i benestanti erano abituati al senso del risparmio e a una certa austerità nel sistema di vita. I ceti più umili avevano serie difficoltà a provvedersi del necessario e assai spesso acquistavano a credito (la libretta ove si segnavano gli acquisti costituiva il libro mastro fondamentale dei vari negozi) saldando poi i debiti man mano con qualche contante e più facilmente con prestazioni di lavoro bracciantile. Ma tutti risparmiavano, secondo le proprie possibilità, per fare acquisti alla Fiera annuale che ha luogo il 30 novembre, festa di Sant’Andrea.

Nella nostra tabaccheria, si vendeva tabacco da pipa a peso; le sigarette  confezionate in pacchetti da 10 si vendevano anche sciolte (perfino una singola);  ricordo che qualcuno veniva a comprare una sigaretta in cambio di un uovo.

D’altronde, si vendeva sciolto tutto: il sale, la pasta, il riso, lo zucchero, la marmellata, il tonno all’olio, la conserva di pomodoro si vendevano a chili, a libbre o a etti attingendo da confezioni all’ingrosso; non esisteva la confezione unitaria predisposta per il cliente finale (il cui imballo ha fatto così vistosamente lievitare il volume dei nostri rifiuti).

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