I.12)  Le feste

I magri divertimenti della vita quotidiana cedevano però il passo, in momenti particolari dell’anno, a feste comunitarie con divertimenti straordinari. Intendo parlare delle feste popolari, specialmente – ma non solo –  quelle connesse ai riti e tradizioni delle varie ricorrenze religiose. Ricordo in proposito le seguenti.

Le feste patronali, raggruppate in tre o quattro giorni di seguito nella seconda metà di agosto, celebravano i patroni più sentiti dal popolo, non necessariamente adottati in via canonica, che erano: la Madonna  delle Grazie dell’Ospedale (culto originato da un episodio di apparizione a un ospite del locale ricovero per  malati nel ‘700), San Giovanni Battista (titolare della Chiesa parrocchiale), San Rocco (culto residuato dalle grandi pestilenze che hanno afflitto in passato i nostri paesi come tutta l’Europa) e Sant’Antonio da Padova (il “santo dei miracoli” che ha goduto per secoli di una larghissima popolarità). Queste feste erano governate da un comitato di festaroli impegnato per gran parte dell’anno a raccogliere offerte, a preparare il programma, a scegliere i fornitori di servizi e i complessi artistici, a stipulare i relativi contratti. Ingredienti fissi della festa, come tuttora, erano: l’illuminazione delle strade e della piazza centrale del paese; il palco per la banda; le esecuzioni musicali bandistiche in accompagnamento delle processioni, in giri per il paese, nei concerti sinfonici serali; gli spari dei colpi scuri per l’annuncio mattutino della festa e le scariche di mortaretti  durante la sfilata delle processioni; i fuochi pirotecnici a chiusura dell’ultimo giorno di festa.

L’illuminazione non è cambiata gran ché da allora, salvo che per un po’ più di sfarzo. Il palco per la banda è rimasto assolutamente identico: assistere al suo montaggio era per me un attraente passatempo. Ora però il palco rimane negletto per gran parte della durata delle giornate di festa e la cosa più invadente è la mastodontica impalcatura che viene montata dal lato opposto della piazza per i concerti di  musica leggera dei pagatissimi artisti di grido.

Le bande musicali erano allora la grande attrazione delle feste; c’era tutta una cultura popolare in questa materia; si conoscevano complessi, si ricordavano solisti famosi  (la cornetta!..) e si discutevano le scelte del comitato organizzatore. A quei tempi il nostro paese non si poteva permettere di scritturare le famose bande pugliesi (ricordo qualche nome mitico, come la Banda di Gioia del Colle), ma si faceva del tutto per poter avere le pur famose bande abruzzesi, come quelle di Lanciano, di Chieti, o magari di Introdacqua. Il concerto serale era seguito col più religioso e vivo interesse specialmente dagli anziani, ma anche dai diversi giovani che a loro volta avevano velleità musicali e facevano già parte o speravano di far parte della banda del paese. L’ammirazione più incantata andava ai virtuosismi dei solisti – cornetta, flicorno, tromba da canto, ecc. – che davano prova di più lunga tenuta delle note acute, riscuotendo fragorosissimi applausi. Di solito una banda di qualche rango aveva una montura da marcia, per le varie esecuzioni durante il giorno, e una alta tenuta per il concerto serale. Non voglio  fare il panegirico delle bande: il fatto è che queste formazioni,  composte in  piccola parte di esecutori diplomati negli istituti musicali e per il resto di dilettanti di estrazione popolare (quasi sempre artigiani, che avevano la possibilità di dedicare il loro tempo alle prove di concertazione e ai servizi fuori sede),  hanno fatto conoscere ai più larghi strati di italiani, sia pure in trascrizioni per strumenti a fiato, ouverture, sinfonie e romanze del repertorio operistico italiano e straniero e anche un certo repertorio sinfonico del genere Respighi, Schubert, Ciaikovski, Liszt, Elgar, Suppé, Braga, Waldteufel, Strauss.

I cosiddetti colpi scuri erano detonazioni secche e potentissime che scoppiavano a prima ora della giornata per annunciare la festa, colpi distanziati, che pur facendo sussultare mettevano una qualche allegria. Gli spari di mortaretti sono invece una invenzione diabolica che con scariche interminabili esercita una autentica tortura sugli udenti, ma è una istituzione che resiste tuttora nonostante la  intervenuta legislazione sui limiti di decibel consentiti. I fuochi pirotecnici erano ben altra cosa dagli odierni fuochi d’artificio: veniva montata una complessa alta impalcatura alla quale si fissavano girandole, bengala, razzi e altri ingredienti del genere che erano azionati in fantasiose combinazioni e successioni, con ricchezza di colori, in ritmi frenetici e pazzi, con fontane luminose e schizzi finali di innocue cartucce fra la gente. Un anno i pirotecnici si cimentarono in un numero speciale in ossequio al regime: apparve a un certo punto il ritratto del Duce, la sua testa di profilo con l’elmetto, in linee luminose costituite da una successione di piccoli bengala che si esaurirono concludendosi con un imprevisto ma significativo sputo di un candelotto sulla folla.

Nelle feste patronali il comitato organizzatore programmava una serie di divertimenti popolari di poca spesa, che erano costituiti per lo più da gare aperte a tutti. La più tecnologicamente impegnativa era la corsa ciclistica su un circuito di pochi chilometri da ripetere più volte: in essa si misuravano appassionati della bici provenienti anche da altri centri, alcuni dei quali godevano di notorietà e tifoseria locale; fra i corridori di Luco emergeva Giosafatte che gareggiava con qualche successo in Abruzzo e anche nel Lazio; qualche anno dopo si impose con belle speranze Fausto Micocci che aveva avuto apprezzamenti anche da Fausto Coppi. La gara comportava un adeguato sistema di segnalazione del percorso, un servizio d’ordine, pettorali numerati, uno starter, una giuria, premi in coppe e in denaro. Le bucature erano all’ordine del giorno e tutti i concorrenti dovevano perciò avere con sé il palmer di sostituzione,  attorcigliato tra braccia e schiena. Una gara esilarante era la corsa dei somari, cavalcati dai proprietari che li frustavano con molto impegno e scarsi risultati, data la tendenza di questi simpatici quadrupedi ad impuntarsi oppure ad abbandonare il percorso di gara quando questo fosse prossimo alla stalla. La corsa al sacco era la preferita dai ragazzetti, che si infilavano in un sacco di juta fino al petto e dovevano quindi gareggiare saltelloni. Ma il pubblico si godeva soprattutto la gara dell’albero della cuccagna: un palo diritto, liscio e rotondo, alto tre-quattro metri e di una quindicina di centimetri di diametro, veniva saldamente piantato a terra (non si poté più farlo in piazza dopo che nel 1930 circa essa fu pavimentata con belle mattonelle grigie); alla sommità, appesi a due traversine incrociate,  si collocavano alcuni generi alimentari che esercitavano grande attrazione sui paesani più avvezzi allo stomaco vuoto: un prosciutto, un pollo, una caciotta, salsicce, un fiasco di vino, a disposizione di chiunque volesse andare a staccarli; ma il palo era abbondantemente spalmato di un grasso che non permetteva di salire finché non fosse man mano eliminato; i concorrenti sapevano di dover fare molti tentativi, arrampicandosi con un corredo di cenere o segatura con la quale si asportava ad ogni tentativo un po’ del grasso sempre più su; il massimo del divertimento del pubblico arrivava verso la fine della gara, quando il concorrente si era con tanta abilità e cautela arrampicato sino agli ultimi centimetri e mentre aveva magari toccato uno dei premi precipitava ancora una volta afflitto dalla stanchezza e dalla rabbia; tanto più grande era la soddisfazione del concorrente, e la fragorosa approvazione degli astanti, quando la meta veniva raggiunta e conquistata. La pupazza balla in piazza era  un enorme donnone di cartapesta con un operatore all’interno che la faceva danzare e caracollare e girare vorticosamente in mezzo alla folla: questa faceva ala, eccitata dalle girandole e dai razzi che man mano si accendevano addosso alla danzatrice finché essa finiva la sua breve carriera in un rogo fra il tripudio generale.

La festa dello Spirito Santo era ed è una istituzione luchese del tutto originale, una tradizione ininterrotta che dura da più di mezzo millennio. E’ una strana festa religiosa, ma non canonica, i cui celebranti sono laici (i Signori dello Spirito Santo) e il cui culto si tiene giornalmente in una casa privata, quella del Signore in carica nell’anno. La complessità delle sue regole è ben esposta in un bel libro di E. Giancristofaro (Tradizioni popolari d’Abruzzo, Newton Compton, 1995,  pagg. 84-87), il quale conclude la sua esposizione con queste parole: “Questa esperienza rende gli uomini di Luco protagonisti di un’avventura che lascia loro i segni per tutto il resto della vita, nell’impegno sociale e nell’attuazione del messaggio evangelico che la carica comporta. La tradizione per secoli ha rappresentato il conforto di questa gente contro l’impossibile della storia ed è ancora, con le sue antiche radici, valida assicurazione contro la violenza e il vuoto di speranze che la vita può presentare. Questi sette Signori della solidarietà confermano, nel piccolo paese marsicano, quanto siano importanti i messaggi della cultura di popolo e quanto ancora possano insegnare le antiche confraternite proprio nell’attuazione dei valori sociali del cristianesimo.” Benché accettata dalle Autorità ecclesiastiche che anzi partecipano alle cerimonie inserendole in qualche modo nei rituali della festa della Pentecoste, essa resta una istituzione laica che si estrinseca particolarmente  nella famosa panarda (pranzo in un locale privato – magazzino o rimessa agricola – appositamente attrezzato e addobbato, con la partecipazione di un gran numero di commensali; in antico la panarda durava più giorni e accoglieva anche i forestieri in visita e i mendicanti ) e in una quantità incredibile di dolci – ciambelle, biscotti e tisichelle di dimensioni spropositate – offerti per strada a tutti i presenti a una specifica cerimonia  e consegnati in grandi buste ai tantissimi paesani che hanno contribuito alla festa con un loro presente recato al Signore in carica. Il “mangiare” ha insomma un ruolo tipico in questa festa, che nel lontano passato era divenuta spesso occasione di eccessivi sgavazzamenti, tanto da provocare nel 1770 un intervento del Re di Napoli Ferdinando IV di Borbone per moderare tali eccessi. La antichità della istituzione ne ha mantenuto inalterato il carattere, che negli anni ’20 del secolo scorso era sostanzialmente identico all’attuale.

Il carnevale era una autentica festa buffonesca. Le mascherature erano piuttosto rudimentali, non c’era certo la possibilità di procurarsi veri e propri costumi; ci si metteva addosso qualsiasi straccio per circolare per le vie del paese facendo baccano, le facce tinte col carbone, cappellacci in testa, strumenti vari per fare strepito. Uno di quegli anni, i più noti cornuti del paese, mariti di donne irriducibili, si congregarono con molto spirito per fare una loro sfilata, muniti di vistose corna di bue, cavalcando somari ed esponendosi così ai più divertiti lazzi del pubblico.

Il veglione della Società Operaia di Mutuo Soccorso era l’avvenimento mondano più atteso dell’anno. Questa istituzione, nata giuridicamente nell’aprile 1901, si era dotata nei primi anni ’20 di una comoda sede comprendente una grande sala adatta a spettacoli e a feste. Nell’inverno si teneva il Veglione riservato ai soci (oltre 200) e alle loro famiglie. Era una festa animatissima che costituiva una occasione eccezionale di calorosi approcci fra i due sessi. Le belle ragazze erano ovviamente molto corteggiate e i vari cavalieri pretendenti facevano a gara ad invitarle a un ballo (da prenotare sul carnet della ragazza), al termine del quale la dama veniva accompagnata al buffet non tanto perché consumasse qualcosa, ma perché accettasse dal cavaliere un presente (torroni, stecche enormi di cioccolata, confezioni di cioccolatini o cremini o baci Perugina, confezioni di caramelle, ecc.) da portar via: il successo delle dame si misurava dall’abbondanza e dal valore dei trofei conquistati mettendo abilmente in gara i diversi pretendenti. La festa, allietata da un complessino di strumenti a fiato situato in piccionaia e governata da un ristretto comitato della Società organizzatrice (comprendente la persona capace di guidare la graditissima quadriglia con gli usuali ordini in francese .. paesano), durava molte ore, con i partecipanti sempre più accaldati cui a mezzanotte veniva offerto il rituale piatto di spaghetti “aglio e olio e peperoncino”. Per questa festa lavoravano febbrilmente le sartorie. Il buffet gestito direttamente dalla Società, sempre molto ricco e piuttosto caro, forniva un sostanzioso contributo alle casse del sodalizio. Non tutte le famiglie ritenevano però di mandare le loro figlie a questa festa; le mie sorelle l’hanno sempre conosciuta dai molti pettegolezzi che puntualmente fiorivano nei giorni successivi, benché mio padre fosse sempre presente come consigliere della Società e come responsabile della parte musicale.

Voglio infine ricordare, a questo punto, il tirintosto, un corteo rumoroso e petulante che al frastuono di pentole e casseruole, trombette e tamburi, andava a fare la .. festa ai poveri vedovi che avevano avuto l’ardire di rimaritarsi.

I.13)  La vita religiosa

La vita religiosa si svolgeva ovviamente secondo le regole liturgiche seguite in quel tempo in tutto il mondo cattolico. Luco aveva, come ora, una sola parrocchia, nell’ambito della Diocesi dei Marsi (oggi: Diocesi di Avezzano). Il parroco aveva allora il titolo di Abate, per successione nei benefici ecclesiastici residuali dell’antico Monastero benedettino (le terre dell’Abazia). Egli officiava la grande chiesa parrocchiale di San Giovanni Battista, unica chiesa barocca in tutta la Diocesi, edificata nella prima metà del ‘700; la antica chiesa romanica abbaziale di Santa Maria delle Grazie sita all’esterno del paese in zona archeologica; la chiesa di Sant’Antonio Abate sita all’estremo opposto del paese; non era attiva all’epoca la chiesa della Madonna delle Grazie dell’Ospedale crollata nel terremoto del 1915 e riedificata solo molti anni dopo. Fuori paese, in bella posizione ai margini della selva montana, il Convento dei Cappuccini aveva un organico di tre o quattro religiosi sacerdoti e di un laico.

Sino al 1929 era stato parroco l’Abate Del Cecato. Alla sua morte nel 1929 arrivò come nuovo parroco il giovane sacerdote Don Nicola Ansini di Scurcola Marsicana, nato nel 1900 e che aveva avuto come compagno di ginnasio in seminario il coetaneo Secondo Tranquilli, futuro Ignazio Silone. Per qualche anno questi due parroci avevano avuto  come .. coadiutore Don Fortunato Saturnini, un vecchio prete luchese afflitto da una tale obesità da poter a fatica celebrare giornalmente la messa all’altare della Madonna dell’Ospedale.

Secondo la liturgia dell’epoca, il sacerdote officiava all’altare dando le spalle ai fedeli; il rituale era tutto in lingua latina e i fedeli partecipavano rispondendo in un latino abbastanza storpiato anche se con molta devozione. La chiesa era dotata di un pulpito, affacciantesi da uno dei pilastri anteriori a mezza altezza (una angusta scaletta per salirvi era ricavata all’interno del pilastro) e di un paio di confessionali; il pulpito è stato da tempo soppresso.

Il parroco celebrava una sola messa al giorno, salvo rarissime eccezioni: nei giorni feriali a prima ora del mattino (quasi per sole donne) e nei giorni festivi verso le ore 11 con grande partecipazione dei paesani. I fedeli più agiati possedevano un banco-inginocchiatoio proprio, con la chiusura a chiave del ripostiglio per i libri di preghiera; naturalmente c’erano anche dei banchi comuni. Nella messa domenicale la chiesa era pervasa da un fitto brusio, specie nella zona centrale occupata dalle donne. Si faceva molto uso di ceri piccoli e grandi, che impregnavano l’ambiente del loro odore commisto al profumo dell’incenso.

Oltre all’immancabile sacrestano, che aveva molto da fare e doveva  impiegare una certa energia per frenare le varie pretese dei fedeli specie di sesso femminile, la chiesa utilizzava un certo numero di chierichetti che servivano messa e adempivano altre incombenze vestendo una tunica nera e la cotta bianca coi bordi ricamati. In genere l’ambiente della chiesa era nettamente maschilista nella gestione, benché frequentata normalmente da donne: queste avevano essenzialmente compiti di tipo estetico, come  tenere in ordine le tovaglie degli altari e provvedere ai fiori.

Nelle maggiori festività c’era la messa solenne, sempre con tre celebranti (il sacerdote, il diacono e il suddiacono), rivestiti dei paramenti più ricchi incrostati di ricami e disegni in argento e oro. La chiesa stessa veniva vestita a festa da un paratore forestiero che portava una immensa quantità di pesanti drappi damascati a vividi colori; questi venivano agganciati in alto al cornicione interno e scendevano giù ricoprendo sfarzosamente pareti e pilastri. In tali festività saliva al pulpito un predicatore esperto venuto da fuori, del quale poi si discutevano fra i parrocchiani i meriti oratori; di solito veniva molto apprezzata la dinamica dei toni e l’irruenza dell’eloquio.

La chiesa era dotata di un buon organo classico. Organista era stato mio nonno Alfonso; nella mia fanciullezza si erano succeduti due fratelli Danese, Giovanni e Cesidio. L’organo era azionato da due grossi mantici che erano collocati appena dietro il corpo centrale con la tastiera: dovevano essere alternativamente caricati da un addetto che ne alzava uno sollevandolo a forza con un piccolo argano perché si riempisse d’aria, mentre l’altro premuto dal peso di una grossa pietra si sgonfiava cedendo l’aria alle canne; anch’io  qualche volta ho tirato i mantici in coppia con un altro ragazzo, sotto la minaccia dell’organista che temeva l’affievolirsi del suono ove noi allentassimo per distrazione il ritmo delle tirate. Nelle messe cantate, all’organo si affiancava di regola la voce reboante di Zi’ Peppone che rispondeva al canto gregoriano dell’officiante. In feste particolari, un coro femminile accompagnato da un violino eseguiva numeri extra come l’Ave Maria di Gounod e composizioni analoghe.

Talvolta si poteva incontrare in strada il prete in cotta e stola, recante una pisside, accompagnato da un uomo che sorreggeva un ampio ombrello di seta bianca bordato d’oro, quasi piatto, e preceduto da un chierichetto che scuoteva il campanello rituale: portavano il viatico (la comunione eucaristica) ad un malato grave. Visite più discrete faceva il prete quando portava l’estrema unzione al capezzale di un morente.

L’anno liturgico prevedeva: per il 1° gennaio la festa della Circoncisione, ora abolita; per il 6 gennaio l’Epifania, festa della Befana tanto attesa dai bambini e che arrivava l’ultimo giorno prima del ritorno a scuola; il 17 gennaio, festa di Sant’Antonio Abate, davanti alla chiesa omonima si portavano gli animali – per lo più le bestie da lavoro – per la benedizione rituale; il 2 febbraio, compleanno di mia madre, la festa della Candelora con la benedizione delle candele che poi venivano conservate con cura a casa per essere accese a scopo propiziatorio quando scoppiavano i temporali più violenti; il 3 febbraio la festa di San Biagio, quando i fedeli, a protezione contro il mal di gola, ricevevano sotto il mento una leggera unzione di olio benedetto; il mercoledì delle Ceneri il celebrante deponeva un pizzico di cenere sulla testa dei fedeli pronunciando la formula “memento homo quia pulvis es et in pulverem reverteris”; in un giorno di primavera si tenevano le “rogazioni” consistenti in una processione che si inoltrava in campagna con preghiere - sempre in latino – per propiziare il buon raccolto.

Le funzioni della Settimana Santa erano molto complesse e seguite con grande interesse da tutta la popolazione. La domenica delle Palme si portava a casa dalla messa un rametto di olivo benedetto. Quel giorno e nei tre giorni successivi si cantava a messa la Passio di Matteo e degli altri tre evangelisti: sempre in latino e con almeno due preti, uno come storico e l’altro per le voci dei personaggi  del racconto evangelico. Il Giovedì Santo si ricordava la morte di Cristo  in un momento della liturgia in cui si scatenavano i battenti; il battente era una tavoletta di legno rettangolare (cm. 30 x 20 circa) con una presa in alto; a ciascuna delle due facce era applicata una sorta di maniglia metallica snodata; ruotando la tavoletta rapidamente verso destra e poi verso sinistra le maniglie percotevano il legno con un forte rumore secco; al fracasso dei battenti si aggiungevano  furiose bastonate sui banchi  da parte di ragazzetti, che prima del momento giusto venivano tenuti a freno dal sacrestano munito di una lunga canna. Quindi si legavano le campane e si coprivano tutti gli altari in segno di lutto. Aveva poi inizio una lunga predica dal pulpito,  protratta con abilità fino al termine dell’asta tenuta in sacrestia con la quale si assegnava ai vari gruppi concorrenti, in base alle loro offerte in denaro, il diritto di portare in processione la Madonna Addolorata, il Cristo Morto, la croce recante tutti i simboli della passione, i candelabri, ecc. e che sovente arrivava a momenti di estrema tensione e di violenti battibecchi fra i concorrenti; le considerevoli somme offerte in primo luogo per la Madonna arrivavano talvolta dall’America inviate a questo scopo da famiglie di emigrati. Finita l’asta, una processione ormai notturna usciva dalla chiesa  per un breve percorso intorno alla piazza come prova generale per il giorno successivo. Intanto, erano stati allestiti in ogni chiesa i sepolcri simbolo della tomba di Cristo, con ornamenti vari di lutto, fiori e soprattutto tanti rami di mortella, dal particolare odore assai marcato, nonché dei cestini in cui si erano fatti sviluppare germi di grano cresciuti poi al buio in corte piantine pallidissime. Il Venerdì Santo al mattino la grande processione partiva dalla chiesa parrocchiale, arrivava alla chiesa dei Cappuccini e dopo una sosta per una colazione a base di pagnottelle con alici e olio riprendeva a sfilare tornando al paese che riattraversava tutto sino alla chiesa di S.Maria, altra sosta e poi ritorno all’origine. Alla processione  accompagnata dalla banda con marce funebri (talvolta si eseguiva per l’occasione una nuova composizione che così entrava nel repertorio) partecipava quasi tutta la popolazione; era perciò una sfilata lunghissima e piuttosto disordinata, governata da un paio di omaccioni in tunica e cappuccio e un gran bastone, i quali si affannavano su e giù per far sollecitare la marcia o farla rallentare, anche in relazione alle varie soste necessarie per il cambio dei portatori delle statue: per l’arresto si gridava “Ave Maria”, per la ripresa del cammino “Pater Noster”. Gli omaccioni non lesinavano improperi e anche parolacce ai renitenti e infierivano specialmente sulle povere “Figlie di Maria” vestite di bianco, meno portate alla disciplina di marcia. Intanto un gruppo di cinque o sei popolane tenendosi insieme a braccetto cantavano a squarciagola un canto della passione, questo sì in italiano. Con le campane legate, l’annuncio delle funzioni religiose veniva diffuso nel paese da ragazzotti che azionavano le cosiddette raganelle, aggeggi di legno che con un movimento di rotazione sgranavano un forte strepito secco. Il Sabato Santo alla messa di mezzodì avveniva la resurrezione (una statuina di Cristo nudo con in mano un piccolo vessillo bianco di trionfo spuntava dietro l’altare maggiore e saliva pian piano sino ad assumere la collocazione definitiva), con lo scioglimento delle campane che si slanciavano a distesa in gran tripudio e con contemporaneo sparo di mortaretti. Nel frattempo davanti alla chiesa era stata allestita ed accesa una gran catasta di legno, con frasche offerte il giorno prima dalla gente a raccoglitori che giravano gridando “fuoco, fuoco benedetto”; all’uscita dalla chiesa, ogni famiglia prendeva dal rogo un tizzo acceso che serviva per ravvivare il focolare precedentemente spento e coperto di cenere. La domenica di Pasqua  era celebrata con una messa cantata solennissima e l’uso dei paramenti ecclesiastici più lussuosi.

Per il resto dell’anno si sentiva in particolare la festa dell’Ascensione (la sera della vigilia si lasciava sul davanzale di una finestra un bicchiere colmo di chiare d’uovo; al mattino dopo si trovava la materia filamentosa disposta in disegni da interpretare con molta fantasia per ricavarne buoni auspici) e la festa del Corpus Domini in un giovedì 60 giorni dopo la Pasqua, quando si portava in processione un ricco ostensorio contenente l’ostia consacrata sotto un grande baldacchino di drappo serico sorretto da sei portatori, per le strade disseminate di petali di rose e pavesate nei balconi da cui pendevano le più belle tovaglie e coperte di seta possedute dalle famiglie.

Non ricordo niente di particolare circa le feste religiose del resto dell’anno.

Per la devozione dei fedeli resta tuttora la suggestione del pellegrinaggio al santuario della SS. Trinità di Vallepietra nel Lazio: un gruppo assai numeroso ed informe  faceva a piedi il lungo tragitto in andata e ritorno attraverso valli e monti, uomini e donne di varie età, le donne spesso con calzature confezionate per l’occasione, in convergenza con altre innumeri comitive provenienti da tutta la Marsica e da gran parte della Provincia di Roma; al rientro al paese nel giorno della festa liturgica la comitiva, provata dalla stanchezza e talvolta dal maltempo, sfilava in processione – sempre cantando l’antico inno “Viva viva sempre viva la Santissima Trinità” – guidata da un robusto giovane recante come un vessillo una petarola e cioè un bel tronco di giovane faggio. La bella consuetudine sta riprendendo ultimamente fra i giovani, mentre la folla dei pellegrini aumenta con l’uso dei moderni mezzi di trasporto.

Come già detto, le feste religiose dei Patroni, indipendentemente dalla data canonica del loro culto, si tenevano come ora in agosto, con la massima solennità.

Avvento e periodo natalizio non presentavano nulla di notevole rispetto ad oggi.

I.14)  La vita culturale

In campo culturale, gli anni ’20 offrono ben poco. Luco ha sempre avuto scarsità di persone dedite alle professioni liberali e quindi in grado di costituire punti di riferimento per lo sviluppo di iniziative intellettuali.  A parte gli insegnanti delle scuole elementari, la classe colta era rappresentata da un medico, un farmacista, un notaio, un avvocato, uno o due ingegneri, un pittore e naturalmente il prete, oltre a qualche altra singola personalità un po’ coltivata.

La scuola elementare – con le diverse classi, una sola per ciascuno dei cinque anni di corso, disseminate in vari locali di fortuna, prima della costruzione dell’edificio scolastico avvenuta a inizio anni ’40 – era frequentata solo da una parte dei ragazzi in età scolastica: troppi di loro abbandonavano man mano gli studi, magari dopo ripetute bocciature, per essere utilizzati in lavori minorili in agricoltura o nella pastorizia, oppure in apprendistato presso artigiani. Pochissimi erano comunque i ragazzi che proseguivano gli studi nelle scuole superiori.

L’analfabetismo  era  diffusissimo fra gli anziani, molti dei quali dovevano ricorrere a terzi per farsi scrivere o per farsi leggere una lettera. E con la scarsissima mobilità delle persone e l’assenza di mezzi di comunicazione come il telefono, la corrispondenza postale era l’unico mezzo vero e proprio di relazione a distanza fra gli uomini.

A parte i pochi testi scolastici (sillabari, sussidiari, libri di lettura unici per tutta Italia per ciascuna delle classi terza , quarta e quinta elementare), circolavano pochi libri e pochissimi giornali. Non esisteva la radio; erano pressoché sconosciuti i dischi. Il cinema era muto – e tale rimase per Luco almeno sino a metà degli anni ’30 – e si poteva vedere in rare proiezioni nella sala della Società Operaia, dove i testi scritti con didascalie o dialoghi che interrompevano l’azione venivano letti a voce alta e in coro da una parte degli spettatori, sillabando a fatica le parole, a beneficio degli altri che erano analfabeti o troppo lenti nella lettura.

Una o due volte l’anno poteva capitare in paese una compagnia di guitti, generalmente affamati, i quali contavano non solo sui non lauti introiti della biglietteria, ma anche sugli inviti a cena di cui si faceva carico ben volentieri qualche famiglia. Queste tournées arrivavano in particolare durante la Settimana Santa per dare affollate recite di “Christus” e simili; in altri momenti arrivava una compagnia che era lieta di offrire l’interpretazione de “La fiaccola sotto il moggio” con i personaggi dannunziani di Angizia Fura la mala femmina di Luco e del Serparo di Luco (gli artisti venivano così ad .. abbeverarsi alla fonte).

Non di rado, recite preparate con tanto entusiasmo e molto attese erano allestite da una occasionale formazione dilettante locale sotto la regia di un vivace insegnante elementare paesano: si trattava in genere di commediole, spesso commedie musicali di repertori oratoriali, interpretate esclusivamente o prevalentemente da ragazze di buona famiglia, con un significativo rovesciamento delle vecchie regole ecclesiastiche che bandivano le donne dalla scena.

Una volta arrivò ad Avezzano il famoso Carro di Tespi e alcuni luchesi poterono così finalmente recarsi ad assistere ad una rappresentazione in piena regola di un’opera lirica.

 precedente successiva