I.15)  La vita privata

E’ ora di rivolgere un po’ di attenzione alla vita privata della gente negli anni ’20, cominciando dalla casa. Va premesso che a Luco non esiste l’appartamento in condominio, ma soltanto la casa monofamiliare, unità abitativa che va dalla cantina interrata sino al tetto. I rarissimi casi di edifici con più famiglie sono soltanto grandi case di famiglie ora decadute o assenti, suddivise alla meglio in più unità abitative e date in affitto dall’unico proprietario. Nessuno avrebbe accettato ancora recentemente di condividere la proprietà di un edificio comune in regime di condominio; una eventuale proprietà spezzettata era soltanto la conseguenza di divisioni ereditarie.

La normale casa dell’epoca, quale che sia la sua dimensione, deve sopportare qualunque aumento del numero dei familiari; così, famiglie assai numerose, ma tutt’altro che rare (dieci componenti tra genitori, figli, nonni e magari qualche zia zitella non sono un organico esagerato) devono convivere in pochissimi locali, ognuno dei quali nella notte diventa una camera da letto. Il letto nuziale, in ferro, altissimo, ha un pianale di assi sul quale sono disposti un saccone di cartocci di granturco (facilmente rinnovabile anche di anno in anno) e un materasso di lana (a distanza di anni affidata allo scardalano per la ripettinatura); esso con i genitori ospita anche i bambini più piccoli; nello spazio sotto al lettone possono essere riposte cose di ogni genere. I normali letti individuali sono di solito occupati da due ragazzi, magari uno da capo e uno da piedi. Giacigli sono dappertutto e di giorno fanno funzione di posti a sedere. Naturalmente è raro che una tavola possa accogliere attorno a sé tutti i componenti della famiglia, i quali mangiano dove capita, spesso con la scodella sulle ginocchia.

Il centro della casa è piuttosto il camino, intorno al quale, d’inverno ma anche d’estate, si raccolgono i presenti per coltivare l’unità della famiglia. Alla traversa centrale del camino è appeso il paiolo che serve per cuocere i maccheroni, la polenta, le minestre, mentre la pignatta borbotta accanto alla brace per la lenta cottura dei fagioli. Il ripiano del camino, ripulito da brace e cenere, diventa piano di cottura della focaccia, la quale viene protetta da un coppo a sua volta ricoperto dalla brace già accantonata: la pizza rossa (di farina di granturco) calda appena estratta da sotto il coppo va a ruba fra i familiari, specie se era stata impastata con un po’ di frìzzoli di maiale; sotto il coppo si cuociono anche le patate spaccate a metà e appoggiate sul taglio. Attrezzi indispensabili per la gestione del camino sono il soffietto, la paletta, lo spunzone, lo spiedo, una scopetta.

I mobili di casa sono tutti di legno, fatti dai falegnami locali in massello ben stagionato (quercia per i tavoli, castagno per i canterani); i falegnami non conoscono l’impiallacciatura, che comunque ai paesani dà l’idea di falsità.

In poche case esiste un gabinetto di decenza (ma non esiste comunque la carta igienica: pezzi di carta di giornale infissi a un chiodo ne fanno le veci); il comodino serve soprattutto per riporvi il vaso da notte. Non c’è acqua corrente, ma la conca appoggiata su un robusto ripiano in  un angolo della cucina. Si cucina a fuoco di legna e frasche nel camino e con la brace nella fornacina a fianco, avvivando i carboni con una ventola fatta di grandi penne di gallo fissate a ventaglio.

La cantina è sempre grande ed è una parte importante della casa, ove si conservano il vino in botti e botticini, le derrate (grano, legumi vari, patate, ecc.), la legna da ardere,  i tanti strumenti per il lavoro agricolo (pertecare ossia piccoli aratri, erpici, falci, falcetti, forche e forconi, rastrelli, picconi, bidenti, zappe e zappette, vanghe, potatrici, pompe per l’acqua ramata, ecc.), attrezzi di ogni genere, la vasca per la pigiatura dell’uva, panni e pannoni e sacchi di iuta, le bottiglie di pomodoro  e la conserva. Qualcuno vi tiene anche polli e conigli. I più poveri, in luogo di tante delle provviste ora elencate, vi tengono il somaro, compagno di lavoro e di vita, amato e bastonato come un qualsiasi familiare.

Il sottotetto è la residenza preferita dei topi, che vi si esercitano in improvvise periodiche scorrerie e con i quali si convive pacificamente, gatto permettendo; questo sornione padroncino di casa ha il suo buen retiro nella cantina nella quale rientra attraverso l’apposito passaggio, la gattaiola, ritagliato in un angolo in basso della porta.

La porta della cantina ha una serratura con una grossa chiave di ferro che serve per chiudere. La porta dell’abitazione ha una serratura nella quale è infilato un lungo chiavino di acciaio che serve normalmente per azionare lo scatto di apertura (e perciò giorno e notte è sempre lì) e solo in rare occasioni – lunghe assenze – serve per chiudere; quando la porta viene chiusa, il chiavino si lascia nascosto, per modo di dire, sul davanzale di una finestrella accanto o in un altro anfratto.

Le abitazioni sono serrate l’una all’altra e fanno insieme il vicinato, che è una specie di comunità di fatto in cui ognuno segue giorno per giorno la vita dell’altro, in una mutualità pressoché completa. Un gruppo di sedie portate sul pianerottolo davanti a una delle case costituisce il salotto che nei pomeriggi d’estate prima dell’ora di cena riunisce le vicine per lo scambio delle notizie del giorno, mentre i bambini ruzzano attorno.

Le suppellettili di una normale abitazione sono quelle necessarie e poco più. Il ninnolo, se c’è, è capitato per caso. Una bambola vera e propria con ricco abbigliamento, se esistente in casa, troneggia sul letto principale appoggiata al cuscino. Un mobile importante che si trova solo in casa delle famiglie più agiate è la cristalliera, dove si conservano in bella mostra i pochi pezzi della dotazione di bottiglie e servizi da caffè, da punch, da liquore, da dolci, insieme con statuine e immagini sacre. In un qualsiasi posto della casa sono esposte le foto di componenti della famiglia, in pose assolutamente inespressive assunte su ordine del fotografo, che scattava dopo un andirivieni tra la postazione sotto il panno nero dietro la grande macchina a lastre di vetro e il povero soggetto intimidito dalle tante indicazioni e raccomandazioni: personaggi in abiti da sposi, uomini in divisa militare, bimbi nudi su una candida pelle di agnello, giovani impettiti accanto alla classica colonnina coronata da un vaso di fiori.

Le mie sorelle per la clientela di sartoria hanno il vis-à-vis, un armadio a tre ante munite di specchi che, manovrate, permettono alle signore di vedersi anche le spalle e giudicare come cade l’abito in prova.

Non esistono il divano o la poltrona, qualcuno ha il sofà che è un rudimentale divano-letto. Le sedie, ben robuste, sono di legno pesante e in genere impagliate (l’impagliatura viene rifatta all’occorrenza dal locale seggiaro) e sono assortite da qualche predella destinata ai piccini. La sedia del nonno, con l’impagliatura un po’ allentata, è in un angolo accanto al camino. Il tavolo ha i cassetti e una dotazione estraibile di ripiani e matterelli per spianare la sfoglia di pasta.

La cucina ha una dotazione importante di batterie di rame e poi anche di alluminio. I pezzi di rame, indistruttibili, sono tenuti appesi in vario modo ad una grande rastrelliera e luccicano dignitosamente specie dopo le rituali ripuliture e rilucidature pasquali fatte con la cenere. Alcuni recipienti sono di metallo smaltato (catini, brocche, insalatiere), ma la generalità delle stoviglie è di coccio: piatti, spasette, spase (piatti da portata), tazze e ciotole varie sono una dote preziosa; e così quando una spasa si spezza, si mettono da parte i pezzi in attesa del passaggio di quell’utilissimo artigiano vagante che è l’ accomoda-piatti-e-ombrelle, il quale fa la ricucitura dei pezzi rotti praticando dei fori a coppia in corrispondenza dei due lembi della rottura, applicando delle grappe nei fori e saldando il tutto con una colla-ingessatura; la spasa ritorna così in servizio attivo per il resto della sua non breve vita.

A quei tempi non esisteva la plastica (altro che nelle povere materie della celluloide e della bachelite) e non esistevano né lo spazio né le condizioni economiche per le abitudini consumistiche cui ci siamo poi abituati. Ogni pezzo di stoviglia era perciò trattato con cura per ridurre al minimo il bisogno di rivolgersi al piattaro in occasione della fiera di Sant’Andrea. Certo, l’immagine di un bacile di coccio ricucito non darebbe oggi garanzie di igiene, ma per lo standard di allora si era in piena normalità.

Tovaglie e canovacci (le spare) usati in cucina sono robustissimi. Nelle occasioni, si mette sulla tavola una tovaglia di tela di Fiandra. In tutti i ripiani esistenti nella casa si dispongo centrini ricamati di fattura casalinga. La biancheria da letto è quella del corredo da sposa, che sopravvive in parte alla durata di vita della coppia: per l’uso normale si ha il lenzuolo di sotto che è abbastanza ruvido, di una tessitura mista di cotone e canapa, il lenzuolo di sopra è di solo cotone. La famiglia possiede anche lenzuola e federe ricamate, a traforo, che si adoperano in casi straordinari e in particolare quando la puerpera riceve le prime visite delle amiche.

I rischi per la biancheria da letto possono presentarsi a causa degli scaldaletti, il più semplice dei quali è un recipiente di rame bucherellato nel coperchio, pieno di carbone acceso, che da un lungo manico viene manovrato su e giù tra le lenzuola; più complesso è il prete e cioè una struttura bombata in liste di legno con un ripiano alla base foderato di metallo: su quel ripiano si appoggia un piccolo braciere; la struttura crea un gran vuoto tra le lenzuola e permette al calore del braciere di scaldare tutto il letto; talvolta una malaugurata disattenzione causa una fuoriuscita di pezzetti di carbone che possono bruciacchiare lo spesso lenzuolo di sotto.

I.16)  Usi e abitudini personali

Il capo coperto è una regola fissa per gli uomini, sia esso con il cappello, con la coppola o con qualsiasi tipo di berretto. L’uomo è a capo coperto per tutto il giorno, anche in casa, anche a tavola. Togliersi il cappello è un atto di omaggio che si pratica davanti a una persona di rispetto e naturalmente in chiesa; coppola o berrettino anche per i ragazzetti. Penso che l’uso derivi dalla necessità di difendersi dal freddo in inverno e dalla polvere in estate.

Anche le donne sposate vanno a capo coperto, il famoso fazzoletto ripiegato sulla testa; in questo caso anche per nascondere la chioma. Le chiome sciolte si portano solo nell’intimità: in pubblico la donna porta il tuppo (la crocchia), la ragazza porta le trecce. Il velo che le donne usano in chiesa ha la stessa giustificazione nella pudicizia (anche la veletta sul viso delle vedove ha una funzione analoga). I capelli corti à la garçonne saranno una audace conquista femminista degli anni trenta con la quale alcune ragazze spregiudicate si liberano di spilloni, fermagli, pettinesse, ecc.

Il ventaglio è di uso comune, con una gran ricchezza di forme, di materiali e di decorazioni.

Baffi più o meno semplici o invece maestosi o, come si diceva, a manubrio, qualche basettone (i favoriti), qualche barba di ridotte dimensioni, generalmente un pizzetto, fanno parte del panorama ordinario. La barba viene rasata ogni giorno solo da persone che o per necessità di lavoro o per condizione sociale hanno rapporti civili col prossimo; i comuni mortali si sbarbano solo la domenica e  per questo vanno dal barbiere. Chi si fa la barba da sé non conosce rasoi di sicurezza, ma usa il rasoio a lama lunga d’acciaio ripiegabile nel manico (i più diffusi sono di marca Solingen) che va affilato ogni volta sulla apposita correggia.

Le donne non usano trucco: le giovani signore e le ragazze conoscono il rossetto, ma soprattutto fanno largo uso di cipria (la francese Coty) che deve attenuare i colori naturali e dare un ché di diafano. Non si conosce il depilatore, sicché è normale vedere signore baffute, tanto da aversi il detto “donna baffuta sempre piaciuta”.

Gli odori naturali sono camuffati solo da pesanti profumi di tipo orientale: al di fuori dei limitatissimi strati sociali consumatori di profumeria, gli assembramenti di donne specie al chiuso producono un forte tipico  odore di sudorazione.

Gli uomini non usano profumi di nessun genere.

L’uomo indossa correntemente un panciotto, che è invece un giubbotto nel lavoratore manuale. Il panciotto o gilet è normalmente di stoffa diversa e più appariscente di quella dell’abito; ha due taschini in uno dei quali si tiene l’orologio – la cipolla – sospeso a una lunga catena possibilmente d’oro la cui altra estremità è agganciata a un’asola dello stesso panciotto. A Luco non si conosce ancora l’orologio da polso.

La donna sposata porta sempre al collo un monile d’oro o almeno una bella collana di corallo; collanine d’oro o d’argento, spillette al petto, braccialetti sono per le signorine. La fede d’oro, ben consistente, la portano mariti e mogli, queste eventualmente con qualche altro anello di pregio.

Le calze, di cotone o di lana, sono sempre fatte in casa, cominciando dal pedale: è il lavoro che più correntemente si vede fare da una donna momentaneamente libera da altri impegni. Le ragazze  moderne cominciano a usare le calze di seta con l’elastico a sommo della coscia (la giarrettiera è privilegio di qualche rara signora): saranno il loro tormento per le facili sfilature che debbono essere portate a riinfilare presso bottegucce di artigiane capaci  di fare anche da rammendatrici.

Le scarpe sono quasi uguali per uomini e donne. Gli scarponi sono solo per uomini. Gli uomini di qualche rango usano gli stivali. Il cacciatore sugli scarponi robusti appoggia i gambali. Le donne di società usano stivaletti che vengono allacciati con un apposito aggeggio.

Dato lo stato delle strade, le persone civili lustrano giornalmente le scarpe; il lustrascarpe è un mestiere diffuso.

L’igiene personale è fortemente condizionata dalla limitata disponibilità di acqua in casa. Ai cattivi odori si è abituati per la diffusa presenza di immondizie nei luoghi pubblici. L’igiene collettiva condiziona anche quella individuale: vedi la facilità con la quale si raccolgono pidocchi  nelle scuole, nei mezzi di trasporto e magari anche in chiesa. Pulci nella biancheria personale, cimici nei letti sono compagni fedeli dell’uomo.

Lo sputare per terra e anche nei pavimenti delle abitazioni e perfino nei luoghi pubblici non scandalizza nessuno. Qualche reazione può suscitarla chi senza ritegno schizza intorno a sé immonde espettorazioni; i barbieri per questo sono attrezzati con sputacchiere. Negli anni 30 il regime ha diffuso in tutta Italia in molte migliaia di esemplari un cartello con la scritta: “La persona civile non sputa in terra e non bestemmia”.

I.17)  L’ambiente fisico

Le  vicende storiche del lago Fucino danno una dimostrazione concreta della ciclicità delle condizioni climatiche: in assenza di un normale emissario,  le acque del lago per lunghi periodi di piovosità crescevano sino ad inondare le campagne circostanti e anche i centri abitati; in altri lunghi periodi di siccità le acque si ritiravano lasciando zone paludose e campi coltivabili. Scomparso il lago, i tempi della mia fanciullezza erano marcati da un ciclo di umidità e di basse temperature, per cui ad esempio le nevicate erano abbondanti e di lunga durata: ogni anno bambini e ragazzi erano in grado di fare grandi pupazzi di neve che restavano in piedi per giorni e giorni. Il freddo, che aveva fatto scomparire alcune piante ora ricomparse come il fico, produceva abbondanza di ghiaccio appeso alle grondaie – i candelotti – e sul terreno, favorendo le attività di .. pattinaggio che allora si praticavano nelle lunghe scivolarelle lucide come vetro. I geloni alle mani erano l’inevitabile tributo da pagare all’inverno. E credo che anche la potina (affezione della pelle del viso dovuta a disidratazione) fosse dovuta ai venti gelidi che raschiavano la faccia.

Il solo rimedio contro il freddo era il fuoco di legna. La legna si acquistava, a misura e non a peso, dai boscaioli del vicino paese di Villavallelonga per il rifornimento annuo o dai legnaioli paesani per quantitativi minori. I ciocchi ardevano a lungo. Il più grosso si metteva al camino nella notte di Natale ed era ancora acceso per tutta la mattina successiva. Ognuno prima o poi tagliava un qualche vecchio albero delle proprie campagne, risparmiando per un po’ gli acquisti di legna. Elemento indispensabile per avviare e alimentare il fuoco da cucina erano però le frasche; esse venivano fornite dai legnaioli paesani che le riportavano giù dalle nostre montagne, gli uomini con i muli, le donne sulla schiena: queste povere donne riuscivano a mettere insieme enormi fascine che si legavano addosso con apposite cinghie e che trascinavano in discesa lungo i passaggi aperti in mezzo alla fitta selva, evitando i sentieri più battuti e più controllabili dalle Guardie forestali; la loro attività era infatti perseguita se le frasche non erano del tutto secche. La lotta per la vita di queste miserabili creature poteva depauperare il verde delle nostre montagne, che infatti allora e poi nell’immediato dopoguerra hanno sofferto, come soffrivano nel secolo precedente a causa del consumo di fascine collocate dai pescatori nel lago per favorire la riproduzione dei pesci. La selva di Luco è ora, alle soglie del 2000, molto più ricca e folta che allora, per merito della  sopraggiunta disponibilità di gas metano distribuito dapprima in bombole e poi in rete. E’ questo l’unico settore in cui si è verificato un sensibile miglioramento delle condizioni ecologiche a Luco.

Per il resto, è purtroppo da registrare la scomparsa di alcune specie botaniche e faunistiche.

Il piccolo dizionario enciclopedico Nuovissimo Melzi, nelle edizioni che hanno avuto circolazione almeno  sino a metà del ‘900, alla voce “Luco nei Marsi” continuava ad indicare come caratteristici dell’economia locale “pascoli, ulivi e viti”. Ho già detto della estrema scarsezza dei pascoli. Gli ulivi erano invece scomparsi già alla fine dell ‘800. Le viti hanno avuto vita  molto difficile lungo la prima metà del ‘900, quando  peronospora e soprattutto fillossera, risalendo gradualmente dal meridione, hanno poco alla volta fatto scomparire i vecchi vitigni abbastanza variegati (con una consistente presenza di aleatico) imponendo un costoso rinnovo dei vigneti con il profondo scasso per l’impianto delle nuove barbatelle americane immuni da quelle malattie.

In genere si è verificato negli anni un progressivo abbandono degli alberi da frutto, declassati dalla abbondante presenza sul mercato dei prodotti della moderna frutticoltura. I numerosi alberi di ciliegio e i diversi viscioli sono ormai dei semplici sopravvissuti che nessuno più cura. Quasi scomparso è il sorbo. Ai miei tempi  ogni possibile risorsa della natura veniva coscienziosamente sfruttata almeno da noi ragazzi, da certe selvatiche meluzze dell’Abate Farina ai vari frutti di bosco, come le nocciole, le more, le corniole, le fragoline, fino alle tregne (prugnoli selvatici) e alle bacche di rosa canina; si arrivava a mangiare le infiorescenze delle acacie (i chicchelecchè), a succhiare i succiaméle, a raccogliere i corimbi maturi di sambuco (le ciuciurummelle”) per usarne il succo nero come inchiostro. Era comunque importante per tutte le famiglie raccogliere le varie erbe campestri da cuocere o da condire ad insalata; un uso sopravvissuto, anche per merito mio, è la raccolta primaverile dei tamigni, le punte tenere della vitalba, leggermente amarognole, gustose nella frittata. Mia madre, ben esperta di erbe come tutti allora, all’occorrenza raccoglieva la  malva di prato per farne certi decotti, e naturalmente utilizzava  il timo, il rosmarino, la borragine, la spighetta, insomma tutte cose disponibili in natura.

Si coltivavano invece largamente i legumi, fagioli, lenticchie, ceci, cicerchie, fave, perché si potevano conservare secchi per tutto l’anno. Si coltiva ancora negli orti qualche legume, ma più fagiolini che fagioli, insieme a molto pomodoro.

Ho notato però la completa scomparsa, per quanto ho potuto accertare, di due specie botaniche:

1) una pianta di cui non conosco il nome italiano e che in dialetto si chiamava addore (odore), pianta erbacea costituita da verdissime foglie lanceolate, nascenti a ciuffi da terra, alte sui 20 centimetri, che una volta spezzate emanano un forte odore di clorofilla;

2) la pianta del topinambur, che da ragazzi conoscevamo bene per poterne estrarre da terra i caratteristici rizomi che chiamavamo tartufi e di cui volentieri sgranocchiavamo la polpa bianca madreperlacea frantumabile a scaglie.

Queste due piante sono ora praticamente sconosciute nell’ambiente e comunque io non ne ho trovata nessuna traccia.

Quanto alla fauna, da notare innanzitutto la scomparsa quasi totale dei rettili. La serpe era una volta un  essere  familiare, che aveva legami storici e letterari con il mio paese: dai sacerdoti della dea locale Angizia che sapevano guarire dai loro morsi (Eneide, libro settimo), dai serpenti che l’imperatore Eliogabalo fece una volta  catturare in gran numero per farli spargere dai sacerdoti marsi fra la folla che si recava al circo (Lampridio ), fino al personaggio dannunziano del Serparo di Luco. Negli anni 20 e 30 non era raro incontrare nei viottoli di campagna una serpe uccisa e lasciata là, cervone o saettone, tra il verde e il grigio, di discreta lunghezza. A primavera avanzata era anche facile trovare pressoché intatta la pelle quasi trasparente che la serpe abbandonava sgusciandone fuori dopo aver riformato la nuova al termine del letargo invernale. Ricordo che un giorno,  in una nostra vigna dove io accompagnavo volentieri mio padre per giocare in quell’ambiente per me ricco di recessi  multiformi, cercavo in una  siepe un ramo liscio che mi occorreva per qualcosa: uno che si presentava molto bene e che stavo per afferrare e divellere mi sfuggì improvvisamente e scomparve, dandomi brividi di emozione. Abbastanza frequenti erano anche le vipere, che però sembravano localizzate sulla montagna pietrosa che sovrasta la chiesa di S. Maria; ora, di questi rettili si è persa la memoria.

I concimi chimici usati nell’agricoltura fucense hanno fatto scomparire alcune specie di uccelli. Innanzitutto le quaglie che in gran numero saltellavano in agosto fra le stoppie e che erano una sicura risorsa per i cacciatori: si domandava loro non se ne avevano prese, ma quante ne avevano prese. Purtroppo, la lotta tra fauna avicola e cacciatori è stata persa da ambedue gli avversari. Altra scomparsa è quella delle rondini: sotto le grondaie di alcuni edifici specialmente nella piazza centrale erano in bella vista file dei loro caratteristici nidi grigi di aspetto cementizio; e nelle sere estive prima del tramonto si vedeva e si sentiva un tripudio di voli sfreccianti e garruli, una pazza festa di allegre brigate in libera uscita. Ora è rimasto solo il ricordo.

Non si vedono più neanche le lucciole, che pure erano una compagnia nelle notti buie d’estate non rischiarate dalla odierna illuminazione pubblica; i bambini, con la loro incosciente ferocia , ne acchiappavano per schiacciarle fra le dita e continuare a vederne la fosforescenza sui polpastrelli. La  ferocia dei ragazzi si sfogava soprattutto sulle povere lucertole, destinate a lasciare sul terreno un pezzo della loro coda ancora per un po’ guizzante. Una scomparsa definitiva è stata quella dei ramarri, che spaventavano un po’ i bambini per essere molto più grandi delle lucertole, saltare fra i rami delle siepi ad altezza delle loro testoline ed esibire quel loro splendido ma minaccioso verde smeraldo.

I concimi nel Fucino hanno fatto danni anche alla fauna ittica dei canali. Carpe, tinche, lasche erano una dotazione capace non solo di soddisfare i desideri dei vari pescatori dilettanti, ma anche di alimentare l’attività di professionisti che poi andavano vendendo il pesce fresco in giro per le strade. Straordinaria era la ricchezza di gamberi di fiume, che oggi sarebbero un lusso a tavola, ma che allora capitava di poter gustare in molte case; divertente era il cambiamento, in corso di cottura, del colore dei loro gusci dal grigio scuro al rosso vivo: Oggetto di raccolta erano anche le rane, che costituivano l’esclusiva commerciale del ranocchiaro.

Bisogna dire però che di un’altra scomparsa non abbiamo alcun rimpianto: le mosche. In un’epoca in cui abbondavano stalle e animali di varie specie e l’igiene era comunque tutt’altro che esemplare, le mosche erano le autentiche padrone dell’aria: moleste in sommo grado, numerosissime, indistruttibili, perseguitavano ogni essere umano dalla nascita alla tomba nonostante le più varie difese; zanzariere per i bimbi, schifose carte moschicide appese dappertutto e specialmente sulla tavola da pranzo, flit (era un liquido moschicida che si nebulizzava con una apposita pompa a stantuffo) distribuito prima di richiudere finestre e tapparelle,  non bastavano a frenare le loro orde petulanti. Il Comune faceva di tanto in tanto campagne di demuscazione specialmente sui tigli che dovevano offrire ombra riposante nella piazza centrale, ma l’effetto più concreto erano i fitti tappeti di mosche cadute morte che il liquido un po’ untuoso dell’insetticida incollava sulle panchine divenute così per giorni e giorni inutilizzabili. Ora le mosche non sono sparite del tutto, ma la convivenza con loro è senz’altro possibile.

Sul piano territoriale-urbanistico, l’ambiente fisico di Luco è radicalmente mutato, come quello di tutti i grandi e i piccoli centri italiani che hanno partecipato allo sviluppo economico  della seconda metà del ‘900. La superficie edificata è più che raddoppiata, passando dal prevalente tipo di abitazioni serrate l’una all’altra, al nuovo tipo di grandi abitazioni circondate da spazi di comodo ovvero da orti e giardini. La via Alessandro Torlonia, allora comunemente chiamata “via gnova” (via nuova) era l’estrema periferia est e nel lato verso il monte era affiancata da stalle e rimesse e qualche orto, mentre dal lato opposto verso il Fucino era delimitata da un seguito di siepi di campagna, aie  e terreni agricoli. La via dei Cappuccini aveva due soli edifici, il villino Rigazzi e il villino della Sora Adele. Uscendo a sud verso Trasacco l’ultimo edificio era all’altezza della Piazza Sant’Antonio. Uno spazio enorme è stato occupato dall’allargamento delle vecchie strade e da strade nuove: la Provinciale per Avezzano era larga non più di sei metri ed era l’unica via di comunicazione verso il nord (la Circonfucense era di proprietà di Torlonia e dalla sua Amministrazione era mantenuta e governata). Lo spazio della attuale Zona Industriale tra Luco e Avezzano era occupato da seminativi e per lo più da vigneti, oltre a qualche prato.

Insomma  le colture agricole si sono ritirate vistosamente per lasciar posto alle abitazioni, ai grandi capannoni si stoccaggio dei prodotti agricoli e agli edifici industriali. Si è ridotto cioè l’aspetto agreste per dare spazio all’economia secondaria. Ma la produzione agricola è fortemente accresciuta per lo sviluppo delle tecniche e per la specializzazione tipologica, con grande vantaggio per la popolazione luchese.

A proposito dell’ambiente fisico, non posso fare a meno di ricordare il cielo stellato. Nelle notti serene e specialmente in quelle senza luna, il cielo era un tappeto fittissimo di stelle di ogni grandezza e luminosità, con le varie costellazioni più o meno evidenti. Era comune a tutti la conoscenza dell’Orsa Maggiore e dell’Orsa minore e la riconoscibilità della Stella Polare, come in inverno era facile riconoscere la costellazione di Orione. Che fine hanno fatto quelle miriadi di stelle, cancellate dal nostro inquinamento luminoso?


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