Capitolo II
La fanciullezza (1923-1933)

II.1)  L’ambiente di famiglia

Ho passato la mia fanciullezza, sino al compimento dei 10 anni, nell’ambito di una famiglia composta dei miei genitori, Giovanni e Domenica, e delle cinque sorelle Eligia, Maria, Elvezia, Gisella e Luchetta. Come ho già detto, la prima sorella Giulia si era già sposata un anno prima della mia nascita. Io ero il più piccolo di casa e l’unico figlio maschio, e perciò ero coccolato un po’ da tutti. Nella mia famiglia e nel paese io sono stato sempre chiamato col diminutivo Nino e sono divenuto Giovanni solo nell’ambiente di lavoro e nelle famiglie acquisite sposandomi.

Per alcuni anni, la mia famiglia condusse una vita scissa in due ambienti fisici distinti.

L’abitazione costruita affrettatamente dopo il terremoto in un vicolo, via Virgilio (col retro che dava su via della Mola), non era stata ancora completata: mancava la cucina. Sono stato io l’unico a nascere in quella casa. Essa era composta di una grande cantina con ingresso proprio, un piano sopraelevato con una comoda camera da letto nuziale, un grande soggiorno, una terrazza e su un lato di essa un gabinetto; su una parte della terrazza venne nel 1930 costruita la cucina; sotto la terrazza c’era uno spazio libero  per rimessa di cose varie e per il gallinaio; nel retro c’era una piccola corte, un giardino con due alberi (un pesco e un susino) e la stalletta per il maiale; al piano di sopra, due camerette laterali e una camera grande al centro. Io da bimbo ho dormito nella camera dei genitori, poi nel soggiorno; le sorelle dormivano tutte al piano di sopra, quattro nella camera grande, l’altra in una delle camerette. I pavimenti erano assi di legno su travi.

A pochi metri dall’abitazione, nella centrale via Duca degli Abruzzi, c’erano due grandi locali: uno su strada era il negozio con la tabaccheria, l’altro, nel retro, fungeva da cucina, soggiorno, deposito, ecc., con tanto di camino. Sino al 1930, nelle ore dei pasti l’intera famiglia si riuniva nel retrobottega; per il resto del giorno le sorelle tenevano sartoria nel soggiorno di via Virgilio, dove a sera io mi mettevo a letto in un divano anche se, nelle vigilie di festa, erano presenti le ragazze aiutanti, le quali lavoravano sino a notte alta per la rifinitura degli abiti da sposa da consegnare al mattino.

I genitori erano abbastanza occupati con il negozio, che non era soltanto rivendita di sale e tabacchi, ma aveva anche in un primo periodo chincaglieria varia (berretti, cuffie, sciarpe, fazzoletti, calze, grembiuli da scuola, pettini, pettinesse, cartoleria, ecc.) e in un periodo successivo generi alimentari.

La vita in famiglia era sempre molto vivace, perché viva ed energica era mia madre, con la parola sempre pronta per chiunque e per qualsiasi circostanza, e animatissimo era il concerto fra le sorelle, le aiutanti, le clienti, le amiche, le vicine. Le sorelle più grandi erano davvero belle, ciascuna in modo diverso: Eligia era una bellezza tenera, nobile e riflessiva, Maria la più bella molto fine ed esperta in civetteria, Elvezia graziosa, simpatica e allegra.

I parenti Proia erano innanzitutto i fratelli di mio padre, nell’ordine: zia Domenicuccia, zio Francesco (morto giovane a Brescia), zio Quirino (che viveva nella vicina Sora), zio Angeluccio, zia Pina (che viveva ad Avezzano) e naturalmente i loro figli. I parenti Candeloro più vicini erano i tre fratelli di mia madre: zio Giovannino, medico, zio Giulio, commerciante di derrate, e zio Peppino che però appena sedicenne per una delusione d’amore se ne era andato negli U.S.A; solo zio Giovannino aveva figli. Zio Francesco aveva sposato una nobile assai decaduta, ultima erede della famosa famiglia marsicana della linea De Pontibus-Vetoli-Marimpietri, che rimase presto vedova con tre figli e  ha lasciato di sé  ricordi non particolarmente esaltanti.

Zio Giovannino aveva sposato una nobile aretina dei duchi di Licignano, conosciuta a Luco  perché venuta a fare l’insegnante a seguito del terremoto marsicano: zio Giovannino in gioventù aveva seguito D’Annunzio come legionario fiumano, uno dei due soli legionari provenienti dalla Marsica. Egli era il medico condotto del paese ed anche esperto medico legale.

Mio padre era uomo d’ordine. Aveva una istintiva insofferenza per mestatori e arruffapopoli e per questo si trovò naturalmente dalla parte dei fascisti: non essendo però un furbo, non seppe minimamente profittare del regime. Aveva una camicia nera, ma niente altro; una volta che doveva presentarsi per una importante cerimonia come gerarca, si tagliò e cucì da sé un berretto nero a bustina che somigliava molto a quelli d’ordinanza del partito; ebbe l’incarico di Fiduciario sindacale, che gli comportò negli anni un solo impegno, quello di distribuire un bel giorno un sussidio di cinque lire a una trentina di disoccupati poveri; fu il suo tormento, perché ognuno di loro che doveva firmare per ricevuta nell’elenco fornito dal Comune era soltanto capace di mettere il segno di croce, salvo pochissime eccezioni: “Chi mi crederà – diceva – che ho davvero distribuito il denaro ricevuto?” Ebbe invece l’incarico non retribuito di Giudice Conciliatore del comune di Luco, con decreti del Primo Presidente della Corte d’Appello degli Abruzzi, decreto del 6 luglio 1935 per il triennio 1935-37 e decreto dell’11 febbraio 1938 per il triennio 1938-40, incarico che per sei anni lo tenne impegnato ogni giovedì nelle udienze in Comune e di tanto in tanto nei giorni successivi per stendere la sentenza quando non era riuscito a conciliare le liti. Ho già detto che egli era taciturno e burbero anche in casa e ci spaventava se appena avesse accennato una minaccia, ma non ci ha mai toccato con un dito e credo che fosse molto fiero della sua famiglia, come noi eravamo fieri di lui.

Mia madre era invece assai estroversa ed aveva spesso da rimproverare anche aspramente le figlie, ma soprattutto me, che voleva crescessi il più possibile ben educato: a questo fine sapeva adoperare anche i metodi  pedagogici antichi, che per le mie gambotte consistevano in un ramo di corniolo, flessibile e robusto, usato per arrossare e rigare la pelle; questo ramo era sempre pronto in un certo posto e quando si rompeva ella ne ordinava subito uno nuovo a un certo legnaiolo vicino di casa. Desiderava che io divenissi un ragazzo esemplare e per questo esigeva molto da me. Era lei ad avere la vera responsabilità nella gestione della famiglia e della sua economia, badando a governare con severità le figlie per salvaguardarne il buon nome, a decidere con una certa tirchieria i rifornimenti di merci per il negozio, a seguire i lavori nei vari pezzetti di seminativi e vigneti sparsi quà e là e a mantenere i giornalieri rapporti con il buon Dio. Da mia madre  le donnette portavano i galletti da trasformare in capponi; lei era la sola persona a Luco capace di eseguire l’operazione di castrazione; il sottoprodotto di queste operazioni - la cresta mozzata e i testicolini - costituiva l’appetitoso onorario, il cui unico beneficiario come consumatore ero io.

II.2)  L’asilo infantile

La mia fanciullezza ha inizio in pratica con la frequentazione dell’asilo infantile, all’età di quattro anni. Allora è finita l’infanzia ed è cominciato il regime di vita che comportava degli orari da rispettare, delle regole a cui abituarsi nella convivenza sistematica con coetanei, una disciplina dettata non dai genitori, ma da altri.

Nel paese esisteva l’asilo comunale, istituito pochi anni prima (mio padre era assessore anziano al Comune quando ne fu decisa la costruzione), ma io fui mandato all’asilo tenuto dalle Suore Trinitarie. Questa scelta, che sarà stata certamente decisa da mia madre, ma senza opposizione di mio padre, ha certamente influito in modo rilevante sui miei anni successivi.

Il locale dove venivano tenuti i bambini era una specie di padiglione nella parte alta del paese, fra le case del centro storico, sulla via Garibaldi che ai tempi del lago era l’arteria principale di attraversamento dell’abitato. Le suore avevano una vecchia modestissima casa a pochi metri dal padiglione. La mancanza di una sede adeguata si faceva molto sentire sulle loro attività. Esse infatti riuscirono dopo qualche anno ad ottenere una sede più comoda nella nuova via Duca degli Abruzzi e, subito dopo la guerra, hanno beneficiato della donazione, da parte di un luchese emigrato in America, del vasto villino di mio zio Giovannino costruito ai margini meridionali del paese e da lui venduto con ampio terreno circostante trasferendosi ad Avezzano.

Le suore erano in quattro, compresa la superiora piuttosto autoritaria, suor Margherita, tutte abbastanza anziane e qualcuna magari anche un po’ rozza: suor Agnese, suor Anselmina, suor Teresa (quest’ultima era addetta alla cucina e alla pulizia della casa). Non ricordo cosa ci facessero fare durante le tre o quattro ore del mattino passate in quel padiglione, ma certo ben poco, oltre ad insegnarci le preghiere e qualche canzoncina religiosa: giochi infantili, anche in uno spazio disponibile all’aperto, qualche filastrocca; ma eravamo noi piccoli  ad inventarci e organizzare i passatempi, nei frequenti intervalli in cui venivamo lasciati soli. Alcune delle più autentiche amicizie che ho poi mantenuto con miei coetanei e coetanee sono nate in quel padiglione durante quei giochi infantili.

Dopo un anno di frequentazione dell’asilo, si presentò per me una grossa novità: arrivò nella comunità delle suore una novizia, giovanissima, suor Costanza. Proveniente da una umile famiglia di un paesino dell’alta valle del Liri, era dolcemente bella, semplice, umile, veramente religiosa. Venuta a Luco non ancora ventenne, vi è rimasta tutta la vita, sino all’età di 85 anni circa, senza mai scadere nel tran-tran. Suor Costanza è stata davvero il mio primo amore e credo che anche lei si fosse un po’ affezionata a me. La rividi dopo più di cinquanta anni e non potei fare a meno di correrle incontro e di abbracciarla; lei, ormai quasi ottantenne, arrossì come una fanciulla. Da bimbo ero affascinato da lei, l’ascoltavo religiosamente e lei si prendeva una cura particolare di me. Mi ha insegnato a fare i fioretti e cioè quelle piccole rinunce dedicate al buon Gesù e che in effetti servivano ad educare il carattere; ero lieto di fare un fioretto per lei quando me lo proponeva. Posso ora dire che ho conservato sempre  la capacità di rinunciare a qualcosa che mi piacesse, di mortificare qualche desiderio di carattere puramente edonistico, di fare qualche sacrificio per rendere lieta un’altra persona. E quando mi metto alla prova per qualche rinuncia, finisco spesso per ricordare suor Costanza e indirizzarle un sorriso di gratitudine.

II.3)  La scuola elementare

Non ho mai saputo se e dove fosse un edificio per la scuola elementare a Luco prima del terremoto del 1915. Ho il dubbio che gli alunni  delle varie classi (si arrivava allora sino alla 6a elementare, per i pochi privilegiati che se lo potevano permettere) si ritrovassero per le lezioni nella abitazione del rispettivo insegnante. Va rilevato che sino agli anni della prima guerra mondiale gli insegnanti elementari erano generalmente uomini, i quali hanno poi lasciato un buon ricordo di sé (ho nella memoria nomi di maestri che io non ho conosciuto, come i Garofolo e i Quartaroli, ma di cui sentivo dir bene da chi era più anziano di me di una decina d’anni). Dopo il terremoto e la guerra, arrivarono a Luco alcune insegnanti forestiere, come primo segnale concreto di emancipazione femminile. Nessuna delle maestre che io ricordo era originaria di Luco.

Il paese si è dotato di un edificio scolastico veramente degno di questo nome solo nei primissimi anni ’40. Prima di allora, le cinque classi, tutte miste, erano ospitate in locali vari, per lo più nella zona nuova delle casette asismiche.

Gli alunni andavano a scuola dal lunedì al sabato, mattina e pomeriggio – ma al giovedì solo di mattina – chiamati un quarto d’ora prima dell’inizio delle lezioni dalla campana più piccola della chiesa parrocchiale. I banchi, ciascuno per due scolari con annessa panchetta, avevano al margine esterno del ripiano l’incavo in cui era inserito il calamaio, che il bidello provvedeva periodicamente a riempire; essi erano non soltanto regolarmente sporchi di inchiostro, ma incisi in vario modo con coltellini, quando non scheggiati. Le aule avevano al centro la stufa, che nei periodi più freddi veniva alimentata anche dalla legna che gli scolari portavano da casa.

Le classi erano a organico pieno e numeroso nel primo e nel secondo anno, poi andavano man mano assottigliandosi per gli abbandoni. In quarta e soprattutto in quinta una buona parte della scolaresca era composta di ripetenti e pluriripetenti che arrivati ai 15 anni senza aver conseguito la licenza elementare abbandonavano definitivamente. La penna per scrivere era una asticciola di legno ad una estremità della quale era inserito il pennino di metallo elastico. Afferrata con tre dita presso l’estremità verso il pennino, la penna lasciava sulle dita macchie di inchiostro quasi indelebili. Gli alunni andavano a scuola con il grembiulino: si può immaginare quanto fosse difficile mantenerlo pulito. Il nero dell’inchiostro veniva temporaneamente attenuato dal bianco dei bastoncini di gesso usati alla lavagna.

La disciplina, facile a mantenere fra i più piccini, diveniva quasi impossibile nelle classi più avanzate, che potevano a mala pena essere governate con la bacchetta che il maestro assestava con colpi secchi sulle mani aperte dei discoli. Punizione estrema, e veramente sadica, era, sia pure solo minacciata in qualche caso limite, lo stare in ginocchio su un mucchietto di ceci secchi; punizione lieve era quella che obbligava a stare in piedi dietro la lavagna per il resto della lezione.

Le alunne, specie le più carine, erano facili vittime dei dispetti dei compagni, che come minimo si esercitavano a tirar loro violentemente le trecce.

II.4)  1a, 2a e 3a elementare

Nel 1929, all’età di 6 anni e 4 mesi, ho iniziato la mia carriera di scolaro-studente con il frequentare la Prima classe elementare. Da casa mia quattro volte al giorno facevo il percorso che, attraverso i prati (ove ora sorgono gli edifici del Municipio e delle Scuole) e la via Regina Elena, mi portava al “baraccone”, una lunga costruzione in legno eretta dopo il terremoto pressappoco nella zona ove è ora il campo sportivo comunale; aveva una porta per ciascuno dei tanti locali, uno dei quali era lo stanzone per i bambini della scuola; non ricordo cosa ci fosse nelle altre stanze; comunque le altre quattro classi della scuola erano altrove.

Ho dimenticato prestissimo nomi e immagini degli insegnanti di quella primina; ricordo solo che fu un succedersi di supplenti, tutte donne, con qualche intervallo di giornate senza alcuna guida. Passavamo le settimane a vergare interminabili file di aste sui righi del quaderno, poi degli incerti tondini, che progressivamente dovevano condurci a scrivere delle “i”, delle “o”, delle “a”; nel frattempo, sulla base di un sillabario e dei segni della maestra sulla lavagna, compitavamo tutti insieme le lettere dell’alfabeto con ritmiche cantilene. Il risultato più concreto  dei primi mesi di scuola fu l’apprendimento a memoria di una brevissima poesiola da recitare in famiglia il giorno di Natale. Credo, ma non ne sono sicuro, che al termine di quel primo anno di studi sarò stato in grado di leggere e di scrivere tutte le lettere dell’alfabeto e anche qualche semplice parolina. Ero però sicuramente fiero della mia cartella di cartone pressato portata a tracolla, del sillabario nuovo, dei quaderni e dell’attrezzatura per scrivere (penna, pennini, nettapenne, lapis, temperalapis, carta assorbente) che mi faceva finalmente assomigliare ai grandi.

Al secondo anno della scuola elementare ho avuto come insegnante la consorte del maestro Alvisini, la quale dava lezioni in un locale su strada sotto la sua abitazione in via Vittorio Emanuele angolo via dei Mille. La signora Alvisini aveva appena avuto una bambina, che allattava negli intervalli delle lezioni. In quell’anno debbo aver avuto un sostanziale recupero sia per la sistematicità del programma didattico finalmente seguito da una unica insegnante professionalmente preparata, sia per la maggiore attenzione con cui venivo seguito dalla famiglia preoccupata dei vuoti lasciati dall’anno precedente. La lettura, un po’ di aritmetica, i compitini scritti, mi hanno portato un po’ avanti, anche perché io sentivo già allora il dovere, inculcatomi nell’animo dai genitori, di sollevarmi sulla media dei compagni.

La terza classe aveva programmi sostanziosi, condotti dalla maestra Isolina Macioci, moglie di zio Tittino (Giovambattista) De Angelis cugino di mia madre. L’aula occupava una metà di una delle casette asismiche, l’altra metà essendo occupata dalla classe quarta affidata al maestro Alvisini. Zia Isolina mi fece lavorare molto, pur senza severità. Del resto io ero un po’ seguito a latere anche da un’altra insegnante particolarmente severa, zia Concettina Fiore moglie di zio Belisario De Angelis fratello di zio Tittino e mio padrino di cresima, alla quale dovevo di tanto in tanto rendere conto dei miei progressi. Nel corso dell’anno si seguiva il “Libro di lettura della terza classe”, mi pare di Roberto Forges Davanzati, libro obbligatorio per le scuole di tutta Italia: i vari brani di racconto del libro ruotavano intorno alle vicende della famiglia di un casellante ferroviario e, naturalmente, di due suoi figli, un maschietto e una femminuccia, all’incirca della nostra età. La classe III aveva materie di studio più ricche e quindi più attraenti. Zia Isolina aveva anche tentato di scoprire qualche mia capacità artistica nel disegno, ma dopo una unica prova nella quale, chissà come, ero riuscito a fare un disegno abbastanza decente, finii per disilludere completamente e definitivamente l’insegnante e l’allievo: mi pare che quello ora accennato sia stato il primo e l’ultimo mio disegno.

Un giorno io ero stato coinvolto in qualche grave episodio di indisciplina con un paio di altri compagni, dei veri somaroni di almeno un paio d’anni più grandi di me; secondo i criteri del tempo l’insegnante doveva darci una assai energica lezione, ma zia Isolina non si sentiva capace di tanto; ricorse allora all’espediente di consegnarci al “braccio secolare” del maestro Alvisini, nell’aula a fianco. L’apparizione dei tre condannati destò una eccitatissima reazione nei ragazzi di quarta, desiderosi di godersi l’insperato spettacolo del supplizio; senonché qualcuno di loro che mi conosceva bene pregò il maestro di interrogarmi sui miei propositi di carriera, di cui parlerò più avanti; il maestro incuriosito aderì alla richiesta, si divertì abbastanza  alla mia risposta data quasi fra i denti dopo insistenze e mi condannò a stare in piedi dietro la lavagna,  mentre i miei due compagni furono coscienziosamente bacchettati con un  bel numero di colpi finché furono costretti a piangere dal dolore.

In uno di questi primi anni di scuola ebbi il grande piacere di indossare la divisa da balilla: ne era venuta una certa dotazione alla scuola e le famiglie erano invitate a farne acquisto in vista di una prossima festa del regime. Mio padre non poté rifiutarsi e così  io potei avere per l’unica volta degli indumenti non confezionati dalle mie sorelle e soprattutto che mi allineavano a uno standard vincente: camicina nera, calzoncini di grosso panno grigioverde, fazzoletto azzurro e un berretto a bustina con nappa; in occasione della manifestazione potei anche sfilare in corteo come tamburino, il colmo della soddisfazione.

II.5)  Il chierichetto

La tiritera che si divertivano a farmi ripetere da bambino - creazione un po’ mia e un po’ di mia madre -  e che mi sono trascinato dietro sino ai sette-otto anni di età, rispondeva alla domanda: “Cosa vuoi fare da grande?”. Io puntualmente recitavo la mia immutabile formula: “Prete e papa, confessore delle monache belle, cavaliere della corona d’Italia, vescovo e cardinale”.

La mia fanciullezza è stata profondamente segnata dall’educazione religiosa di origine materna e dalla frequentazione della chiesa.

Nel 1929 io lasciavo l’asilo infantile e le cure di suor Costanza per passare non solo alla scuola elementare, ma contemporaneamente sotto le ali del nuovo parroco appena destinato a Luco, don Nicola Ansini. Mia madre mi conduceva in chiesa non solo la domenica, ma in ogni utile occasione. Cicli regolari di frequenza furono quelli di preparazione alla cresima e poi alla prima comunione, ma l’ambiente della chiesa divenne per me luogo di ricreazione e di avventura, sia come ambiente fisico con la complessità delle sue strutture visibili e nascoste, sia con la varietà del ciclo liturgico annuale, sia infine come centro di gravità di una buona parte della vita comunitaria del paese.

Iniziai presto a fare il chierichetto, con tanto di tonaca nera e cotta bianca con ampio bordo a merletto; imparai bene le tecniche del servizio all’altare, le preghiere – tutte rigorosamente in latino – che il chierichetto recitava in risposta all’officiante nel rituale della messa e delle funzioni vespertine, il maneggio di ampolline, campanello, acquasantiera, turibolo, paramenti vari. Insomma, divenni presto un efficiente servitore del parroco, che notava facilmente la netta differenza fra me e gli altri chierichetti che bazzicavano la chiesa. Quando avevo ore libere, non solo nel periodo delle vacanze estive e delle festività natalizie e pasquali, ma durante tutto l’anno, stavo in chiesa vivendo tra sacrestia, campanile, balconata dell’organo, recessi vari esistenti fra la struttura interna e quella esterna dell’edificio, in modo da finire di conoscerla tutta palmo a palmo, compresi quadri, statue e candelieri di ogni misura immagazzinati in certi locali impensati.

Questo gironzolare come un gatto in ogni recesso era da me praticato in compagnia del figlio del sacrestano, che aveva un paio d’anni più di me, ma che oltre un certo ardimento non aveva evidenti qualità positive e tanto meno religiose. Ci capitava spesso di percorrere anche a passo svelto il piano del cornicione che girava per tutto l’interno della chiesa, a una quindicina di metri di altezza addosso alle pareti e ai pilastri e al di sopra dell’organo. Un giorno ci venne in mente di tentare il giro del cornicione che gira all’interno della cupola, più stretto e più in alto; usciti da una porticina e imboccato gattoni il percorso in senso antiorario, ci rendemmo conto troppo tardi che non era possibile voltarsi per tornare indietro e troppo difficile andare a ritroso;  dovemmo continuare pian piano tutto il giro, prima con un po’ di paura e poi con lo spavento causato dalle grida isteriche di alcune donnette che ci avevano visto dal basso e che aspettavano che precipitassimo; il completamento del giro e il rientro dalla porticina fu un evento liberatorio suggellato  dal fermo proposito di non ripetere mai più l’impresa.

A sette anni avevo avuto la cresima – padrino lo zio Belisario che per l’occasione mi aveva regalato un piccolo orologio sottoposto la sera stessa ad ispezione interna, tentativo di smontaggio e distruzione definitiva – e a otto la prima comunione. Naturalmente, avevo imparato bene a memoria il catechismo dell’epoca. Facevo la comunione spesso, naturalmente dopo la debita confessione.

La chiesa aveva allora una ampia scalinata sul davanti, in luogo delle due strette scalinate laterali di oggi. Al sommo della scalinata, dopo la messa don Nicola era solito fare una passeggiata in su e in giù, prima di ritirarsi nella canonica che dava sul vicolo a lato della chiesa. Una mattina egli si accorse che io, seduto su uno degli scalini più in basso, stavo singhiozzando; scese subito a chiedermi che cosa avessi, ma io non avevo il coraggio di parlare. Finalmente mi confessai: prima di venire in chiesa con mia madre avevo fatto colazione con la solita ciotola di latte e pane e poi, senza ricordarmene, avevo preso la comunione. Mi sentivo un sacrilego (allora c’era l’obbligo, per prendere l’eucaristia, di essere digiuno almeno dalla mezzanotte) e non sapevo se da questa grave colpa potessi mai essere assolto. Don Nicola mi confermò che in effetti avevo fatto una cosa grave, ma che lui era pronto a confessarmi subito per darmi penitenza e assoluzione. Per penitenza mi prescrisse di dire un rosario al giorno per una settimana e io passai ore e ore di quella settimana nella cameretta sottotetto di casa usata come solaio, isolato da tutti, a recitare il mio rosario per sentirmi giorno per giorno più sollevato e finalmente in pace con la coscienza.

Una delle funzioni che impegnavano i chierichetti erano i funerali. All’epoca, la cerimonia funebre comprendeva il canto di una serie di salmi penitenziali, con la partecipazione di un gruppo di laici. Al termine della funzione e dell’accompagnamento al cimitero la famiglia del defunto ringraziava ciascuno dei partecipanti, compresi i chierichetti, con l’offerta di un cero regolamentare, alto un metro circa, che tutti ricedevano alla chiesa ricevendone il controvalore di due lire. Era quello uno dei pochissimi modi, se non l’unico, che io avevo per procurarmi qualche soldino, che però spesso riportavo a casa. Un giorno col figlio del sacrestano, disponendo insieme di quattro lire, decidemmo, al rientro dal funerale a fine mattina, di farci un pranzetto; comprammo così pane, mortadella, formaggio, gassose e qualche altro sfizio e ci ritirammo in una zona chiusa  ai piedi del campanile a consumare di nascosto il nostro lauto pranzo, dimenticando del tutto, nella eccitazione di quella straordinaria avventura, di avvertire i genitori. Mia madre stette un pezzo ad aspettare il mio ritorno dal cimitero, mandò in giro ad informarsi da chi mi aveva visto dopo il funerale, ma di me nessuna traccia. Quando mi svegliai dalla eccitazione e pensai di dover rientrare a casa, mi resi conto della assurdità della mia condotta e ritardai ancora, per paura, l’ora della resa dei conti; incontrai nei pressi di casa mia sorella Luchetta che continuava a cercarmi e che mi assicurò di poter tornare tranquillamente in famiglia. Arrivato davanti al nostro negozio, vidi mia madre davanti alla porta che si accorse finalmente di me e con un gran sorriso mi invitò a rientrare. Arrivato a portata dei suoi artigli, con mossa felina mi afferrò e .. stavolta consumò del tutto la frusta di corniolo che sacrosantamente mi spettava.

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