Capitolo VII
L’internamento in Germania
(settembre 1943)

VII.1)  Da Brioni a Pola

Il 20 settembre 1943 i militari tedeschi si presentarono a Brioni in forze, seguiti da una flottiglia di una ventina di pescherecci ed altri piccoli natanti requisiti in zona per la bisogna. Evidentemente, ci avevano lasciati in pace nell’isola solo perché dovevano preparare questa operazione di trasporto per mare.

Sempre ripetendo la solita storia dell’avvio verso casa, ci fanno salire con i nostri bagagli personali a bordo di queste imbarcazioni abbastanza piccole (non più di 10 tonnellate) per affrontare la traversata del Canale di Fasana. Man mano che le barche si riempiono, si mettono ad attendere in fila poco lontano, ancora al riparo del porticciolo.

Quel giorno il mare è grosso. Usciti dal riparo di Brioni, ci dobbiamo subito preoccupare di ammucchiare al centro della barca le nostre valigie che cominciavano ad essere sballottate di qua e di là. Inizia un ballo che a me sembra divertente. Mi getto pancia a terra a prua  tenendomi a un appiglio e accompagno l’altalena della barca  dando uno schiaffo alla superficie del mare quando la prua va a fondo prima di risollevarsi ritmicamente verso l’alto. Gioco così con il mare finché non vedo altri pescherecci intorno a noi che stanno volando in aria e poi sprofondando in giù in modo pauroso: allora obbedisco finalmente al marinaio del peschereccio che mi grida di tornare al centro e di afferrarmi forte al sartiame fisso.

Osservando con molto rispetto le onde altissime che sconvolgono la massa equorea,  seguo per un po’ il procedere di una lancia sulla quale avevo visto imbarcare il Comandante dell’Accademia finché essa, che appare e scompare di continuo infilandosi in mezzo alle onde, non riemerge più; esito a concludere che è stata inghiottita dal mare (saprò poi che il Comandante Sìmola è giunto indenne a Pola).

Sbarcati a Pola, cominciamo a vedere meglio la realtà che ci attende. Soldati tedeschi armatissimi controllano la discesa e la sfilata disordinata degli sbarcati, che trascinano i loro bagagli per un breve percorso fino alla Caserma Nazario Sauro della Fanteria requisita dal Commando germanico, il quale l’ha fatta circondare da una recinzione posticcia a reticolato.

Insaccati nella caserma dove già si trovano altri militari italiani catturati dai tedeschi mentre traversano l’Istria provenienti dalla Croazia, siamo lasciati lì due o tre giorni affidati ai fanti già di stanza sul posto, i quali continuano a far funzionare alla meglio le cucine tanto da distribuire una pastasciutta, che noi raccogliamo nelle gamelle nel frattempo già procurate a Brioni; queste ci accompagneranno per molto tempo insieme con un cucchiaio tuttofare. I fanti riescono anche a farsi aiutare da noi per mantenere un minimo di pulizia negli ambienti.

C’è un punto della recinzione, nel retro della caserma, in cui la rete è stata aperta e poi accuratamente riaccostata perché non si noti. Da quella rottura scappa il 21 settembre [1943] Cesare Rubini che conta di arrivare facilmente alla sua Trieste. La sua fuga è stata imitata da pochissimi altri, per lo più veneti se non triestini. Noialtri del Centro Sud d’Italia non siamo attratti dall’idea di andar vagando fino a casa attraverso territori ormai controllati dall’esercito germanico. Io capirò poi che, in fondo, ero attratto dalla voglia di sperimentazione del destino che aveva cominciato a dispiegarsi in un modo così imprevisto e quindi tanto più ricco di fascino.

Un giorno il Federale fascista di Pola viene in caserma per racimolare tra noi dei collaboratori per l’ordine pubblico della città sotto l’occupazione tedesca. La sua arringa viene contestata  dal Comandante Sìmola che ormai segue la nostra sorte di prigionieri, a differenza di Giachin che è rimasto a Brioni e che non rivedremo più.

VII.2)  Da Pola a Venezia

L’ultimo tentativo di inganno (ma chi ci crede?) lo fanno i tedeschi quando il 23 settembre [1943] svuotano la Caserma Nazario Sauro per portarci tutti al porto e .. imbarcarci per il ritorno a casa. In effetti, essi debbono liberare la caserma per nuovi arrivi di italiani catturati.

Al porto troviamo un grosso mercantile armato (dicono sia una petroliera declassificata) sul quale siamo caricati noialtri dell’Accademia e molti altri militari italiani. In pratica veniamo letteralmente stivati, ossia ammucchiati in fondo alla buia stiva uno sull’altro. A sera la nave parte, non sappiamo per dove.

Durante la notte, dopo aver passato ore in una posizione così scomoda e sentendo le membra tutte intorpidite, provo a pizzicarmi una gamba per sentirla viva, ma constato che essa è completamente anestetizzata; insisto nel pizzicare finché uno del mucchio non si sveglia protestando contro chi lo sta tormentando.

Passata la notte, appena ci possiamo districare, cerco con altri di salire in coperta, uno alla volta, su certi scalini di ferro infissi alle pareti. E’ ormai giorno quando riusciamo ad emergere e trovare un posticino tra quelli che hanno passato la notte in coperta: siamo arrivati a Venezia e stiamo entrando nella Giudecca. Il mio compagno Marcello Lang è agitatissimo; sulla Giudecca, lato sud, c’è la casa di una sua zia: egli crede di vederla affacciata al balcone che guarda sfilare questo bastimento gremito di militari; urla inutilmente e infine scoppia in un pianto di rabbia.

Dopo una lunga notte di navigazione siamo arrivati a Porto Marghera, dove la nave attracca a un molo vicino a binari ferroviari.

Con i tempi snervantemente lunghi che hanno sempre queste operazioni, arriva finalmente il mio momento di scendere a terra per una scaletta appoggiata al fianco della nave. Militari tedeschi sono piazzati dovunque, sulla nave, sul molo in più punti, uno in capo alla scaletta, il quale ci fa passare uno a uno dopo una specie di perquisizione. Arriva il turno del mio compagno Vittorio De Seta che mi precede di poco: sento un contrasto tra lui  e il tedesco poi un grido imperioso di quest’ultimo e finalmente Vittorio che risponde al grido con un pugno incredibile che fa perdere l’equilibrio al suo avversario. Rimaniamo tutti di sasso aspettandoci la reazione rabbiosa dei tedeschi a questa scena che è stata vista da tutti. Stranamente, non succede nulla, salvo qualche grido dal basso che non comprendiamo. Il tedesco aveva provato a sfilare a Vittorio il suo orologio da polso. Arrivato a terra,  prendono da parte il nostro compagno e gli fanno pagare il conto.

VII.3)  In carro-merci

“Cavalli otto, uomini quaranta”, era la norma militare sull’utilizzo dei carri nei treni merci. Sui binari della stazione marittima di Porto Marghera attendeva un lungo convoglio di carri merci, sui quali venimmo caricati in non meno di quaranta a carro.

Il breve tragitto dalla nave al binario fu inequivocabilmente percorso da prigionieri in piena regola, ai quali nessuno è più venuto a dire che si andava a casa. L’apparato militare germanico incombeva massicciamente, con largo uso del calcio del fucile come strumento regolatore del traffico.

Una volta intasati nei carri, coi nostri bagagli disposti in fila intorno come possibili sedili, vediamo passare ferrovieri italiani impegnati a chiudere il portellone scorrevole sotto l’occhio vigile teutonico. Siamo rimasti a lungo fermi su quei binari. Dopo molto tempo è ripassato un controllo dei portelloni, con un gran trapestio di militari tedeschi urlanti e di ferrovieri. Nella confusione abbiamo sentito un ferroviere che sbattendo ripetutamente le chiavarde del portellone ci ha fatto chiaramente sentire che dopo tanti chilometri dalla partenza il treno avrebbe fortemente rallentato in una zona di curve e che si sarebbero uditi tre fischi della locomotiva ripetuti più volte; in quel punto, se il portellone fosse risultato apribile si poteva saltare dal carro senza serio pericolo.

Una volta partito, il convoglio ha proceduto sempre abbastanza lento, in direzione di Tarvisio. Dapprincipio si sono sentiti richiami tra sentinelle tedesche alloggiate in una specie di garitte a capo di alcuni carri, poi più niente. Il treno di tanto in tanto si arrestava qua e là, come se non avesse nessuna meta.

Nel mio carro ci furono ovviamente animati commenti all’avvertimento del ferroviere. Durante la rumorosa marcia si cercò di verificare se il portellone fosse apribile, ma purtroppo con esito negativo. Ad una delle soste si sentirono di nuovo i militari tedeschi che passavano lungo il convoglio, poi dei ferrovieri che controllavano le chiusure riaprendole e rinserrandole  e urlando anche loro delle frasi ai loro colleghi.

Rimessici in marcia, uno di noi tornò a provare l’apertura e ci accorgemmo che si apriva uno spiraglio dal quale entrò una folata di aria fredda.

Il compagno che aveva provato era un accademista che io non conoscevo e che, sistemato accanto a me, mi aveva parlato a lungo della sua voglia di affrontare la sorte: egli era veneto e gli pareva assurdo di passare dalle sue parti senza tentare la fuga; io ero d’accordo con lui. Una volta accertata l’apribilità del portellone, egli si preparò decisamente a saltare appena possibile. Intanto, nel buio, prese dalla sua valigia qualcosa e lasciò a me tutto il resto. Tutto poi avvenne come il ferroviere ci aveva detto a Porto Marghera: il rallentamento fin quasi al passo d’uomo, i tre fischi. Il mio compagno aprì il portellone e si gettò nel vuoto. Era buio pesto. Non sentimmo alcuna reazione.

Richiuso il portellone, nel silenzio tornato dentro il carro e mentre molti dormivano, io ebbi una lunga riflessione avviata dalla fuga dell’amico, che avrei potuto tentare anch’io dandomi a una peregrinazione per l’Italia. Pensando e ripensando alle circostanze in cui mi trovavo, finii per trovare la mia soluzione con decisione e con chiarezza. Mi dissi che la sorte mi aveva portato a vivere qualcosa che non mi sarei mai aspettato pochi mesi prima; che da una vita di tran tran cittadino stavo per iniziare una avventura piena di incognite; che qualche racconto fantastico di prigionia sentito nella fanciullezza mi aveva incuriosito ad immaginare le situazioni reali che il narratore non diceva mai; che finalmente potevo vivere davvero cose che di solito si leggono nei libri. E accettai in pieno e quasi con piacere tutto quello che mi poteva accadere. Quel carro merci tenne quindi a battesimo la mia carriera di prigioniero e da quel momento mi proposi di vivere intensamente e a occhi aperti il mio immediato avvenire.

A notte molto inoltrata il treno si arrestò di nuovo; ci svegliarono e ci fecero scendere dai carri. Con le membra intorpidite ci mettemmo in fila tra brividi di freddo. Eravamo arrivati a Villach in territorio austriaco. Finalmente, sotto una luce fredda e accecante di lampioni in mezzo al buio ci fu distribuita una minestra calda, che fu un vero ristoro. Mi pare che durante la giornata da qualche parte ci avevano distribuito un pezzo di pane.

Ripreso il viaggio, dopo alcune ore fattosi giorno, potei finalmente vedere il contenuto della valigia del compagno veneto, di cui non ricordo il nome. C’erano diverse cose indubbiamente utili, che però non ritenni di poter infilare nella mia valigia già zeppa. Presi invece con piacere un orologio da polso (il secondo della mia vita dopo quello che avevo avuto in regalo alla cresima, e anche questo non durò molto, come dirò) e quattro libri che poi mi fecero compagnia per molto tempo: “Passo di danza” di Aldous Huxley, “Viaggio al termine della notte” di Louis-Ferdinand Céline, un libro di Angela Bianchini sulla letteratura americana in rapporto con l’Italia e una provvidenziale vecchia grammatica della lingua tedesca del metodo Otto-Sauer.

Quindi, in una mattinata livida e piovigginosa scendemmo dal treno coi nostri bagagli. Eravamo arrivati alla stazione di Markt-Pongau e stavamo per essere rinchiusi nello STALAG (Stamm Lager) XVIII C.


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