Capitolo VIII
Il campo di concentramento (1943)

VIII.1)  Stalag XVIII C

Il 25 settembre 1943 entriamo nel grande campo di concentramento di Markt Pongau. Stamm Lager significa pressappoco campo centrale, campo base; ospita prigionieri militari.

Il piccolo paese di Markt Pongau si trova in una parte assai ampia della valle del Salzach, nel Salisburghese. All’epoca l’Austria, in forza dell’Anschluss del 1938, fa parte della Germania.

Lo Stalag XVIII C è un enorme complesso composto di tanti settori separati; c’è il settore dei Russi, quello dei Francesi, quello dei Serbi, quello degli Inglesi, Australiani e Neozelandesi, ecc. Il nostro settore ospita circa 7.000 militari italiani. Nell’insieme, lo Stalag può ospitare 30.000 prigionieri.

Si chiama campo base perché ci sono gli uffici che gestiscono la posizione di tutti i prigionieri, che qui affluiscono inizialmente per essere poi destinati a lavorare negli Arbeitskommando dislocati nei più diversi ambienti, sempre sotto controllo militare. In genere, si tratta appunto di militari Kriegsgefangene, prigionieri di guerra. Noi però siamo classificati come Italienische Militärische Internierte (IMI), perché non catturati in operazioni belliche, ma sequestrati in via precauzionale.

Ciascun settore è composto di una serie di grandi baracche allineate, ognuna delle quali comprende due enormi vani; in ogni vano dormono, in castelli di legno a tre posti, 250 persone; i due grandi vani sono separati da due piccole stanze destinate ai due sottufficiali che comandano i due reparti; alle due estremità della baracca c’è l’ingresso e una latrina da utilizzare durante la notte quando il reparto è sprangato.

In una zona centrale del nostro settore c’è un largo e basso edificio nel quale si trovano il comando,  la cucina con i cucinieri (sono alpini italiani) e un deposito viveri.  Una piccola baracca a parte fa da magazzino di materiali vari.. A una estremità del campo c’è una larga tettoia che copre la grande latrina comune, consistente in una ampia fossa ai bordi della quale sono sistemati a mo’ di sedili dei lunghi tronchi di abete. Ci sono ampi spazi di prato per muoversi.

Il settore italiano confina in parte con l’esterno: quel lato è circondato da un altissimo doppio reticolato dotato di frequenti alte torrette, dalle quali soldati armati ispezionano continuamente il tutto, nella notte anche con l’ausilio di potenti fari orientabili. Dall’altra parte, il settore italiano confina con altri settori dai quali è separato da un alto reticolato senza controlli particolari.

Un po’ discosto dai vari settori c’è un centro comune di disinfestazione, nel quale si trovano anche delle vere e proprie camere a gas.

Col nostro arrivo ha inizio la stagione della raccolta della frutta locale, la mela. In grandi quantità viene trasportata con carri ferroviari. Ogni volta che un convoglio merci con la frutta passa per la valle, a circa un chilometro dallo Stalag, un fresco e gradevole profumo di mele arriva fino a noi.

VIII.2)  Avvio della vita di Lager

Al nostro arrivo per prima cosa c’è la schedatura. Siamo passati in rassegna minuziosamente, ci vengono sequestrati documenti, carte,  strumenti da disegno. Mi lasciano i libri. Ci viene assegnato il numero di matricola, inciso su una lamella di zinco inserita in una catenella da portare al collo: io sono immatricolato col numero 34641.

Siamo poi assegnati alle baracche, a grandi gruppi formati casualmente. Ognuno di noi cerca di stare insieme ai soliti amici, ma non sempre ci si riesce. Una volta entrati in baracca, cominciano i turni, reparto per reparto, per andare alla disinfestazione. Dobbiamo portare con noi assolutamente tutto quello che abbiamo: se lasciassimo qualcosa in baracca, non la ritroveremmo più perché dopo la disinfestazione non si torna mai nella baracca dalla quale siamo usciti. Al centro di disinfestazione dobbiamo spogliarci completamente nudi: tutti i nostri bagagli e gli abiti e qualsiasi  oggetto come i portafogli e anche i libri, avvolti in una coperta, vengono immessi nel vano di una caldaia a vapore che assomiglia tanto a una vaporiera ferroviaria; quando la roba uscirà da lì, esalerà per un po’ un odore di gas vagamente sospetto. Noi nudi siamo introdotti in uno stanzone umidissimo dove siamo sottoposti a getti violenti di acqua, per fortuna non gelida; terminati i getti d’acqua, da alcuni fori alle pareti comincia a venire una esalazione di gas per niente piacevole (se fossimo stati a conoscenza dei campi di sterminio, saremmo stati terrorizzati da quelle esalazioni, con possibili conseguenze sui cuori apprensivi); come ultima operazione, compare un prigioniero russo, un omone il quale si diverte molto a darci sul basso ventre e sul fondo schiena una passata di un enorme pennello intriso di un liquido giallo.

Noto subito che i prigionieri russi sono adoperati per molti servizi nel campo al di fuori del loro settore, come la vuotatura delle latrine e diversi altri compiti di infimo ordine. Ciò consente loro di avere facili contatti con le altre nazionalità e di condurre qualche traffico, come vedremo.

Tornati alle baracche, finalmente possiamo sistemarci in un  reparto, mettendoci fra amici in castelli vicini. Ogni castello ha tre giacigli costituiti da assicelle parallele e da uno strato di paglia che si assottiglia di giorno in giorno. Ognuno di noi ha una specie di copertina di lana nella quale si ravvolge durante la notte.

Io mi ritrovo in un gruppo di 9 amici ex allievi che faremo per tutto il tempo vita in comune. Iniziamo subito con il riuscire a impadronirci di una vecchia porta di legno fuori uso che, su pile di grossi mattoni, viene sistemata tra due castelli e ci servirà come tavola da pranzo, tavolo da lavoro, tavolo da salotto; passeremo molto tempo seduti su improbabili panchetti intorno a quel tavolo,  a macinare i nostri discorsi interminabili attraverso i quali finiremo per conoscerci molto bene.

Nei primi giorni avremo tutti un serio problema: passeremo buona parte del nostro tempo libero tranquillamente seduti sui tronchi della grande latrina in paziente attesa, che si protrae per giorni e giorni; dapprima ci si scherza su, ci si fa salotto; poi, col passare dei giorni, cominciamo a impensierirci, finchè, nel torno di una settimana, un po’ alla volta tutto si risolve felicemente; ma non per tutti. Uno dei nostri compagni, un certo Castelli, figlio dell’ingegnere costruttore e proprietario del Teatro Sistina di Roma, deve ancora continuare con le sue sedute, ma sempre più impaurito; diventa taciturno, si nasconde quasi per non far notare il suo sguardo di animale terrorizzato; non sa che pensare; nessuno sa dargli né un aiuto né un conforto. Un bel giorno, dopo quasi tre settimane, un grido festante si diffonde rapidissimo per il campo ad annunciare il lieto evento: siamo tutti felici e lui finalmente si vede in giro, un po’ trasognato, a testa alta: ha ripreso fiducia in sé e nella vita.

VIII.3)  La giornata nel Lager

A ora molto sollecita i militari, di solito accompagnati dai cani, passano ad aprire le porte dei reparti, perché possiamo uscire e recarci alla latrina grande. La latrina di reparto, senza luce, diventa subito un lordume impraticabile e viene usata da noi solo in casi di vera urgenza.

Ci alziamo dai giacigli con le ossa un po’ rotte. Non ci dobbiamo vestire perché eravamo andati a dormire senza spogliarci. Fuori, ci sono pompe per l’acqua qua e là nel prato. Senza troppo esagerare ci si dà una lavatina alla faccia, prima o dopo la visita alla latrina, per la quale occorre mettersi in fila. C’è chi ogni settimana prova a farsi la barba, con fortunosi avanzi di sapone e di lamette “Bolzano”.

A ora fissa ci si aduna aggruppati per reparto nel gran piazzale antistante la cucina,  per accedere a due a due sotto la coppia di finestrini dai quali ci sarà distribuito il tè di tiglio, caldo e lievemente dolciastro, in quantità apprezzabile.

Quindi comincia la giornata da riempire al meglio possibile, un po’ in giro, curiosando per ogni dove per ambientarsi bene, un po’ in baracca con i compagni.

A metà giornata, tutti di nuovo in fila davanti alle cucine per la distribuzione del pranzo: questo è costituito da una abbondante minestra di rape. Essa è fatta di sola acqua e rape, rape enormi sconosciute da noi, che vengono fatte a pezzi e messe a consumare nella bollitura finché si disfano completamente cedendo tutta la loro sostanza all’acqua. Nel succhiare questa piacevole cosa calda ti viene talvolta tra i denti un residuo di fibra. La domenica si distingue perché la minestra è fatta invece con le patate; non solo; nella brodaglia si avverte un buon sapore estraneo e si capisce di che si tratta quando rimestando col cucchiaio vedi – insieme con tracce di buccia di patata – dei filamenti scuri: è carne che si è sfibrata completamente a forza di bollire. Per ritirare la minestra usiamo delle enormi ciotole di terracotta che ci sono state distribuite il primo giorno e che possono essere facilmente sostituite se si rompono.

A sera c’è il vero pasto. Viene distribuita una pagnotta rotonda di pane bigio per ogni cinque persone, e una decina di grammi di margarina a testa (di domenica è burro). La divisione della pagnotta segue un preciso rituale. Qualcuno di noi è riuscito a salvare il suo rapportatore, il quale permette di misurare cinque spicchi della pagnotta aventi ciascuno 72 gradi di ampiezza angolare. Tagliati i cinque spicchi, ognuno cerca di individuare uno spicchio che sia magari di pochissimo più grande degli altri e che spera gli venga assegnato. L’assegnazione la fa uno dei cinque che si gira di spalle e decide a chi deve essere data la porzione man mano indicata dietro di lui. Una volta che ti sia toccata proprio quella che avevi valutata come la più grande, présala in mano ti accorgi senza il minimo dubbio che essa è viceversa la più piccola.  E qui comincia la consumazione della cena, che deve durare il più possibile. Ognuno ha il suo modo. Io avevo imparato a fare col pane delle fettine sottilissime quasi come ostie (il pane scuro tedesco si presta a questo taglio senza sbriciolarsi), su ciascuna delle quali depositavo una molecola di margarina, in modo da avere in fine una montagna di microtartine che poi depositavo una a una sulla lingua in un godimento supremo. Tutti intorno alla nostra tavola, al buio attenuato da una fioca lampadina appesa tra le file di castelli, ci si estasiava con i ricordi di pranzi sontuosi, tanto più sontuosi quando li inventava un nostro compagno napoletano raccontandoli minutamente con vera arte  nella preparazione, nell’aspetto e nel sapore delle varie portate.

Quindi, sognando di essere stati invitati da Lucullo, si andava a nanna nei nostri giacigli. Da un pezzo sono venuti a sprangare gli ingressi.

VIII.4)  Appelli tedeschi e repubblichini

Dopo pochi giorni dal nostro arrivo al campo siamo chiamati a una adunata generale,  per sentire un appello dei tedeschi ad aderire ad una formazione militare da impiegare in operazioni belliche “per il riscatto dell’onore degli italiani”. L’adunata ha breve durata perché nessuno di noi si fa avanti. I tedeschi che ci avevano provato capiscono subito l’antifona. Tutto finisce con una sanzione semplice: a sera saltiamo la distribuzione del pane.

Qualche tempo dopo, nel primo pomeriggio di un giovedì, nuova adunata. Stavolta sono i rappresentanti della Repubblica di Salò a chiedere la nostra adesione a far parte dell’esercito repubblichino, che ci permetterebbe di rientrare subito in Italia. Gli appelli sono lunghi e insistiti; ci viene lasciato tutto il tempo di riflettere e decidere. Nel generale rifiuto, qualcuno dei nostri inizia una discussione. Un confuso dibattito si sviluppa nell’ambito del gruppo degli ufficiali, che sono alloggiati in una speciale baracca con qualche comodità. Qualcuno degli ufficiali favorevoli viene tra noi per convincerci. Una lite violenta si sviluppa in particolare tra un importante Generale (pare sia stato al comando di una grande unità nei Balcani), propenso ad aderire, e un Capitano degli Alpini, vivacissimo contestatore; benché l’eloquio e anche gli argomenti del Capitano siano un po’ rozzi, siamo tutti per lui. Dopo ore di dibattiti e di richiami in fila per nuovi appelli ed esortazioni, finalmente l’adunata si scioglie con un ben misero risultato: aderiscono una quindicina di persone.

In conseguenza del nostro rifiuto, dopo la minestra di quel giovedì viene sospesa la somministrazione dei pasti: niente quella sera, niente il giorno dopo, niente tutto il sabato. Saremo chiamati a metterci in fila per la minestra la domenica successiva.

Nel frattempo abbiamo avuto illimitata disponibilità di acqua dalle pompe. Qualcuno che, non si sa come, disponeva di un pizzico di sale è andato cercando ai bordi del prato e specialmente alla base del grande reticolato qualche erba forse commestibile e ha organizzato un festino. Io ci ho provato senza sale: andava bene lo stesso. Ma la poca erba decente è finita presto in un prato normalmente percorso in lungo e in largo da migliaia di internati.

Come abbiamo fatto a resistere? Certamente ci ha aiutato l’acqua, che è più necessaria del cibo. Nell’incertezza della durata del digiuno, dovevamo essere pronti a resistere ad oltranza: il meglio era di risparmiare al massimo energie e calorie; io mi sentii in dovere di raccomandare a tutti di restare il più a lungo possibile sdraiati nei nostri giacigli, immobili e in silenzio.

Io sono stato fiero delle mie condizioni fisiche quando, a fine mattinata della domenica, siamo stati chiamati a metterci in fila per la minestra: io ho potuto andare senza grosse difficoltà e ho anzi potuto aiutare qualche compagno che cadeva nel breve tragitto, sdilinquito dall’inedia.

Voglio notare che io non ho mai avuto l’aspetto di persona aitante o robusta, non ho mai praticamente fatto sport o esercizi fisici tranne quelli inevitabili in ambito scolastico, non sono mai stato un salutista, ma, nei confronti dei miei compagni coetanei tutti selezionati da visite sanitarie militari, sono sempre stato fra i più resistenti alle difficoltà fisiche. Di ciò debbo essere particolarmente grato ai miei genitori.

Sul comportamento degli internati italiani di fronte a questi appelli ho notato che esiste una abbondante letteratura memorialistica e di analisi, alla quale non ho mai dedicato attenzione. Voglio però segnalare un Convegno di Studi sull’argomento tenuto a Firenze nel 1985 e in particolare un interessante intervento di E. Ciantelli (Atti del Convegno di Studi  di Firenze, Novembre 1985, su I militari italiani internati dai tedeschi dopo l’8 settembre 1943, Giunti Marzocco, Firenze, 1986, pag. 169).

VIII.5)  La lotta contro la fame

La fame ci faceva compagnia, affezionata e fedele, benefica per il mantenimento della linea e per lo sviluppo della capacità di iniziativa, per il ritorno allo spirito della natura e alla essenzialità degli interessi.

Come gli animali selvatici che sono sempre a caccia di preda e sempre in difesa contro animali più forti, ognuno di noi si dedicava innanzitutto a soddisfare questa esigente ma benefica fame.

A me capitò un giorno di essere chiamato da un tedesco per andare una tantum in cucina a pelare patate insieme con altri compagni: mi parve una chiamata in paradiso, in quell’ambiente tanto sognato, caldo, con quegli alpini sempre di buon umore. Non è che si potesse ricavare gran ché da questo privilegio, ma dall’interno delle cucine si poteva capire qualche cosa dell’organizzazione.

Finito il lavoro di pulitura delle patate, facemmo altri servizi di pulizie e rassetti di materiali, finché, alla distribuzione della minestra, avemmo il privilegio di essere serviti per primi e di consumare il pasto all’interno delle cucine per aiutare poi al riordino dell’ambiente. Vidi allora che nei bidoni della minestra alla fine della distribuzione rimanevano consistenti avanzi. Un bidone con questi  avanzi venne portato nella stanza del maresciallo capo delle cucine, stanza la cui bassa finestra affacciava sul prato a lato dell’edificio. Il maresciallo era da noi chiamato Quasimodo, perché era molto basso, un po’ curvo, e con una faccia stranamente deforme. Io lo avevo osservato molto, come tipo umano interessante, e avevo notato che a volte aveva smorfie quasi di dolore, ma non avevo mai visto in lui una espressione truce o minacciosa o comunque dura come in tutti gli altri tedeschi. Mi convinsi che potevo tentare un approccio senza troppi rischi. Così, nel primo pomeriggio di un giorno successivo andai sotto la sua finestra e rimasi un pezzo a guardarlo lavorare al suo scrittoio finché lui mi notò. Seccato, mi fece cenno di allontanarmi, ma io risposi con una umile espressione quasi filiale di preghiera, mostrandogli il ciotolone che portavo in mano. Lui ripeté il gesto seccato di prima e poi si attardò a guardarmi. Adoperai tutte le mie capacità mimiche per esprimergli  un sentimento di quasi adorazione. Allora, miracolo, con un gesto brusco mi indicò il ciotolone, glielo porsi, si scostò dalla finestra e poi ritornò grugnendo per consegnarmi il recipiente abbondantemente riempito di minestra. Il mio sguardo di ringraziamento era ovviamente più che sincero e, nascondendo il ciotolone sotto il pastrano, sincera era anche la tacita promessa di non divulgare questa concessione straordinaria. Ebbi in questo modo più di una volta una seconda razione, che in parte servì anche per attenuare lo sguardo allucinato del mio amico Marcello Lang davvero sofferente per la fame. Le volte successive (non ne abusai) sembrava quasi  che Quasimodo mi aspettasse, sia pure con l’espressione sempre seccata e coi suoi grugniti. La ciotola nascosta sotto il pastrano e tenuta stretta tra il fianco e il gomito rilasciava inevitabilmente dei piccoli versamenti, che scolavano lungo i miei pantaloni blu da marinaio suscitando interrogativi dei compagni e soprattutto sospetti del comandante tedesco del mio reparto. Dovetti cercare di pulire energicamente i pantaloni e di essere molto più prudente ed attento.

Una sera eravamo, come sempre, i soliti nove seduti attorno alla nostra tavola a consumare lentamente la cena. A uno di noi capitò, tagliando ad ostie sottili il suo pane, che una di queste  rotolasse via dalla tavola e finisse in terra. Egli naturalmente si chinò a cercarla con la mano, ma non trovandola si dovette alzare, scostare la sua panchetta e fare una ricerca più accurata. Era buio, non si sarebbe potuto vedere l’ostia là in terra, bisognava cercarla tastando il terreno. Un bel momento ci alzammo tutti e con molta calma ci mettemmo ad ispezionare sistematicamente tutto il pavimento con le nostre mani. Ognuno di noi desiderava che si trovasse l’ostia per evitare di essere magari sospettato di averla sottratta. Nonostante ogni cura, non ci fu verso; si dovette abbandonare la ricerca e quei cinque grammi di pane divennero motivo di un certo turbamento nelle nostre reciproche relazioni. Poi, finimmo per non pensarci più. Nei giorni successivi notai uno dei nostri compagni – uno dei miei amici più cari, che dormiva nel mio castello al piano di sotto – divenire un po’ distratto e quasi taciturno. Egli era figlio di un ammiraglio che in quel periodo comandava o aveva comandato la base navale della Maddalena. Io gli volevo bene perché era  dolce, bravo, forse un po’ indifeso. Vedevo con preoccupazione il suo mutamento di umore, di cui non voleva darmi spiegazioni. Con piacere acconsentii quando lui mi propose una sera, con la scusa del freddo, di venire a dormire con me unendo insieme le due coperte intorno a noi. Tardava ad addormentarsi e a un certo punto lo sentii singhiozzare. Sollecitato a parlare, in quella intimità mi confessò piangendo che era stato lui a raccogliere la famosa ostia di pane e, siccome non era stato visto, l’aveva nascosta per andare a mangiarla più lontano. Che cosa potevo dirgli? Che per cinque grammi di pane stava soffrendo l’inferno! Che avrebbe potuto dirmelo subito e avrei io restituito il pane con l’interesse! Dopo la confessione, che restò fra noi, egli riprese fiato e diventammo ancora più amici.

Alcune settimane dopo il nostro arrivo al campo, ci riportarono di nuovo al centro di disinfestazione con la solita procedura, in gruppi per baracche. Al termine, rimescolarono volutamente le carte e ricomposero i gruppi con qualche variazione. Nessuno tornò alla baracca di prima. Io inoltre mi trovai aggregato ad un gruppo diverso da quello dei miei amici e fui registrato col mio numero di matricola al nuovo reparto. Nella nuova baracca non conoscevo nessuno. Così, il giorno dopo e per tutto il resto del tempo, dal momento dell’apertura delle baracche, io correvo dove si trovavano i miei amici e passavo con loro tutta la giornata sino all’ora della chiusura. Per me fu una perdita grave perché non potei più godere le serate intorno alla tavola,  che erano il momento più distensivo e talvolta anche divertente della giornata. Ne ricavai in cambio qualche vantaggio. Quando si trattava di raccogliersi nei gruppi schierati davanti alle cucine, io mi aggregavo regolarmente con la baracca che era schierata più avanti, la mia nuova o la vecchia. Il comandante della vecchia mi vedeva lì tutto il giorno e non poteva avere dubbi sulla mia dipendenza da lui; il comandante della nuova non avrebbe potuto fare obiezioni perché il mio numero di matricola era fra quelli di sua competenza. Quando fra i due gruppi se ne trovavano intervallati altri, siccome ci voleva abbastanza tempo perché esaurissero le loro sfilate, io avevo modo di prendere la prima minestra, andare ad ingozzarla rapidamente, pulire alla meglio il ciotolone e ripresentarmi col mio secondo gruppo. Una volta che non ebbi il tempo di consumare la minestra, la misi da parte, raccolsi da terra un pezzo di ciotolone rotto che avevo già visto, mi presentai con quello al comandante del mio secondo gruppo, il quale mi autorizzò a passare subito al magazzino a prendere un nuovo ciotolone e tornare in fila. Marcello Lang era talvolta il beneficiario delle mie manovre, che divertivano molto tutti i compagni.

VIII.6)  Episodi di vita nel Lager

Un giorno, gironzolando per il prato, mi imbattei in un fatto agghiacciante: un prigioniero russo che con alcuni suoi compagni stava facendo con molta calma qualche operazione di pulizia vicino al grande reticolato, si accasciò improvvisamente a terra e rimase inanimato. Restai senza fiato (era la prima volta in vita mia che vedevo morire un uomo) e ancor più mi impressionò il vedere due suoi compagni che con la stessa calma di prima, senza dire una parola, lo presero per le braccia e per i piedi e lo portarono via come se fosse del materiale da trasportare altrove.

In quella occasione seppi che l’anno precedente  erano morti circa 2.000 russi in quel campo e che i loro corpi erano sepolti in una grande fossa scavata a poche centinaia di metri da lì verso la ferrovia.

I russi erano in un certo senso formalmente accomunati a noi italiani perché né a loro né a noi veniva applicata la Convenzione di Ginevra sui prigionieri di guerra; non a loro perché l’Unione Sovietica non vi aveva aderito; non a noi perché gli italiani non erano considerati prigionieri di guerra. Ma c’era una differenza abissale fra noi, differenza che ha pesantemente marcato i nostri rispettivi livelli di trattamento: i russi venivano appena considerati uomini anziché bestie.

Giornate di grande trambusto vennero quando in un campo adiacente a quello degli italiani rimasto temporaneamente vuoto arrivarono centinaia e centinaia di prigionieri inglesi e australiani. Erano molto vivaci, rumorosissimi, niente di paragonabile all’aria di sopravvissuti che avevamo noi. Apprendendo che noi eravamo italiani, rimasero sorpresi e quasi increduli di trovarsi in un Lager con noi. Si avviarono subito conversazioni attraverso l’alto reticolato. Diversi miei amici parlavano bene l’inglese. Loro venivano da un altro Lager attraverso un lungo viaggio di trasferimento che aveva scompigliato le loro abitudini. Erano abituati a ricevere ogni settimana dalla Croce Rossa Britannica un pacco di tre chili confezionato scientificamente per sfruttare al meglio quel peso (cioccolata, tè,  caffè, biscotti, sigarette, articoli da toletta, perfino carta da scrivere). Il pacco dell’ultima settimana era in ritardo e, col trasferimento, non sapevano quando sarebbe arrivato. Sicché volevano acquistare sigarette da noi. Rimasero male quando si resero conto che noi non potevamo soddisfare i loro bisogni. Ciononostante, ci fu qualche casuale scambio di altre merci lanciate oltre l’alto reticolato. Rimanemmo stupiti quando, parlando della guerra che doveva finire presto, sentimmo che molti di loro al rientro in Inghilterra avrebbero mandato a casa Churchill votando per il candidato laburista; cosa che poi avvenne davvero quando nel luglio del 1945 andò al governo Clement Attlee. Ci pareva assurdo sbattere via la mitica guida della Gran Bretagna, il prestigioso vincitore. Ma per loro un conservatore è un conservatore anche se ha portato il suo paese a vincere una guerra così difficile. Le nostre conversazioni furono bruscamente interrotte dai sorveglianti tedeschi che si misero improvvisamente a urlarci di andar via; non essendo stati ubbiditi subito, ci scagliarono contro dei cani dai quali ci salvammo a malapena rifugiandoci in tempo dentro le nostre baracche.

Dopo gli inutili inviti ad aderire alla Repubblica di Salò, ci fu una continua serie di appelli con i quali ci venivano comunicate delle offerte di lavoro, per lo più lavori da operaio o manovale, provenienti da stabilimenti, ditte e imprese private le più diverse. Arrivarono poi anche molte richieste per lavori agricoli e, ricordo, perfino per lavoro da giardiniere. Dapprima qualche diffidenza, poi iniziarono le risposte positive alle varie richieste, sicché la popolazione del settore italiano andò gradualmente ad assottigliarsi. I nostri soldati pensavano giustamente che qualsiasi lavoro fosse più accettabile della vita e della fame del Lager.

A me capitò invece un giorno di essere preso d’autorità, insieme con altri due italiani scelti a caso, e di essere portato, con la scorta di soldati innanzi e dietro, fuori del Lager, a piedi, per una destinazione abbastanza vicina. Il trovarmi d’improvviso a camminare per una strada normale, in vicinanza di persone normali, mi dette una sensazione quasi di capogiro, l’impressione di vacillare, un senso di irrealtà. Camminando in fila indiana arrivammo a un paese vicino, Sankt Veit,  e ci portarono a un gruppo di case nuove in corso di ultimazione. Seppi poi che erano destinate agli optanti altoatesini, e cioè ai sudtirolesi che in base a un accordo Mussolini-Hitler potevano trasferirsi in Austria dalla Provincia di Bolzano e che per questo erano piuttosto malvisti dagli austriaci. Fummo messi a lavorare con mansioni molto elementari. Io fui addetto a sistemare le inferriate che nel marciapiede chiudevano gli accessi alle cantine, le classiche bocche di lupo usate per scaricare il carbone in cantina: il riquadro in cemento nel quale doveva essere inserita l’ inferriata, già pronta sul posto,  doveva essere aggiustato a colpi di scalpello in modo da adeguarlo alla misura precisa di quella. Mi misi pazientemente, con le gambe penzoloni nel vano, a battere con lo scalpello producendo un bel po’ di polvere. Dopo tre o quattro inferriate, quella polvere andò poco a poco ingrigendo la folta barba che portavo in quei giorni, tanto da finire di assumere una figura da babbo natale. Tale debbo essere apparso a tre o quattro bimbetti e bimbette che mi si erano messi intorno ad osservarmi e di cui mi accorsi quando si misero tutti a ridere. Mi sentii come uno zimbello di quei bimbi, ma mi fece piacere di vedere così vicini a me degli esserini innocenti e graziosi. Avemmo uno scambio di occhiate complici. Dopo un po’ loro scomparvero, finché sentii un bisbiglio sotto di me, in cantina. Guardando bene, vidi il più grandicello di loro che si alzava sulle punte dei piedini, sorretto e aiutato dai compagni, per porgermi sorridendo una bella mela rossa. Quando riuscii ad afferrare quella mela, loro cinguettando allegrissimi scapparono via; io non riuscii a fermare lacrime di commozione.

VIII.7)  Ultimi giorni nel Lager

Lo svuotamento del nostro settore del Lager per effetto delle richieste di mano d’opera italiana diventa da un giorno all’altro travolgente. Le giornaliere adunate con la lettura dei lavori offerti hanno indubbio successo. Ma rimane uno zòccolo duro che recalcitra. E allora cominciano le minacce.  E’ chiaro che i tedeschi debbono smobilitare questo settore per qualche altra utilizzazione (per esempio, trasferimento in questo campo di prigionieri sinora tenuti in territori che cominciano a essere a rischio, come i Balcani, la Francia, la Polonia). E allora ci dicono che chi non accetterà liberamente le offerte sarà poi inesorabilmente sbattuto nei posti e nei lavori peggiori.

Gli ultimi siamo ormai non più di un centinaio, per la massima parte ex allievi di Brioni. Il campo è tutto nostro, sembra che si cominci a stare un po’ meglio, ci sono meno sorveglianti, la cucina funziona regolarmente per poche razioni.

Si decide intanto di far lavorare una trentina di noi nel campo. Tutti i giorni, per quasi tutto il giorno, si va a lavorare “alle pezze”: in un vasto locale troviamo montagne di vecchie divise di panno di diversi eserciti, tedesco, francese, serbo; noi dobbiamo scucirle completamente, con lamette inastate a un manico, raccogliendo le pezze di risulta a seconda delle dimensioni, alcune praticamente dei ritagli, altre invece piuttosto grosse e certamente riutilizzabili in qualche modo nella economia di guerra. Stiamo tutti intorno a un lungo tavolo a incidere nelle cuciture e a dipanare e smembrare pian piano questi informi capi un po’ lisi, un po’ strappati, un po’ bucati da pallottole o bruciacchiati. Il maneggio delle pezze provoca una particolare polvere lievemente irritante e che dà un  caratteristico odore al locale. L’ambiente è tranquillo e anche un po’ tiepido. Nessuno ci controlla.

Quello stare così raccolti e fermi, come donne a far la maglia, propizia la conversazione. Finalmente possiamo chiacchierare distesamente dell’avvenire dell’Italia, senza voli pindarici, senza proclami, senza ideologie. Tra i miei compagni ci sono Pietro Antonelli, Vittorio De Seta, Orazio Fabbrini, Elio Dassù, Oreste del Buono, compagni di bella levatura intellettuale e morale, alcuni già familiarizzatisi con la politica attraverso contatti con l’ambiente che ruota intorno a Croce e Omodeo. E’ la mia prima vera iniziazione alla libertà di espressione del pensiero, che mi lascerà tracce per tutta la vita.

Il campo di concentramento è stato per me una importante scuola di vita, che mi ha arricchito sotto molti aspetti. Intanto, le sofferenze fisiche se non incidono sulla salute rafforzano lo spirito. La vita comune con i compagni in quelle condizioni fa scoprire l’essenza dell’amicizia. L’incontro con compagni di quel livello ha sensibilmente arricchito i miei orizzonti.

Giunge il momento in cui nel settore italiano siamo rimasti proprio in pochi, gli irriducibili. Un russo che circolava con una certa facilità nei vari settori con incarichi alquanto misteriosi faceva affari tramutando cose nostre di qualche valore con qualche chilo di pane, con gallette, con cioccolato, con sigarette: mi sta addosso da un pezzo e quando rimaniamo in così pochi mi tormenta di più aumentando le sue offerte. Avevo visto le consegne che lui faceva, in cambio di cose che in quelle circostanze non avevano utilità immediata per noi. Un bel giorno mi decisi e contrattai la vendita dell’orologio che avevo ereditato dal compagno del carro merci. Vitty De Seta che mi vede contrattare mi chiede di fare qualcosa pure per lui, che poteva per ora mettere a disposizione solo un paio di scarpe da ginnastica nuove. Contrattai anche le scarpe e rimanemmo d’accordo col russo che nel primo pomeriggio del giorno dopo lui mi avrebbe portato la merce nel magazzino di deposito dei materiali. Intanto io gli consegnai orologio e scarpe, secondo gli usi.

La mattina dopo gli ultimi irriducibili fummo destinati d’autorità ad andare ad un Arbeitskommando. Ci adunarono con i nostri bagagli, ci fecero lasciare il campo dove eravamo rimasti per 38 giorni, ci caricarono su un carro passeggeri delle ferrovie e lasciammo Markt Pongau. Era il 3 novembre 1943. Io e Vitty pagammo dazio lasciando al russo le nostre cose più preziose.

Il viaggio per la nuova misteriosa destinazione fu lunghissimo. La nostra vettura veniva abbandonata qua e là per ore senza che nessuno si preoccupasse di farci avere qualcosa da mangiare. A sera, a un estremo della vettura si vide un soldato tedesco, uno degli accompagnatori, che mise a terra un sacco pieno di pane che sicuramente doveva esserci distribuito, ma che lui pretese di venderci barattandolo con oggetti di suo gradimento. Spinti dalla fame ci mettemmo a rovistare nel bagaglio per trovare ciò che gli potesse interessare. Alla fine, indicò egli stesso i miei bei pantaloni di panno azzurro carico ancora praticamente nuovi. Accettai il sacrificio, ma non riuscii ad ottenere se non mezzo chilo di pane. Era un pane assai caro, ma in quel momento mi sembrò che fosse la mia salvezza.

A notte alta scendemmo dal treno e fummo divisi in due gruppi; nel mio eravamo in 48. Noi fummo caricati su due camion che nella notte molto avanzata ci scaricarono ai piedi di una montagna, facendoci salire su una strana larga piattaforma di legno. Questa si mise in modo salendo il pendio su un binario, tirata da un cavo d’acciaio che all’estremità superiore faceva capo ad un argano con motore elettrico. Salendo, la piattaforma oscillava secondo l’accentuarsi o il diminuire della pendenza. Era l’Aufzug, il normale mezzo di trasporto di persone e di materiali per arrivare ad un cantiere che era su, su, su. L’Aufzug saliva lentamente in mezzo a un corridoio ricavato tra alti abeti. In alto tra gli alberi si vedevano tante stelle. Sembrava che non si arrivasse mai. Finalmente giungemmo al termine, dove piazzali, scalette, sentieri, erano circondati da tante baracche piccole e grandi. Fummo portati alla baracca posta più in alto e avemmo appena il tempo di essere rinchiusi da nuovi militari tedeschi in due camerate, ciascuna con 12 castelli a due posti. Terminammo lassù il sonno che da un pezzo avevamo avviato sui camion e nell’Aufzug.


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