Capitolo XII
La fine della guerra
(1945)

XII.1)  Ritorno a Hochried

Ultimati i lavori in Pinzgau, si ritorna tutti nella Zillertal, al vecchio cantiere TIWAG di Hochried. Ormai la galleria è ultimata. C’è da fare piccoli lavori di rifinitura al cantiere di base.

Per esempio, io vengo destinato a lavorare all’edificio in costruzione della Centrale, ai piedi della montagna. Per prima cosa, dovrò fare le connessioni fra nastri di rame che corrono entro la base dell’edificio. Un lavoro di una semplicità enorme, ma che mi fa inquadrare fra gli elettricisti.

Tutti i giorni, scendo al mattino sull’Aufzug dal cantiere di sopra al cantiere di base e alla sera riprendo l’Aufzug, il cui manovratore è un italiano.

A pranzo, mangio alla mensa del cantiere di base, la cui cucina è quella che rifornisce tutte le mense dei cantieri della galleria.

Di domenica il valligiano piemontese Dalmasso è scomparso prestissimo. A fine mattinata ricompare e con aria misteriosa si mette a trafficare con un gran bidone, di quelli da carburante, che  viene normalmente usato come contenitore di acqua. Ha preparato un fuoco a terra e un sistema di treppiede di mattoni sul quale monta il bidone pieno di acqua. Quando noi andiamo a pranzo lui sta ancora combattendo col fuoco. Al nostro ritorno il bidone sembra già vicino al bollore. Lo lasciamo al suo traffico finché, a pomeriggio avanzato, cominciamo a capire. Stamane era andato a pesca in fondo alle forre del fiume Gerlos, tra le rocce. Ha pescato otto trote di buona taglia e le ha messe tutte a bollire. Poi ha tirato fuori delle pagnotte che aveva messe da parte da qualche giorno. Si mangia le otto trote con qualche chilo di pane e alla fine si attacca direttamente al bidone per bersi buona parte del .. brodo di cottura. Ha realizzato un sogno accarezzato da mesi.

Vado spesso a Zell am Ziller, che è a un paio di chilometri dal cantiere di base. Una domenica, tornando da Zell, mi fermo un po’ al cantiere di base dove alcuni amici italiani stanno giocando con una palla fra le baracche. A guardarli giocare ci sono due ragazze tedesche che lavorano alla mensa. Io rincorro la palla che è andata a finire dietro una baracca e mi vedo raggiungere da una delle due ragazze, Herta, che finge di contendermi la palla e intanto mi chiede il nome e vuol sapere quale è la mia baracca. A sera, il manovratore italiano dell’Aufzug si affaccia alla mia baracca, chiede chi è Nino, mi dice che là fuori c’è una ragazza che mi vuole parlare. E’ Herta che chiacchierando mi fa allontanare dalla baracca, nel buio, poi si stende a terra e mi si offre. Io sorpreso dalla visita e ancor più dall’offerta, non riesco a entrare nel ruolo che lei si attende. E’ un incontro penoso, risolto poi alla meglio con mio scorno. La riaccompagno all’Aufzug chiedendole scusa. Giorni dopo, la rivedo in circostanze analoghe alla prima volta. Stavolta lei mi viene decisamente incontro, mi prende per mano e mi porta in una baracca, dove in una fila di numerose stanzette c’è quella dove alloggia lei con la sua collega Theresia. Con molta dolcezza mi coccola fino a condurmi a una felice conclusione riparatoria della disavventura precedente. A consacrare l’unione e quasi a piantare una bandiera sulla rocca conquistata, mi dà una sua piccola foto da tessera con tanto di dedica amorosa. So poi che si dà da fare con gli italiani sperando di conquistarne almeno uno come “fidanzato” fisso.

Nel frattempo ho difficoltà a comunicare con Marta, che è tornata a vivere a Wald, a casa sua. Ma si fa viva lei e mi fa sapere che fra giorni verrà a Zell am Ziller per una certa faccenda sua. Infatti, viene a trovarmi una sera, a conclusione della sua giornata di Zell, per farmi una grossa rivelazione.

Si è accorta di essere incinta, ne ha avuto conferma, ha deciso di ricorrere all’aborto ed è venuta per questo a Zell, dove si trova una persona che può compiere il necessario intervento. Ma quando sta per fissare l’appuntamento ci ripensa e decide di tenersi il bambino che verrà. Lei è molto commossa, io sorpreso, impreparato in ogni senso a una situazione del genere; egoisticamente preoccupato, sono infine sopraffatto dalla piena dei sentimenti di lei, che si rivela innamorata di un amore ben più profondo di quanto io avessi immaginato. E’ sabato sera. Lei dormirà in un piccolo Gasthof a Zell, rimandandomi alla mia baracca: non vuole rischiare di veder utilizzata da suo marito una eventuale documentazione nella causa in corso per l’annullamento del matrimonio.

Il giorno dopo facciamo a piedi la strada che risale la valle del Gerlos e che lei continuerà da sola fino al ritorno a casa. Ci saluteremo al sommo della prima salita, quando comincia il tratto pianeggiante che porta al paese di Gerlos. Per istrada, in una bellissima giornata di primavera, con i prati già invasi dalla prima fioritura, nella libera solitudine della montagna, viviamo delle ineffabili ore d’amore, fermandoci nei posti più belli, in una consonanza di sentimenti e di sensi degna di una favola. L’arrivederci finale mi gonfia il cuore mentre la vedo allontanarsi e pian piano sparire dietro la vegetazione.

XII.2)  Addio al lavoro di deportato

In quei giorni Oreste, che da tanto tempo sta conducendo una vita disagiata con caparbia sopportazione, si aggrava mostrando chiari sintomi di itterizia. Non può più continuare a rifiutare le necessarie attenzioni e cure e accetta di essere ricoverato in ospedale, dal quale probabilmente potrebbe avere addirittura il rimpatrio. Io sono incaricato di accompagnarlo. Deve andare a Schwaz, nella valle dell’Inn. Il viaggio è penoso per le condizioni e anche per il comportamento di Oreste, il quale continua a rifiutare qualsiasi aiuto. Questo suo atteggiamento sembrerebbe dimostrare uno sprezzante distacco dagli amici, ma è una scelta da lui fatta da tempo per scoraggiare ogni pietismo, per non pesare sugli amici.

Arriviamo all’ospedale di Schwaz, dove ho l’impressione che venga facilmente constatato il suo cattivo stato di salute. A quel punto, nell’alternativa tra il ricovero per le cure e il rimpatrio, credo che i tedeschi preferiranno senz’altro la seconda soluzione. Io lo saluto con questo augurio.

Nel viaggio e nel poco di permanenza a Schwaz mi si conferma l’impressione che è iniziato il processo interno di disfacimento della Germania guerriera. Siamo alla fine di aprile. Si sente parlare di sbandati che si aggirano per le montagne intorno alla valle dell’Inn. Molti militari circolano per la città, isolati o in gruppetti, in aspetti inediti specie nel comportamento e nel vestiario. La disciplina teutonica sta andando a farsi benedire.

Io decido di non tornare più al cantiere. Vado alla stazione ferroviaria e prendo un biglietto per Wörgl-Saalfelden-Zell am See, per arrivare poi a Wald, da Marta.

Mentre aspetto il treno, passeggio per il marciapiede della stazione, avanti e indietro. Arrivato ad una estremità, mi volto per tornare a ritroso e vedo uscire sul marciapiede dalle sale della stazione tre militari in aria di ronda. Chissà perché, faccio istintivamente marcia indietro. I tre mi hanno notato e mi vengono decisamente incontro. Mi invitano a seguirli in una stanzetta e mi interrogano come se fossi un pericoloso bandito. Racconto che sono stato ad accompagnare all’ospedale un collega, di cui vogliono sapere il nome; possono facilmente controllare la mia dichiarazione; mostro il mio Ausweis dell’Arbeitsfront, dico che sto andando verso il Pinzgau per tornare al mio cantiere. Sembrano dubbiosi, mi trattengono mentre uno di loro si allontana per un po’, credo che vada a telefonare all’ospedale. Finalmente torna e sono libero.

Arriva il treno che mi porta a Wörgl dove debbo cambiare per Zell am See. La stazione di Wörgl è affollatissima. E’ una stazione importante, perché da lì la linea si biforca, da una parte per Monaco di Baviera, dall’altra verso Salisburgo e Vienna. Tutti i treni che vengono dall’Italia passano per Wörgl.  Ma il traffico è  bloccato. Il ponte sul quale la linea ferroviaria attraversa l’Inn non è transitabile. Esso viene bombardato ogni giorno dagli Americani e ogni giorno i tedeschi gettano nuovamente i binari con una mastodontica gru sui piloni, che sono ormai costituiti da enormi fasci di tronchi di legno piantati sul letto del fiume. Sto un momento a guardare il lavoro febbrile del genio militare, che deve consentire il rapido passaggio di qualche convoglio sui binari appena appoggiati. E’ un lavoro tipico dell’efficienza e caparbietà teutonica.

Intanto la stazione pullula di gente. Non si sa quando potrà partire un convoglio per Salisburgo, ma certamente non prima dell’alba. Vado a cenare al ristorante della stazione, una grande sala che è già piena, soprattutto di militari. Mi trovano un tavolinetto, dove mangio utilizzando l’ampia dotazione che ho di bollini alimentari. Finito di mangiare, mi accendo una sigaretta con una certa voluttà. Da un tavolo vicino un gruppo di militari ha spiato la mia cena. Quando accendo la sigaretta, uno di loro mi si avvicina e, con molto rispetto, mi chiede se posso offrirgli da fumare. Non ho difficoltà ad aprire la scatola delle sigarette e ad invitarlo a servirsi; ciò visto, tutti i suoi compagni di tavolo si precipitano ai miei piedi a chiedere anche loro una sigaretta e sono accontentati. E’ troppo vistoso il rovesciamento dei ruoli; appena pochi giorni fa un militare tedesco avrebbe avuto la sua altezzosa maniera di distinguersi da un povero straniero. Questi hanno capito che sono italiano; si trasferiscono intorno a me con le loro seggiole, mi dicono che risalgono tutti dall’Italia; confessano che l’esercito del Reich è in disfacimento proprio in questi giorni e raccontano delle loro esperienze italiane. L’Italia è piaciuta a tutti. Alcuni mi fanno vedere fotografie di donne italiane di cui si sono innamorati. Con qualche bicchiere supplementare di birra offerto da me, l’angolino del ristorante si trasforma in un allegro ritrovo, tanto che uno di loro, presa ormai confidenza, si permette perfino di confessare che una cosa  dell’Italia non gli è piaciuta: l’olio d’oliva, che puzza quando si frigge. Io ho assunto il ruolo di un signore che tratta con benevolenza i suoi vassalli. Benché io non abbia un abbigliamento appropriato, una volta tanto loro sono più sciatti di me. Alla fine, nel ringraziarmi, mi augurano di rientrare presto alla mia “bella Roma”.

Dormicchio sdraiato alla meglio su una panca della sala d’aspetto popolare. La sera successiva sono a Wald a fare la sorpresa a Marta, che peraltro mi aveva più volte detto che gli ultimi giorni di guerra mi avrebbe ospitato per nascondermi a casa sua o a casa di suoi amici.

XII.3)  La fine delle ostilità

A Wald l’atmosfera è piuttosto tesa. Si nota un certo nervosismo con la sensazione che tutto stia precipitando. L’assurdità della situazione è evidenziata da un gruppo di vecchietti obbligati a scavare fossetti trasversali nelle vie di accesso al paese per .. fermare gli invasori. Una opposizione politica, completamente scomparsa da anni, accenna a uscire dalle catacombe.

Marta ritiene più sicuro per me allontanarmi per un poco dal paese. Mi porta in una casa di montagna, non molto distante, presso una famiglia amica che è disposta ad ospitarmi e nascondermi. Mi danno da dormire in una soffitta tra le travature del sottotetto. Mi debbo guadagnare il trattamento di pensione e quindi mi offro per qualsiasi lavoro. L’amica di Marta è una giovane donna simpatica e di poche parole; dirò meglio: non riusciamo a parlare molto perché lei conosce solo il dialetto locale che è un po’ più difficile di quello già difficile del versante tirolese.

C’è da falciare il fieno. E’ il mio solito problema: sul prato fortemente inclinato è tanto più arduo passare con forza e precisione la falce senza che la punta si alzi troppo senza tagliare nulla oppure si infili nel terreno. La donna ride divertita, si riprende la falce e con molta semplicità dà i suoi colpi sicuri ruotando col corpo ritmicamente a destra e a sinistra. Io farò altre cose: rastrellare il fieno; trasportare letame dalla baita ove sono le mucche ai diversi punti di raccolta nel prato, dai quali sarà poi disperso con altro lavoro di precisione. Il trasporto del letame su e giù per il prato è fatto con queste enormi gerle tenute sulla  schiena con cinghie; un po’ di letame nel movimento sfugge dalla gerla e si infila nel collo dentro gli indumenti: poco male, perché poi ci si lava stando a torso nudo sotto la pompa dell’acqua. Io conosco già la vita delle case di montagna, quindi mi adatto presto e volentieri. Una volta sale su Marta a vedere come vanno le cose e torna via soddisfatta.

Dall’alto dove io sono si nota uno straordinario movimento nelle strade giù a valle: molti mezzi meccanici di ogni tipo circolano per il paese e risalgono la strada per Gerlospass.

Una notte sono svegliato da un trambusto. Arriva alla soffitta un soldato che ha chiesto ospitalità per essere tenuto nascosto. E’ un tedesco della Sassonia e ha una pronuncia nettamente diversa da quelle cui sono abituato. Tra che usa anche lui un po’ di dialetto, tra che parla con molta concitazione, non riesco a capire molto di ciò che dice. Capisco comunque che l’esercito germanico si sta ritirando nelle vallate alpine e proprio nella nostra valle sono state portate tutte le dotazioni logistiche di una grande armata. Lui, che guidava un camion, arrivato a una destinazione ove la sua colonna si è fermata per scaricare il materiale, ha piantato tutto col favore della notte ed è scappato via, come stanno facendo tanti altri. Conta di arrivare al più presto a casa sua in Sassonia.

Non riesco più a dormire. A primissima mattina, arriva Marta a dirmi di scendere, perché non c’è più pericolo. Giunto in paese, vedo scene incredibili. Tutta la popolazione del paese è per strada; chi va, chi viene. Quelli che vengono portano sulle spalle i carichi più diversi: sacchi di farina, sacchi di zucchero, casse di bottiglie, scatoloni con confezioni, pacchi di biancheria; il padre di Marta rientra a casa ubriaco portando sulle spalle una botticella di rum. I camion che abbiamo visti ieri sono stati scaricati nei magazzini del paese (molti, della famiglia Strasser), nelle baite e nelle case di montagna. Ci sono anche armi, ma il più sono generi di consumo ben graditi dopo anni di razionamento di guerra. E’ una ubriacatura generale. Ma materiali ancora non saccheggiati e di sicura utilità  abbondano nei magazzini  ormai bloccati.

Sono all’albergo Strasser per seguire gli avvenimenti e per attendere l’arrivo degli Alleati. Tra le persone in attesa trovo una graziosa ragazza, studentessa universitaria, figlia degli Strasser, finalmente tornata a casa dopo mesi: è molto gentile e facciamo rapidamente conoscenza, per commentare gli avvenimenti. Trovo anche Pascia che, dopo la lunga guerra dichiarata agli italiani per colpa mia, finalmente fa pace con me nella comune attesa dell’arrivo dei vincitori.

Rapidamente si costituisce in paese un Comitato di salute pubblica, formato da persone che emergono dalla opposizione politica sotterranea. Il Comitato intende prendere il controllo provvisorio della situazione e, per prima cosa, procedere ad una distribuzione regolata dei materiali disponibili fra la popolazione del paese.

Stranamente, vengono da Marta a chiedere che io partecipi al lavoro del Comitato. Sarò l’unico straniero; ma ho già detto che ero diventato uno di loro. Accetto di buon grado. Mi invitano a cominciare il lavoro scegliendo intanto ciò che interessa a me. In un grande magazzino c’è una montagna di ottimi stivali. Vado a scegliermene un paio. Debbo proprio salire sul mucchio. Con gli stivali che prendo farò poi il viaggio di ritorno a casa. Vengo quindi incaricato di distribuire il contenuto di un certo magazzino. Vado a controllare e ci trovo: scatoloni di pacchetti di sigarette tedesche austriache e svizzere; scatole di sigari; confezioni di caramelle; pacchetti di stecche di cioccolata. E’ uno dei settori più piacevoli. Mi raccomandano di prendere la parte mia e un quantitativo per i membri del Comitato prima di procedere alla distribuzione. Si fa immediatamente una lunga fila di persone che vengono da aver fatto altre file e che intendono poi andare ad accodarsi ad altre file ancora. Combino una razione tipo da essere assegnata a tutti i concorrenti. Alla fine, avanzano caramelle; chiamo bambini che finiscono di vuotare il magazzino. Tutto è avvenuto pacificamente. E’ una giornata veramente di festa. E’ l’8 di maggio [1945]. E’ finita la guerra ed è arrivata la cuccagna. Il paese non ha sofferto bombardamenti. E’ finita bene.

A questo punto io potrei immediatamente partire per l’Italia. Ma mi trattengo per varie ragioni. Sono da Marta e finalmente possiamo stare tranquillamente insieme prima di separarci; sentiamo veramente il bisogno di vivere insieme questi ultimi momenti che ricorderemo per sempre. Corre voce poi che gli italiani che rientrano in Italia sono fermati alla frontiera e condotti in punti di raccolta, per una quarantena necessaria ad effettuare controlli e ad organizzare un ordinato avvio al rimpatrio.  E poi sto davvero godendomi queste strane giornate di rinascita della vita in una Austria che si sente tornata alla libertà.

Come è ovvio, con Marta si parla molto del bimbo. Lei mi assicura che lo attende con tanta gioia e che lo vuole anche come testimone di questo nostro amore. Mi chiede di non preoccuparmi minimamente di obblighi di nessun genere. Penserà lei al suo avvenire; si sente la forza e la volontà necessaria. Mi chiede però di rilasciarle una dichiarazione con la quale riconosco che il bambino che nascerà da lei  presumibilmente nel prossimo mese di novembre è mio figlio: lei mi prepara il testo e io lo firmo. La dichiarazione servirà ad evitare che sul bimbo possa avanzare rivendicazioni suo marito, di cui lei porta ancora legalmente il cognome.

Io le confesso il mio tradimento con Herta. Lei non ne fa una tragedia, ma strappa in minutissimi pezzi la fotografia che le ho mostrato.

In questi giorni di vita sospesa tra il passato e l’avvenire, che io trascorro come trasognato, si è come disattivata la mia consueta capacità di decisione. La mia famiglia in Italia sicuramente mi aspetta con ansia, ma io sto qui ancora incerto in attesa di qualche segnale.

Vengo in contatto casuale con un gruppetto di francesi, già prigionieri, di cui ignoravo l’esistenza, anche loro in  prudente attesa prima di tornare in patria. Mi invitano ad andarli a trovare in una casetta che hanno occupato al centro del paese. Trovo una tana piena di ogni ben di dio, ma soprattutto di vini, champagne, liquori e sigari, razziati abilmente il giorno 8 nella baldoria generale. Mi fanno partecipare alle loro bevute; ma io mi stanco presto del loro modo di stare rintanati in compagnia del solo alcool. 

XII.4)  Partenza per l’Italia

Gli austriaci sono terrorizzati dal rischio di finire sotto occupazione russa. Là per là mi sembrano paure esagerate, una specie di isterismo anticomunista; li capirò solo dopo anni, constatando la sorte dei Paesi dell’Europa orientale. Tutti sperano che arrivino presto gli americani per fermare in tempo i russi. Intanto, vediamo gente che si sposta verso occidente.

Quando mi decido finalmente a prendere la via del ritorno in Italia, dopo gli abbracci commossi e i reciproci ringraziamenti e le lacrime e i baci, metto insieme le mie pochissime cose in un capace zaino e mi avvio sulla strada per risalire al Gerlospass e ritornare a Hochried dove ho ancora il mio posto in baracca e dove ho lasciato i miei oggetti personali  e le poche ma preziose carte.

Faccio la strada in salita in compagnia di una signora viennese che ha noleggiato un carrettiere locale; lei segue a piedi il carretto sul quale c’è un ragazzetto suo figlio e un po’ di suppellettili con le cose più care. Anche lei fugge per paura dei russi. Non sa bene dove andrà: probabilmente in Svizzera. Intanto va alla ventura, con molto coraggio ed evidentemente con buoni mezzi di fortuna. E’ una donna colta e raffinata. Ci facciamo compagnia per diversi chilometri.

Arrivo a Hochried. In baracca c’è ancora qualcuno dei nostri. Ritrovo la mia roba. Mi vede Francesco Giorgini e mi propone di andare via insieme in Italia risalendo le Alpi. Lui ha già studiato un po’ il percorso, ma non possiamo andare da soli. Per fortuna a Zell incontriamo un gruppo di soldati italiani che ha appena assunto una guida locale. Ci aggreghiamo pagando la nostra quota. Il gruppo si è anche procurato un cavallo e un carretto sul quale si mettono tutte le nostre cose e le riserve di cibarie per il viaggio.

Di primo pomeriggio ci muoviamo verso Mayrhofen, poi risaliamo il Zillergrund fino al Bärenbad (Bagno degli orsi) a 1445 metri di altitudine, dove passeremo la notte per ripartire al mattino prima dell’alba. Poco prima di arrivare al Bärenbad abbiamo attraversato una collina nevosa che sbarra la stretta valle: è la neve di una enorme valanga, che finirà di sciogliersi  solo ad estate avanzata. A metà maggio, siamo in pieno periodo di valanghe. Perciò dovremo terminare la salita prima che si scaldi l’aria. La guida ci serve soprattutto per indicarci il comportamento da tenere in ogni situazione. Alle primissime luci si parte, zaino a spalla, guida in testa. Siamo una decina di persone, tutti giovani validi. Dobbiamo risalire un vallone, l’Hundskehlgrund, che dai 1445  arriva ai 2559 metri del valico che porta in Italia alla Valle Aurina. Il vallone al mattino è ghiacciato, sia nel fondo su cui noi camminiamo, sia nei due ripidi versanti che incombono ai lati. Saliamo lentamente non solo per l’asperità del sentiero, ma anche perché dobbiamo essere molto calmi e non fare rumore. La salita è praticamente in rettilineo, con una pendenza che aumenta sempre più fino a diventare verso la fine quasi una scalata. Ai due lati del vallone si ergono cime sui 3000 metri. Gli ultimi mille metri di cammino superano un dislivello di 400 metri. La guida ci lascia prima di quest’ultimo tratto, dopo averci dato le ultime precise raccomandazioni. Lui ha fretta di tornare giù per prendere possesso del carretto e del cavallo che costituiscono la sua retribuzione.

Finalmente in cima, ci affacciamo sul versante italiano inondato dal sole. Nell’ultima decina di metri fino allo spartiacque la roccia viene mantenuta sgombra di neve da un vento violento. Noi non possiamo stare allo scoperto per guardare e cantare la nostra Italia, perché il vento ce lo impedisce. Cerchiamo rifugio tra enormi massi per riposare un po’. Vi troviamo alcuni militari austriaci che sono risaliti dal versante italiano e che ci chiedono se abbiamo marchi tedeschi. Io ne ho, ma li avevo quasi dimenticati non sapendo che farne. Mi accorgo invece che al cambio di dieci lire per un marco – lo stesso esistente all’inizio della guerra – mi ritrovo un gruzzolo di  ben 1400 lire. Il mio stipendio alla SIAE era di 600 lire; penso quindi che ci potrò vivere un paio di mesi in attesa di una sistemazione.

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