Capitolo XIII
La ripresa della vita civile

XIII.1)  Luco sotto i tedeschi

Durante la mia assenza dall’Italia, a Luco è passata in qualche modo la guerra.

Subito dopo la mia partenza per la vita militare, il bombardamento di Roma del 19 luglio 1943 aveva indotto molti romani allo sfollamento, un po’ per paura delle bombe e un po’ perché  le grandi città non davano più alcuna garanzia di rifornimenti alimentari neanche entro i limiti delle previsioni del tesseramento. Mia sorella Elvezia con la sua famiglia si era rifugiata a Luco; più tardi si è trasferita a Luco anche l’altra sorella Maria con le due bambine, tutti nella nostra modesta casa.

In poco tempo il numero degli sfollati aumenterà notevolmente a Luco, arrivandovi non solo da Roma e da altre città, ma anche da Avezzano colpita essa pure da intensi bombardamenti e soprattutto dal Cassinate: la tabula rasa causata dai combattimenti in quella zona aveva fatto fuggire la povera popolazione in cerca di ambienti più tranquilli ove fosse possibile trovare i minimi mezzi di sopravvivenza. Per fortuna quell’anno aveva portato buoni raccolti; del resto le circostanze non consentivano ai commercianti di derrate di vendere altrove le patate ed altre produzioni solitamente esportate fuori regione. Perciò, ci fu da mangiare per tutti.

Ma la linea del fronte attestatasi per alcuni mesi a Cassino faceva di Luco uno dei centri più comodi delle retrovie non solo per gli sfollati, ma anche per i militari tedeschi che vi trascorrevano periodi di avvicendamento; un loro comando con alcuni servizi si era installato nella villa di mio zio Giovannino già trasferitosi ad Avezzano; soldati erano stati assegnati per alloggio in case private; mia sorella Giulia con i suoi quattro figli mentre il marito era prigioniero in Inghilterra dovette ospitarne quattro in un camerone. La presenza di tanti militari della Wehrmacht comportava spesso la mobilitazione di giovani del luogo obbligati ad eseguire lavori materiali.

A completare il quadro bisogna dire che dopo l’8 settembre si dispersero nella zona oltre 3.000 prigionieri, per lo più indiani, fuggiti dal Campo di concentramento di Avezzano lasciato improvvisamente incustodito; molti arrivarono anche a Luco, così vicino, e furono accolti, nascosti, nutriti dalla popolazione anche quando arrivarono ad installarvisi i militari tedeschi. Fu una gara di solidarietà esercitata dalla gente con molta naturalezza nonostante i gravi rischi connessi. La mia famiglia prese in cura due di essi, indiani, che non poteva ospitare in casa ma tenne nascosti in più luoghi, normalmente in vecchie casette cadenti ai margini del paese sotto la montagna e per un certo periodo nel vano di un forno abbandonato. I miei mi hanno raccontato diversi episodi di questa eccitante impresa. Mia sorella Luchetta si dedicava in particolare a rifornirli giornalmente di cibo e un  po’ anche ad intrattenerli, non ho mai capito come: di uno di essi ricordava il nome più o meno probabile di Charnesing. Una sera, in occasione di uno dei trasferimenti da un rifugio divenuto insicuro ad un altro, mia madre dovette guidarli attraversando il centro animato del paese e incontrando naturalmente dei militari tedeschi; i due indiani erano vestiti di poveri abiti vecchi rimediati fra la gente; mia madre se li portava dietro parlando animatamente con loro in dialetto come se li rimproverasse di qualcosa; tutto andò bene, ma con tanto batticuore.

Ho sentito tanti racconti della vita del paese di quel periodo, a conferma che la guerra è passata attraverso l’esistenza di ciascuno lasciandovi segni indelebili.

XIII.2)  La morte di mio cugino. Crisi dell’economia locale a Luco.

Ma la prima notizia che mi colpisce nei primi minuti dal mio ritorno a casa mi stronca ogni gioia. Non ritrovo mio cugino Francesco Proia, Checchino. Ho sempre pensato a lui quando facevo previsioni sulla ripresa della vita civile. Ricordavo le lunghe conversazioni fatte pochi giorni prima della mia partenza, quando a notte salutavamo tutti gli amici per rientrare a casa e poi invece restavamo in giro a confidarci le nostre speranze per una nuova Italia in cui la giustizia sociale e la libertà politica avessero trionfato sul totalitarismo fascista, le nostre considerazioni sulla cecità e la grossolanità dei piccoli notabili del paesello, sugli ideali di umanità assorbiti dai classici della letteratura russa di cui egli era un appassionato lettore. Checchino era stato ucciso il 9 giugno 1944, il giorno dal quale doveva avere inizio il cammino per la realizzazione dei suoi sogni. Era stato ucciso perché voleva opporsi alla violenza cieca giustificata dalla politica. Era stato ucciso coram populo mentre partiva una manifestazione festosa per la fine dell’occupazione tedesca, lui che era stato l’unico vero partigiano del paese impegnato attivamente per il collegamento con i militari inglesi presenti nelle nostre montagne. L’assurdo è che è stato fatto passare come vittima dei nazifascisti, secondo le narrazioni tramandate a stampa dai cultori delle memorie partigiane, nonostante il ricordo di un intero paese e la documentazione di un regolare processo giudiziario [1].

L’altro mio cugino, Guerrino, fratello maggiore di Checchino, è coinvolto nella tragedia perché, trovatosi davanti l’uccisore di suo fratello che imbraccia minacciosamente il mitra ancora fumante, spara a sua volta con la pistola uccidendo l’uccisore.

Questo tremendo episodio che chiude nel mio paese il ventennio fascista, con un ché di torbido che sento aleggiare tra coloro che si preparano a gestire la politica locale, mi fa sentire ancora più di prima un estraneo nell’ambiente del paese. Sicché io rimarrò a Luco il tempo necessario a ristabilire i rapporti familiari in una situazione che nel frattempo si è intristita. Qualche tempo dopo la mia sorella più fine e più nobile di animo, Eligia, già colpita da una forma di alienazione religiosa, viene ricoverata all’Ospedale psichiatrico dell’Aquila, dove passerà il resto della sua vita.

Mia madre resterà segnata profondamente da questa triste vicenda; intanto, viene colpita da una tubercolosi ossea che guarirà grazie all’arrivo dall’America di dosi di medicinali nuovissimi mandate da suo fratello Peppino che vive presso Chicago. Mio padre, che non ha più svolto alcuna attività, è tormentato dalla sua grave affezione bronchiale cronica. In casa coi miei genitori è rimasta soltanto la mia sorella più piccola Luchetta, la quale si sposerà presto con un bravo giovane del luogo Biagio Venditti. La sorella Maria, presso la quale ero stato ad Avezzano durante il liceo, è andata coraggiosamente a raggiungere con le sue bambine il marito all’Asmara.

L’economia del paese, che ha retto bene durante la guerra, è entrata in crisi dando luogo ad una forte ripresa dell’emigrazione, che ora è diretta non solo verso l’America settentrionale (U.S.A., Canada) e meridionale (Venezuela, Argentina), ma anche verso l’Europa (Svizzera, Francia, Belgio, Germania).

Le terre del Fucino diventano motivo di forti agitazioni sociali: se ne chiede l’esproprio dai Torlonia e l’assegnazione ai contadini. Le agitazioni danno luogo anche a scontri con le forze dell’ordine, durante uno dei quali rimarrà disgraziatamente ucciso, in circostanze non chiare, un figlio incolpevole di mia sorella Giulia, Francesco Jaboni diciassettenne, al suo rientro in paese dal quale si era allontanato proprio per evitare i torbidi.

Poco alla volta stanno rientrando in paese i vari reduci, ognuno col suo problema personale da risolvere. Molti sogni di gioventù sono miseramente svaniti.

Insomma, non vedo l’ora di riprendere la mia avventura romana, per completare gli studi universitari e intanto per cercare una sistemazione economica anche provvisoria.

Intanto, in una bella lettera alla famiglia Giorgini ho espresso la mia gratitudine e quella della mia famiglia per l’affetto che mi hanno dimostrato. Non so fare a meno di inviare un saluto particolarissimo a Gabriella “alla quale penso spesso”. Gabriella mi risponde immediatamente che anche lei mi pensa spesso. Mi racconta un po’ di fatterelli e poi mi chiede se ho intenzione di tornare presto a vederli. Dopo la mia risposta, ci troviamo di fatto fidanzati, per la gioia dei Giorgini e anche dei miei, ai quali naturalmente ho raccontato della bella ragazza di Senigallia.

 XIII.3-11)  ...

XIII.12)  Monarchia/Repubblica

Fervevano in Italia le discussioni sulla ricostruzione del Paese e il passaggio al regime democratico. Questione preliminare a tutte era la scelta della forma dello Stato, sembrando abbastanza pacifico che la Monarchia, rappresentata dal Luogotenente Umberto II dopo la fuga del Re, non aveva più il prestigio necessario per rimanere al vertice dello Stato. Le ipotesi erano quindi quelle di un referendum nazionale per sancire il passaggio alla Repubblica e dell’elezione di un’Assemblea costituente avente il compito di varare una nuova Costituzione.

Il clima politico era molto acceso a tutti i livelli, specialmente dopo che alcuni organismi del mondo cattolico avevano constatato che i partiti più convinti avversari della Monarchia erano quelli tradizionalmente più anticonfessionali, come i socialisti, i repubblicani e gli azionisti e in genere le Sinistre (nonostante Togliatti avesse momentaneamente salvato la Monarchia). Il Partito Democratico Cristiano esitava a pronunciarsi e manteneva una posizione equivoca. Nel Partito Liberale c’erano due anime; Croce poteva anche essere monarchico, ma certamente era antisabaudo. L’atteggiamento cattolico alimentò la discussione sino ai livelli più popolari e sino all’interno delle famiglie. Sicché la parte monarchica cominciò inaspettatamente a prendere quota sino a divenire competitiva.

Io abitavo uno stabile annesso all’Istituto Imperiali Borromeo avente finalità religiose. I locali dell’Istituto in via Liberiana erano stati concessi a un ordine di Suore che vi accoglievano orfanelle. La Superiora della casa era fanaticamente schierata per la Monarchia e faceva fuoco e fiamme in ogni occasione per additare i repubblicani come reprobi pericolosi per l’umanità. A me era invece simpatica una delle suore (Suor Agnese?), una milanese, che era dichiaratamente repubblicana, unica fra tutte quelle suore. Le discussioni erano accalorate, ma anche divertenti.

Il Capo del Governo, Alcide De Gasperi, democristiano, era favorevole a lasciare libertà di coscienza agli iscritti al suo partito, in netta maggioranza orientati verso la Monarchia, ma sembrava personalmente avere più simpatia per la Repubblica.

Si arrivò comunque alle votazioni, indette per il 2 giugno 1946, sia per il referendum Monarchia/Repubblica che per l’elezione dell’Assemblea Costituente. Erano le prime votazioni politiche cui ero chiamato nella mia vita.

Essendo stato solo da poco immesso in ruolo alla SIAE, non avevo ancora provveduto ad iscrivermi all’Anagrafe del Comune di Roma, sicché per le votazioni dovetti tornare a Luco, dove trovai l’ambiente ribollente per la divisione del paese in due parti. Quella monarchica, generalmente ma non sempre la più benestante e soprattutto la più osservante sul piano religioso, era capitanata dalla superiora delle Trinitarie Suor Margherita, nel riserbo del parroco don Nicola Ansini. Suor Margherita era sempre molto decisa nelle sue battaglie e aveva diffuso l’idea che la Repubblica sarebbe stata il trionfo dell’Anticristo, con quale effetto per i fedeli è facile immaginare. Commentavo con gli amici di Luco questa situazione meravigliandomi della presa che la parte monarchica sembrava aver avuto sulla popolazione.

Alla vigilia delle votazioni, dopo pranzo uscivo da casa per tornare in piazza a vivere le ultime ore dei fermenti elettorali, quando sentii la trombetta del banditore il quale stava dando un annuncio. Mi parve di capire che dicesse: “Oggi alle ore cinque nella sala della Società Operaia ci sarà un grande comizio: parlerà Nino Proia”. Avevo ovviamente capito male, ma nel dubbio seguii il banditore il quale, al crocicchio successivo, ripeté l’annuncio tal quale l’avevo già sentito. Gli chiesi allora, abbastanza risentito, chi gli avesse ordinato di dare quell’annuncio. E lui serenamente “Quelli del Comitato”. Erano i miei amici che, poiché io mi ero già rifiutato di impegnarmi a fare qualcosa, mi avevano incastrato così.

In un’ora circa dovetti trangugiare lo scherzo e prepararmi al peggio. La folla arrivò numerosa perché incuriosita dal fatto che un giovane di famiglia cattolica e nipote dell’ultimo Podestà facesse un comizio politico certamente non per la Monarchia.

Dal palco dove sedetti solitario senza nessuna presentazione non riuscii a guardare l’insieme della sala brulicante. In prima fila sedeva una donnetta anziana, mia vicina di casa. Feci tutto il discorso per lei e guardando solo lei. Non feci nessun elogio della Repubblica. Mi preoccupai soltanto di controbattere gli argomenti secondo i quali la Repubblica sarebbe stata necessariamente anticristiana. E naturalmente non fu difficile; mi bastò parlare della Repubblica francese, di quella austriaca, di quella irlandese.

A discorso terminato, finalmente alzai gli occhi sulla folla e rimasi sorpreso delle entusiastiche grida di approvazione. Nella folla vidi il vecchio Amadoro, venerando personaggio socialista di prima del ’22, che mi veniva incontro per abbracciarmi; ne avevo sempre sentito parlare con gran rispetto da mia madre; mi commossi davvero. E vidi spuntare, tutto eccitato, Mario Pomilio, responsabile del Partito d’Azione per la Marsica, che batteva in quei giorni tutto il territorio con grande impegno; veniva dai paesi della Vallelonga e mi pregò di andare con lui ad Avezzano a ripetere pari pari quello che avevo detto a Luco. Declinai decisamente l’invito, anche perché non avrei trovato ad Avezzano un’altra donnetta vicina di casa.

Le votazioni per il Referendum dettero a Luco l’80,7% alla Repubblica e il 19,3% alla Monarchia, di gran lunga la più forte sproporzione fra tutti i centri della Marsica. I voti per la Costituente andarono per il 68,5% alle Sinistre e per il 31,5% alla D.C.[2]. Luco ha poi pressoché sempre conservato questa predominanza della Sinistra, derivante anche da una tradizione di roccaforte dei socialisti. Ma ho l’impressione di aver contribuito anch’io a questi risultati.

Comunque, nei giorni successivi dovetti subire molti rimproveri di miei parenti che mi vedevano come un traditore, mentre mi sentivo salutare per la strada dalle donnette con espressioni semplici di ammirazione e di benedizione.


 

[1] Stupisce che proprio la letteratura locale riguardante quel periodo sia concorde nel riferire che Francesco Proia fu uno dei partigiani vittime della lotta al nazifascismo. P. PALLADINI – Cento giorni di catene, 1977 –  elenca il suo nome fra le “vittime dela impari lotta ai nazifascismi” (pag. 34): L. BRACCILI – Abruzzo fra cronaca e storia, 1989 – scrive che “... cadevano sotto il piombo tedesco ... a Luco dei Marsi Francesco Proia...” (pag. 119). D. ARETA e E. DI GIANFILIPPO – Stücke. Due marsicani nella resistenza, 1991 – raccontano che “il povero Francesco fu ucciso proprio il giorno della liberazione da un fascista ubriaco” (pag. 96) o che “un balordo fascista isolato lo aveva ucciso con un colpo di fucile” (pag.153). A. ROSINI – Otto mesi di ferro e di fuoco, 1994 – riporta il nome di Francesco in un elenco di “partigiani  marsicani caduti nella lotta armata contro i nazifascisti“ (pag. 138). Questi autori locali sapevano bene, o potevano facilmente accertare persino da documenti ufficiali come quelli di un processo penale, che mio cugino era stato freddamente ucciso coram populo con un mitra da un “partigiano” che era in testa al corteo; questi pretendeva si procedesse all’arresto di altri fascisti da punire, reagendo in questo modo alle dichiarazioni di Francesco il quale si opponeva ad altri arresti oltre quelli già effettuati.

[2] V. C.WHITE, Padrini e ideologie, Aleph, 1996, pag. 179. Questo libro contiene una approfondita analisi socio-politica comparata dei comuni vicini di Luco e Trasacco, condotta da una studiosa sudafricana di antropologia.

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