Capitolo XXXIV
La casa per la vecchiaia
(1991-1993)

XXXIV.1)  I lavori di ristrutturazione

L’edificio di via Roma 34 era stato costruito nel 1918 sulle rovine di un palazzetto distrutto dal terremoto della Marsica del 1915. Il proprietario, cav. Raffaele Alfidi, sindaco di Luco a fine ‘800,  possedeva tutta una fascia di edifici dalla via Roma al viale Duca degli Abruzzi, comprendenti (di seguito dall’alto in basso lungo un vicolo) due complessi abitativi contigui e intercomunicanti – uno utilizzato come abitazione della famiglia e l’altro per i servizi e la servitù – più un’ampia corte ed un grande magazzino di deposito di derrate agricole dalle mura possenti. Don Raffaele Alfidi era il  fiduciario della Amministrazione Torlonia per la gestione dei contratti di affitto dei terreni del 6Fucino ai coltivatori e per la riscossione dei relativi canoni in natura.

L’edificio aveva preso il posto di un “ospedale” esistente già nel ‘600, a fianco del quale nei primi anni del ‘700 era stata costruita una chiesa intestata alla Madonna delle Grazie. Andato in disuso e avocato dallo Stato dopo l’unità nel contesto dell’Asse Ecclesiastico, l’edificio era stato venduto dallo Stato a un privato (probabilmente un Alfidi) nel 1868.

La ricostruzione del 1918 dell’edificio abitativo su via Roma  aveva tenuto ampiamente conto delle prescrizioni antisismiche ed era stata sicuramente curata da un bravo architetto, con una intelligente concezione spaziale. Pochi ampi locali su due piani,  una larga scala centrale e un vano-scala di grande altezza caratterizzavano l’edificio, comprendente anche un sottoscala e una vasta cantina.

Sino agli anni ‘30 la casa era stata abitata dalla famiglia Alfidi; dopo venne presa in affitto dalla Amministrazione delle Poste per essere utilizzata  in una parte del pianterreno come Ufficio Postale e nel resto come abitazione della famiglia della titolare dell’Ufficio. Nell’immediato dopoguerra l’intero complesso edilizio degli Alfidi venne acquistato da un ricco agricoltore, Pasqualino Palma (detto La Rasciarella), il quale si trasferì nell’abitazione lasciata libera dalla titolare dell’Ufficio, mentre le Poste continuarono ad occupare i locali del pianterreno sino agli anni ’80. Rimasto vedovo, il vecchio Pasqualino divise gli immobili urbani e i terreni agricoli tra i suoi cinque figli e si ritirò a vivere in un piccolo appartamento: l’abitazione principale toccò al figlio Giovanni e venne data in locazione alla famigliola che ho già ricordata; i locali della Posta al figlio Mario. Da Giovanni e da Mario Palma ho acquistato il complesso del palazzotto, il quale dal 1918 aveva subito il normale invecchiamento e un certo degrado.

All’acquisto della casa ho dedicato buona parte della mia liquidazione dal servizio; ai ben più costosi lavori di ristrutturazione ho potuto far fronte coi compensi della mia successiva attività di consulente della SIAE.

La decisione di acquistarla è stata decisamente influenzata da alcune caratteristiche che sono state da noi considerate come pregi della casa. Essa si trova nel centro storico, a breve distanza dalla piazza centrale del paese; questo significa che a piedi possiamo raggiungere facilmente e in breve tempo una larga parte del paese. Per la sua posizione centrale essa è contornata dalle case dei vicini, i quali in caso di notra assenza ne esercitano istintivamente la sorveglianza e possono prendere in consegna pacchi e altre merci che ci vengano recapitate. La casa non ha intorno giardini propri, che costituirebbero una pesante servitù limitativa della nostra libertà di movimento. Per questi motivi non avremmo mai acquistato una villa o un villino come se ne trovano molti all’esterno del paese e che a prima vista esercitano una indubbia attrazione.

Francesco – potendo contare sulle indubbie capacità di Cesidio Venturini – progettò una ristrutturazione di fondo, che prevedeva innanzitutto la gettata di un solaio nel vano-scala  eccessivamente ed inutilmente alto, per ricavare un vano praticabile al livello del terzo piano (una specie di torretta), con veduta panoramica sulla conca del Fucino. Vennero spostati cucina e bagno, venne aperta una scala in parte a chiocciola  per salire al nuovo locale del terzo piano; venne ricavata una comoda camera per gli ospiti con annesso piccolo bagno-doccia; la ampia cucina spostata sul davanti della casa venne dotata di un bel caminetto angolare. Al pian terreno rimase isolato e con portoncino indipendente il locale della ex Posta, dotato di una piccola toilet; una comoda stanza posteriore venne annessa all’abitazione e dotata di un bagno-doccia, in modo da poter servire eventualmente come indipendente appartamentino per ospiti: in effetti, è stata attrezzata come studio e biblioteca, con una lunga parete a libreria, divenendo il mio comodissimo rifugio. Un altro locale a pianterreno con finestra a inferriata sulla strada, aperto sull’atrio, è lo studio di Maria Rosa. Tutta la casa ebbe una nuova pavimentazione anche a disegni geometrici, salvo il solo salotto rimasto con le vecchie mattonelle e salvo la scala che ha conservato i gradini di marmo bianco originari. La vasta cantina con interessanti anfratti ha avuto un nuovo pavimento in ciottoloni e una scaletta in ferro per discendervi. Il tetto, rifatto completamente salvo le solide capriate in legno, è stato arricchito da uno strato di apposito materiale isolante. Naturalmente, sono stati radicalmente rinnovati gli impianti elettrici ed idraulici e il sistema di riscaldamento. Ed è stato impiantato un completo comodo arredo da cucina in legno marrone.

I lavori sono stati oggetto di regolare licenza edilizia a me rilasciata  dal Comune di Luco dei Marsi (vedi autorizz. n. 80 del 21-12-1991).

La casa non ha niente di lussuoso, ma è assai ben disegnata e si fa notare da tutti per il suo originale e razionale decoro. L’esterno ha avuto un semplice ma sostanziale restauro nel suo aspetto da anni ’20, con l’intonacatura giallina contornata da modanature in bianco. Questo restauro si è imposto all’attenzione e alla riflessione della gente e ha finito per influenzare in qualche modo altre opere di recupero edilizio in paese.

XXXIV.2)  Il trasloco

Il giorno del trasloco, 23 dicembre 1992, fu una giornata davvero campale. Dovemmo fare due operazioni di trasloco; una prima, da Roma a Luco, la più importante, preparata con molta cura e con molta fatica da Maria Rosa che aveva studiato attentamente la distribuzione del materiale in scatoloni di diverso colore a seconda della diversa loro destinazione; una seconda operazione contestuale servì a portare a via Roma il materiale e una parte dei mobili che si trovavano nella casetta di via Marruvio, che nel frattempo avevo venduto  alla figliola del mio sarto di gioventù Gaetano Di Donato. Nelle settimane successive riuscimmo a farci consegnare a Luco due mobili, una cristalliera e un buffet, che avevamo acquistato tempo prima a Roma in via del Governo Vecchio e un armadione e uno scrittoio acquistati un anno prima ad Orvieto. Nel frattempo, il falegname di Luco Mario Crescenzi aveva puntualmete costruito e montato la grande libreria del mio studio, oltre a diverse altre attrezzature.

Per stabilirci nella nuova casa, dovemmo tenere accesa la caldaia del riscaldamento per due giorni di seguito; alla fine la casa divenne davvero abitabile.

Col trasloco, avevamo naturalmente portato con noi anche la gattina siamese che negli ultimi anni ci faceva compagnia, talvolta con le bizze, tra Roma e Luco: la piccola Minù. Nella confusione di quel giorno non potemmo dedicare a lei una particolare attenzione. La porta sempre aperta, il via-vai degli scaricatori, i mucchi disordinati di scatoloni in continuo spostamento e soprattutto il fatto di trovarsi in una casa sconosciuta disorientarono completamente la gattina. Quando potemmo finalmente chiudere il portone e cercarla, essa non si trovò, nonostante le più accurate ricerche e i tanti appelli dentro casa e nei dintorni. L’abbiamo cercata sia per farla mangiare che per darle rifugio dal freddo intenso che ormai regnava in paese a fine dicembre. Non ci fu verso: pensammo che avesse trovato un comodo rifugio in qualche cantina dei dintorni entrandovi dalla apposita “gattaiola”; anche i vicini avevano collaborato alla ricerca ed erano pronti ad avvertirci ove la avessero avvistata. Era passata più di una settimana quando un simpatico ragazzo del vicinato venne a dirci trionfante che l’aveva vista in un  vicolo vicino, accucciata contro un gradino, tutta tremante: Maria Rosa accorsa a raccoglierla la tenne sul petto per oltre un’ora mentre la gattina continuava a vibrare per freddo e fame, ridotta a un piccolo cencio. Ci vollero una decina di giorni perché si riprendesse passabilmente. Da allora, il suo caratterino divenne un poco più bizzoso, ancora per un paio d’anni prima di un grave tumore che la portò alla tomba (nella quale venne piamente inumata da Cesidio Venturini).

Il giorno 24 dicembre [1992] è la prima giornata della nostra nuova residenza luchese, ma ci manca una cosa essenziale: il collegamento telefonico col resto del mondo. Avevo fatto tempestivamente domanda di trasferire la mia linea dalla casetta di via Marruvio a casa nuova, ma non si era potuto provvedere sino allora. Si trattava di cosa di estrema necessità per i contatti con i nostri figli a Roma. Provai in prima mattina a recarmi presso l’ufficio tecnico della Compagnia telefonica che si trovava sulla strada tra Luco e Avezzano. Trovai il capo dei tecnici il quale mi disse che i piani operativi di quella giornata, da chiudere alle ore 12, erano stati già distribuiti ai diversi addetti che stavano ormai in giro per i vari paesi; che ritornassi quindi dopo il Natale. Non mi diedi a suppliche disperate, ma il mio interlocutore si rese conto di quanto fosse importante per me l’intervento richiesto;  mi fece attendere un pezzo, finché mi disse di tornare a casa perché forse sarebbe potuto arrivare prima o poi qualcuno a provvedere. Tornai di corsa a casa per dare la buona novella a Maria Rosa e trovai il tecnico che stava già provvedendo e che terminò il tutto in pochi minuti.

Il giorno 7 gennaio [1993] mi reco alla sede del Comune per provvedere ad alcuni adempimenti amministrativi. Debbo denunciare la variazione della mia residenza da Roma a Luco; debbo effettuare il versamento per l’acquisto del loculo cimiteriale  dove è stata collocata la salma di mia sorella Eligia; debbo fare le variazioni di indirizzo da via Marruvio a via Roma delle mie utenze comunali di acqua e gas. Dopo una quindicina di minuti avevo sistemato tutto ed ero stato accolto simpaticamente nella mia comunità d’origine  con la consegna di un piccolo gagliardetto recante lo stemma del Comune. Mi ritrovai sulla strada ancora incredulo del così rapido e semplice espletamento di tutte le formalità.

XXXIV.3)  Il ritorno in patria

Il trasferimento della residenza a Luco dopo oltre mezzo secolo dal mio abbandono del paese natio è una specie di ritorno del figliol prodigo, è la chiusura di una lunga parentesi della mia vita, è il ritorno alla sorgente. E finalmente, ora che non debbo più tornare al lavoro al termine di ogni week-end, posso riallacciare le mie giornate a quelle della mia prima giovinezza. Per prima cosa, debbo riconoscere l’ambiente.

Al mattino di una bella giornata invernale saluto Maria Rosa e mi metto in cammino verso il Convento dei Cappuccini, pian piano, osservando con attenzione ogni vicolo che mi sfila di lato per evocare nella memoria i fiochi ricordi di persone e di famiglie che riesco a localizzare qua e là. Mi produce una certa emozione riconoscere angoli  che mi pareva di aver cancellato del tutto dalla mia mente. La memoria stenta non poco a far affiorare volti, nomi e anche qualche episodio della mia fanciullezza. Passo davanti alla casa ove si trovava la Posta nei miei primi anni: al piano di sopra abitava la famiglia Pozzi che gestiva quell’ufficio; le sorelle Pozzi erano molto amiche delle mie sorelle, le quali una sera mi avevano portato con loro – avevo tre o quattro anni – in casa Pozzi per una qualche festicciola; a un’ora tarda  mi aveva preso il sonno e fui messo a letto in una camera accanto; svegliatomi al buio in un ambiente sconosciuto, ebbi il coraggio di chiamare piangendo solo dopo di aver bagnato abbondantemente il letto. Qualche vicolo più in là, mi viene in mente un corteo patriottico che, in un giorno di festa nazionale, passava qui per il corso e fu scompigliato da una lotta furibonda scoppiata tra Buricchio, il cane che accompagnava mio zio Giovannino nelle sue viste notturne ai margini del paese, e un cagnone da pastore di un pecoraio che abitava nei pressi. All’uscita dal paese, sulla piazzetta di S.Antonio, non trovo più il bel villino in legno affacciato dal lato alto e che era destinato ad abitazione  del segretario comunale: è stato abbattuto per far posto a una pretenziosa villetta moderna. La stradina che sale lentamente verso il convento era fiancheggiata da vigne e altre colture orticole dietro muriccioli  e  cancelletti di legno: ora è una strada asfaltata fiancheggiata da casoni per oltre metà percorso. Invece di salire al convento, prendo una antica stradina pedemontana che si inoltra, fra campi non più coltivati, sino dietro al recinto del villino Ciocci e, poco oltre, dietro la zona ove si trovava la vigna di mio padre; forse è la prima volta che passo per questa stradina sotto il monte, ma riconosco perfettamente l’ambiente, le querce, i noci, i mandorli, i ciliegi, sullo sfondo i castagni, qualche rudere di casali di pastori, ma soprattutto il terreno che calpesto, un terreno sodo, costituito da una massicciata sassosa pressata dai secoli e legata negli interstizi dall’intreccio di un’erba robusta che pareggia e addolcisce l’asperità delle pietre; mi fermo a guardare il terreno, le erbe ormai secche che fiancheggiano la stradina e che riconosco pur non sapendone il nome, in un silenzio assoluto ai piedi del monte selvoso, in una contrada frequentata tanto volentieri da bambino appresso a mio padre o a mia madre; e mi sale dal cuore emozionato un pianto lungo come se stessi riabbracciando  un caro fratello non più visto per tanti anni. Al rientro, per la via dei Pozzi, sono di continuo affascinato  dalle maestose altissime querce, dal tronco possente, dalla massa amplissima di rami frondosi, che incontro a ogni passo e che mi dicono di avermi atteso da cinquanta anni e che sono lì pronte ad attendere anche i miei figli e nipoti. Conoscevo bene solo una parte  delle piccole proprietà fondiarie della mia famiglia (tutte alienate tanti anni fa), tanto da ritrovarle o da individuare la loro  ubicazione; ma della loro maggior parte non saprei più trovare traccia, dati i cambiamenti che sono intervenuti nell’ambiente fisico in cui esse si trovavano: intere contrade si sono trasformate in terreni incolti, gradatamente occupati da chalets, talvolta pretenziosi, oppure da nuovi vigneti, orticelli, piantagioni di noci o alberelli da frutto, mentre le colture intensive e redditizie sono tutte nella piana del Fucino.

La riconquista dell’ambiente dei campi, che farò con frequenti passeggiate e con la raccolta dei doni della natura (noci e mandorle cadute dagli alberi e lasciate lì dai proprietari, tamigni a primavera, fragoline di bosco, rari lamponi, nocciole selvatiche, more, corniole, visciole, ma anche rughetta e borràggine), mi risveglia il ricordo della antica economia rurale delle famiglie, come la mia, le quali si rivolgevano al commercio solo per quei prodotti (peperoni, pomodori, frutta) che i coltivatori dei paesi vicini con climi meno rigidi – la Valle Roveto, la Ciociaria, la Campania – portavano a vendere a Luco con camioncini pubblicizzati da vivaci e melodiosi annunci.

XXXIV.4)  Il paese nuovo

Naturalmente, anche l’abitato di Luco, come quello della generalità dei centri circostanti, si è enormemente esteso negli ultimi venti anni. La popolazione è rimasta pressoché invariata dai tempi della mia fanciullezza, ma è molto cresciuto il numero delle famiglie e il loro livello economico. Laddove, in passato, le convivenze familiari potevano avere una media di sette-otto componenti, oggi la famiglia media è composta di quattro persone e rari sono i casi di convivenza di nonni o zii con le famigliole di nuova formazione. Le vecchie abitazioni erano raramente fornite dei servizi anche essenziali, mentre le nuove, ben più ampie, abbondano di accessori e, di solito, anche di magazzini e rimesse al piano terreno.

Ciò ha comportato lo sviluppo di un intero quartiere ai limiti della piana fucense, il quale si spinge e si allarga sempre più verso il sud in direzione di Trasacco. Questo quartiere resterà a lungo per me un ambiente estraneo, che non attira neanche la mia curiosità, finché non vengo casualmente a visitare singole abitazioni di conoscenti.

Ma la crescita più evidente e impressionante per me è quella del settore commerciale e dei servizi. Mi viene da ridere quando vedo nel mio paese molte decine di negozi di ogni genere, a cominciare da un intero edificio costruito appositamente per collezioni di abiti nuziali e relativi accessôri, quando annovero una decina tra grossi ristoranti e trattorie e oltre trenta bar. Resto stupefatto nel sentire il racconto della recentissima avventura della squadra di calcio locale, la “Angizia”, che per tre anni ha militato nel campionato nazionale di serie C2, finendo per comparire anche nella schedina del Totocalcio: il nostro è stato il più piccolo comune d’Italia ad essere presente con una squadra di professionisti. Resto ammirato nel vedere autotreni con targhe della Finlandia o della Danimarca arrivare qui a Luco a caricare ortaggi dai magazzini dei nostri agricoltori.

Mi ritrovo in un paese di gente attiva come quella di una volta, ma che una volta doveva emigrare oltre oceano per poter esplicare la propria capacità di lavoro e di iniziativa.

Questo panorama di un paese vivo  impressiona e incanta soprattutto mia moglie, che in breve tempo diviene una fanatica tifosa di Luco e, per esempio, vorrà partecipare di persona ai lavori di preparazione dei dolci da offrire per la festa dello Spirito Santo, lavori che durano giorni e giorni e che  lei vive come una liturgia sentendosi spiegare le antiche regole di questa tradizione religiosa così originale.

XXXIV.5)  I figli

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