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Esiste una filosofia araba?,

«Memorie domenicane» 6 (1975) 380-397.

sommario
 

G.-C. Anawati, Études de philosophie musulmane (1974)

I

I saggi del volume

- Filosofia in terra d’islâm

- Filosofia ellenistica in islâm (... caso Liber de causis)

- La filosofia tra i mutakalliműn

II

Il problema storiografico della “filosofia araba”

- terminologia

- fonti | categorie | luoghi

- pionieri | araba | falsafa

- musulmana | islamica

- conclusione

III

 Filosofia in terra d’islâm: orientamenti storiografici

H. Sérouya | O. Amin | Montgomery Watt | AA.VV. | R. Walzer | R. Arnaldez | N. Rescher | E. Peters | S. Pines | M. Fakhry | M. Mahdi | H. Corbin | A. Badawi

area indo-pakistana: M. Sharif | Saeed Sheikh | AA. VV. | H. Nasr | B.S. Siddiqi | D.M. Azraf | M. Saeed Sheikh | L. Gardet

 ë

Georges C. Anawati [domenicano egiziano d’antica famiglia cristiano-siriana; “Qanawatě” all’origine, mi confidň; deceduto in genn. 1994] raccoglie in volume saggi di filosofia musulmana sparsi nel corso d’un quarto di secolo in riviste, miscellanee, atti di congressi, conferenze: Études de philosophie musulmane, Paris (Vrin) 1974, pp. 432. Dovrebb’essere, auspica Louis Gardet nella prefazione, «le prélude... ŕ un ouvrage de fond, depuís fort longtemps annoncé» (p. 10). Esattamente dal 1948! Ricordiamo che i due illustri islamologi collaborano da molti anni a un grandioso progetto di teologia comparata (islâm-cristianesimo) il cui rigore scientifico da una parte scampa lo scoglio del concordismo corrivo, dall’altra getta le basi per una conoscenza reciproca delle due tradizioni religioso-culturalí. L’ispirazione di fondo č che il dialogo, appena iniziato in terra d’Europa nei secoli XII e XIII, e drasticamente interrotto per l’irrigidimento politico-milítare dei due blocchi, debba esser ripreso sulla base della conoscenza storica delle due tradizioni: un reciproco interpellarsi animato dal rigore del dato oggettivo cosě come dalla simpatia per l’alteritŕ culturale; vigile, soprattutto, a illustrare le occasioni d’incontro disseminate nella storia, distorte talora dal groviglio delle fonti, fallite talaltra dalla tentazione della sopraffazione. Dalla collaborazione Anawati-Gardet abbiamo giŕ, oltre a Mistica islamica. Aspetti e tendenze, esperienze e tecniche (Torino 1960, che precede ed. francese Paris 1961), l’opera ormai classica Introduction ŕ la théologie musulmane (Paris 1948; 2a ed. 1970; trad. araba, 2 voll., Beirut 1967-69). Il piano dell’opera prevedeva inoltre un dittico su Les grands problčmes de la théologie musulmane. L. Gardet ha assolto il suo compito con Dieu et la Destinée de l’homme, París 1967, pp. 528 (problemi di etica fondamentale, rivelazione, pofetismo imâm in islâm; ma bisogna ricordare, del medesimo autore, anche La cité musulmane. Vie sociale et politique, Paris 1961, pp. 416); ad Anawati era riservato il secondo pannello del dittico, Dieu: son existence, ses attributs, ses plus bons noms. Con garbo Gardet ricorda all’amico che «ce grand oeuvre de Pčre Anawati est attendu, et non sans impatience» (10).

I - I saggi del presente volume 

Dell’opera progettata, il volume Études de philosophie musulmane saggia le piste di ricerca, stabilisce i punti interpretativi, anticipa infine i primi frutti. L’opera č divisa in tre parti.

Parte I: Filosofia in terra d’islâm. Vi si affronta il problema della definizione delle categorie storiche e ínterpretative, l’ambito geografico e culturale della cosiddetta “filosofia araba” (vedi sotto). Vi sono dedicati due articoli, apparsi per la prima volta rispettivamente nel 1959 e 1967 (17-89).

Parte II: Filosofia ellenistica in islâm. Vi confluiscono temi e ricerche convergenti sulla falsafa (leggi tutte vocali brevi, leggera accentazione ossitona), la corrente di pensiero in cultura islamica ispirata alla filosofia ellenistica e d’espressione araba. In particolare:

1. La filosofia della natura presso i pensatori musulmani del medioevo (1964), pp. 92-115. Sullo sfondo della visione coranica dell’uomo e dell’universo si rintraccia la concezione della “natura” presso la corrente teologica tradizionalista (ash‘arismo), come espressa nell’atomismo di al-Bâqillâni († 1013) e nella conseguente negazione del principio di causalitŕ (in forma d’occasionalismo), divenuta sentenza comune presso l’ash‘arismo tardivo, al-Sanűsî (1490), al-Laqâni († 1631), al-Bâjűrî († 1861); la filosofia della natura presso i falâsifa (= philosophoi, plurale di faylasűf) delle correnti platonica e peripatetica; presso Ibn Masarra di Cordova († 931), il medico-filosofo al-Râzî († 930 ca.; il Rhazes dei latini); presso gli scrittori mistici Suhrawardî († 1191), Ibn ‘Arabî († 1240) (cf. S. Hossein Nasr, An Introduction to Islamic cosmological Doctrines, Harvard U.P. 1964: studio della filosofia della natura in Ikhwân al-Safâ, al-Bîrűnî, Ibn Sînâ).

2. Tre saggi (due del 1956, l’ultimo inedito) - i piů tecnicamente elaborati - espongono le vicende letterarie e le ricerche storiche sulle fonti neoplatoniche ospitate dai pensatori dell’islâm medievale e trasmesse, spesso sotto falsa paternitŕ, all’Europa latina (117-227). Ricerche importantissime per seguire il processo d’assimilazione, spesso di trasformazione, delle fonti neoplatoniche (in atto fin dalle stesse traduzíoni); della loro diffusione (spesso resa possibile tramite falsa attribuzione) tra le alterne lotte dottrinali della politica religiosa dei califfi di Baghdâd. Lavoro decisivo per stabilire continuitŕ e rotture, coincidenze e novitŕ nel cuore delle lotte dottrinali pro o contro la philosophia in occidente cristiano, pro e contro la falsafa in terra d’islâm. Non di rado risulta che medesimi testi anonimi o apocrifi, circolando nel sottosuolo delle due civilizzazioni, producono episodi dottrinali dalle sorprendenti analogie.

Per esempio, una medesima preoccupazione teologica anima e al-Ghazâlî contro i falâsifa (Fârâbi e Avicenna) e Tommaso d’Aquino contro gli averroisti quando nel secondo soggiorno parigino (1269-72) si registra un netto calo di simpatia per Avícenna (A. Judy, Avicennas «Metaphysics» in the Summa contra Gentiles, «Angelicum» 52 (1975) 340-84, specialmente pp. 376 ss.).

Avicenna (Ibn Sînâ, † 1037), Opera philosophica, ed. Venezia 1508, reimpressione Louvain 1961 (Bibl. SMN - Campo 61.85).

Riassumiamo le conclusioni piů importanti rimandando al volume in questione per la relativa abbondantissima documentazione:

a) Risâla fî l-‘ilm al-ilâhî [trattato della scienza divina] e Theologia Aristotelis. La Risâla, scoperta da P. Kraus nel 1941 e tramandata sotto il nome di al-Fârâbî († 950), č di fatto un estratto parafrastico dell’Enneade V di Plotino. Se ne pubblica qui il testo arabo (182-201) con traduzione francese (incompiuta) di Kraus (204-221). La Risâla tradisce affinitŕ di stile e di terminologia araba con la Theologia Aristotelis, testo neoplatonico del IX secolo, tradotto in occidente solo nel XVI sec., ma diffusissimo tra i pensatori arabi. La Theologia č una parafrasi delle Enneadi IV e V di Plotino. Ispirazione e tendenze di teologia cristiana presiedono la redazione araba delle due parafrasi, dove nozioni e termini emanazionistici sono tradotti in chiave di dommatica teistico-creazionistica.

b) Corpus arabo trasmesso sotto la paternitŕ di al-shaykh al-yűnânî [il maestro greco]. Vi si riscontrano concorrenze letterarie con la Theologia Aristotelis. Chi si cela sotto il nome di al-shaykh? Porfirio, Plotino?

c) Kitâb al-khayr al-mahd [libro del bene puro]: Liber de causis o Liber Aristotelis de expositione bonitatís purae. Composto in arabo nel IX secolo, poco usato dalle fonti arabe, diffusissimo invece tra gli scrittori del medioevo latino. Č in realtŕ - come l’aveva riconosciuto Tommaso d’Aquino - un estratto della Stoichčiosis theologiké (Elementatio theologica) di Proclo. Il compilatore-traduttore trasmette le fonti neoplatoniche in ottica di creazionismo teistico. Ancora aperte le questioni: la dipendenza del De causis dall’Elementatio č diretta o ha un intermediario (greco, sěriaco)? Luogo dell’elaborazione: Toledo o Baghdâd? Autore: l’ebreo Ibn Dâwűd (Avendauth), per cui testimonia Alberto Magno, o un arabo orientale (musulmano o cristiano)?

Elementatio theologica, ed. C. Vansteenkiste, «Tijdschrift voor Filosofie» 13 (1951) 263-302, 491-531; 14 (1952) 504-46. Liber de causis, ed. A. Pattin, «Tijdschrift voor Filosofie» 28 (1966) 134-203.

Remigio dei Girolami da Firenze OP († 1319 ), Extractio ordinata per alphabetum, BNF, Conv. soppr. G 3.465, f. 20ra: «Item Alpharabius in libro De causis propositione 25: "Omnis substantia stans per essentiam suam est non cadens sub corruptione"» ( cf. ed. Pattin, «Tijdschrift voor Filosofie» 1966, 188); f. 25vb, ogni uomo ha il suo intelletto e anima: «..et quantum ad philosophos arabes, scilicet Avicennam in libro De anima, et Algaçelem in sua Methaphisica, et Alpharabium in libro De causis». Uniche volte (nel mio censimento) che Remigio rimette il De causis sotto il nome del filosofo arabo al-Fârâbî († 950); moltissime altre citazioni del De causis, ma sotto autore anonimo.

D. Carron Faivre, Guillaume de Leus, commentateur du Liber "de causis", «Bulletin de philosophie médiévale» 54 (2012) 297-331.

d) Un trattato di Proclo (diciotto argomenti a sostegno dell’eternitŕ del mondo), pervenutoci solo nella confutazione fattane da Giovanni Filopono, puň essere reintegrato del primo argomento mancante nel testo greco tramite la versione araba di Ishâq ibn Hunayn († 910) ritrovata e pubblicata da A. Badawi (Cairo, 1955). Gli argomenti di Proclo sono noti sia ai falâsifa (filosofi ellenizzanti) che ai mutakalliműn (teologi-apologeti dell’islâm, plurale di mutakallim) tramite il De aeternitate mundi contra Proclum di Yahyâ al-Nahwî (= Giovanni il Grammatico), per l’appunto il Filopono. Anawati dŕ la traduzione francese dell’argomento mancante (225-27). Vi si scorge la medesima preoccupazione dottrinale di reinterpretare in chiave creazionistica. Demiurgo č tradotto in chiare nozioni teistico-coranche: al-bârî, al-khâliq (creatore; cf. Corano 59,24); addirittura con Allâh cui fa seguito la tradizionale dossologia islamica ta‘âla, «che egli sia esaltato». Ai moűsai greco diventa wahî, ispirazione scritturale o rivelazione profetica; theňi diventa malâ’ka, angeli.

3. Avicenniana (229-324). Comprende: saggio di bibliografia avicenniana (1951), cronaca avicenniana (1960), esoterismo avicenniano sulla dottrina della resurrezione dei corpi (1951), gnosi e filosofia a proposito di due interpretazioni (Goichon, Corbin) del celebre racconto filosofico Hayy ibn Yaqzân (Vivente figlio di Vigilante), ripreso poi da Ibn Tufayl (vedi ora in italiano Ibn Tufayl, Epistola, a c. di P. Carusi, Milano 1983).

Parte III: La filosofia tra i mutakalliműn ossia cultori della ‘ilm al-kalâm, teologia musulmana, o piů esattamente “teologia apologetica” in islâm.

l. Presentazione della somma inedita Mughni (scoperta nel 1957) del teologo mu‘tazilita ‘Abd al-Jabbâr († 1025) (1952, pp. 327-62). Cf. anche «Mélanges de l’Institut Dominicain d’Études orientales du Caire» 5 (1958) 417-24.

2. Un trattato «de divinis nominibus» (fî ’l-asmâ wa ’l-sifât: «sui nomi e attributi») del teologo ed esegeta Fakhr al-Dîn al-Râzî († 1209) (1965, pp. 363-79). Lista dei «99 nomi» di Dio (374-79).

3. Il «nome supremo di Dio» (ism Allâh al-a‘zam) secondo le opinioni dei teologi, secondo la speculazione delle lettere sacre, secondo la pietŕ popolare, secondo la magia e i «quadrati magici» (1967, pp. 381-410).

Il volume chiude con un’appendice bibliografica sullo studio della magia nell’islâm, in particolare degl’incantesimi, amuleti, talismani e quadrati magici (411-32).

II - Il problema storiografico della “filosofia araba”

Torniamo a Parte I. Si suppone che essa interessi piů direttamente anche chi, quantunque non islamologo, si dedichi allo studio del pensiero occidentale, specie del medioevo latino. Apparirŕ evidente la necessitŕ di ridurre la tradizionale netta separazione tra “occidentalismo” e “orientalísmo” ai fini d’una ermeneutica integrale di testi letterari e vicende dottrinali incrociatesi nel medioevo cristiano e islamico.

Si farŕ una breve ricostruzione del problema dibattuto in Parte I di Études de philosophie musulmane. Genere compositivo, esempi illustrativi, annotazioni integrative non ricalcheranno punto per punto il testo dell’Anawati, che scrive per arabizzanti.

Al congresso di filosofia medievale di Lovanio (agosto-settembre 1958) fu costituita una commissione che studiasse i problemi specifici posti dall’edizione di testi arabi della filosofia medievale. Fu solo l’occasione. La circolare redatta da p. Anawati, e spedita a una cinquantina di nomi illustri della filosofia medievale e studi islamici, conteneva tra l’altro delle domande preliminari. Esse sollevavano le seguenti questioni:

a) Terminologia: filosofia araba o filosofia musulmana?

b) In base a quali criteri delimitare l’ambito (geografico, linguistico-nazionale, culturale) di detta filosofia?

c) Che cosa intendere per “filosofia” in civilizzazione arabo-musulmana? o - se si vuole – “dove” rintracciare il pensiero filosofico tra le peculiari forme culturali e storiche in cui l’islâm esprime di fatto la propria animazione?

Un falso litigioso?

Il classico E. Gilson, La philosophie au moyen âge (ed. 1947, 346-47; ed. it. Firenze 1978, 415 ss), per esempio, non ritiene neppur necessario definire il termine, e passa direttamente a trattare della Philosophie arabe nella prima sezione del capitolo dedicato alle Philosophies orientales. Usa indifferentemente gli aggettivi “arabo” e “musulmano”. Gli capita cosě d’introdurre al-Kindî come «il nome piů celebre della filosofia musulmana» e al-Fârâbi come «il secondo grande nome della filosofia araba». Caso vuole che al-Kindî sia arabo (anzi l’unico, tra i “filosofi” ad essere arabo) e al-Fârâbi turco, e per di piů shi‘ita. Ambedue, in ogni modo, scrivono in lingua araba. 

Nulla cambia nella edizione italiana, Firenze (La Nuova Italia) 1978 (1a ed. 1973), bibliograficamente aggiornata dai curatori italiani.

Bisogna dire che dalla designazione in uso presso gli autori del medioevo latino (Arabes, apud Arabes) i medievisti moderni hanno tratto la categoria storiografica “filosofi arabi”. Consacrata, del resto, da una rispettabile tradizione che include nomi di storici quali A. Schmölders (1842; «Scuole filosofiche presso gli Arabi» designa evidentemente i musulmani, visto che vi son trattati anche i mu‘taziliti e le scuole teologiche musulmane), S. Munk (1859), M. De Wulf (1924‑25), E. Gilson (1922), E. Bréhier (1928). Mélanges de philosophie juive et arabe (Paris 1859) di Munk fissň anzi il canone, per cosě dire, dei “filosofi arabi” che ha ispirato in seguito gli storíografi della filosofia medievale. In oriente (sec. IX-XI): al-Kindî, al-Fârâbi, Ibn Sînâ (Avicenna), al-Ghazâlî (Algazel); in occidente (sec. XI-XIII): Ibn Bâjja (Avempace), Ibn Tufayl (Abubacer), Ibn Rushd (Averroč).

Ma giŕ E. Bréhier, La philosophie du moyen âge (1937), trad. it. 1952: «Il pensiero filosofico non č quindi limitato a coloro che vengono detti falâsifa, cioč a coloro che si ispirano ad Aristotele» (p. 97). Mentre g. quadri, La philosophie arabe dans l’Europe médiévale, Paris 1947 (orig. it. Firenze 1937) «tends to regard earlier Islamic philosophy as a preparation for Averroes, and thus sees the whole development from an unsatisfactory perspective» (Montgomery Watt, Islamic Philosopby and Theology, Edinburgh 1962, XXI). C. Vasoli, La filosofia medievale, Firenze (1961) 1967, Parte III (Le filosofie orientali), c. 1: La filosofia dei Musulmani; c. 2, La filosofia ebraica. La serie Kindî-Fârâbi-Avicenna-Averroč (pp. 203-23) č introdotta come «filosofia araba», «quasi totalmente opera di scrittori non ecclesiastici» (p. 203) in opposizione all’ash‘arismo, «una delle maggiori sčtte islamíche » (ib.) [s.n.]. Biblíografia aggiornata, pp. 556-68; ma nella redazione del testo l’A. ricalca troppo da presso Gilson (La filosofia nel medioevo, ed. ital. 1932, Parte I, c. 4, pp. 99-119).

Si tratta dunque d’una “filosofia araba” vista in funzione integrativa al pensiero latino occidentale, a questo subalterna e geneticamente ed ermeneuticamente. Una filosofia araba, in definitiva,

faisant face a la pensée philosophique médiévale de l’Occident et envisagée surtout dans la perspective de celle-ci (Anawati 73). 

Si potrebbe argomentare, a favore della tradizione, che costoro sono di fatto i filosofi arabi conosciuti dalle fonti latine, a loro si sono ispirate, con loro confrontate. Perché negarne l’autonomia storico-culturale espressa dalla denominazione classica “filosofia araba”?

In risposta, gli studi islamici dell’ultimo secolo contestano la legittimitŕ ermeneutica di fissare termini propositi contenuti della “filosofia araba” qualora questa sia estrapolata in toto dal resto della civilizzazione islamica entro cui trova propri humus e logica. La cosa puň essere illustrata su tre ordini di critica storíca: le fonti, le categorie, i “luoghi”.

Le fonti, ora religiose ora della filosofia greca, che hanno dato avvio alla falsafa (filosofia d’ispirazione greca in terra d’islâm) si sono inestricabilmente intrecciate fin dal primo sorgere della speculazione islamica; in seguito, in occasione dell’ondata di traduzione dal greco (o siriaco) in arabo (si ricordi la Dâr al-Hikma a Baghdâd, sec. IX) si sono commiste in un corpus di aristotelismo, neoplatonísmo e istanze coraníco-islamiche annodatosi intorno ai ben noti testi apocrifi. Questi hanno condizionato, nelle due civilizzazioni a matrice confessionale-religiosa, corso tematiche e formulazíoni sia della filosofia in terra d’islâm che del pensiero in occidente cristiano (Opere di prima consultazione: A. Badawi, La Transmission de la Philosophie grecque en arabe, Paris (Vrin) 1968. R. Walzer, Greek into Arabic, Oxford 1962). Decisiva la lezione di Norman Daniel (Islam and the West. The Making of an Image, Edinburgh 1960; ed. francese aggiornata Islam et Occident, Paris (Cerf) 1993; Arabs and Mediaeval Europe, London 1975; tr. it., Gli Arabi e l’Europa nel Medio Evo, Bologna 1981).

Le categorie, i problemi, le coesistenze dottrinalí e dommatiche entro cui nasce e si configura la riflessione dei “filosofi arabi” sono strutturalmente funzionali ai co-termini d’una sapienza esercitata all’interno d’una cultura a lievitazione islamíca. La qual cosa risulta ermeneuticamente decisiva perfino nella lettura di “razionalisti” o liberi pensatori come al-Rawandî, al-Râzî e per lo stesso Ibn Rushd (Averroč). Basti pensare alla specificitŕ islamica delle categorie il cui si formula, per al-Kindî, il problema fede-religione, per al-Fârâbi quello illumínazione-profetísmo, per Ibn Sînâ quello dell’audacia intellettuale di fronte ai limiti del dato di fede, per Ibn Rushd quello della concorrenza del linguaggio di fede col linguaggio filosofico, per i mutakalliműn (= teologi-apologeti dell’islâm) quello del libero arbitrio e decreto divino (qadar), per i mistici quello d’una filosofia naturale a confronto con l’antropologia e cosmologia coranica. Come legittimare una lettura dei testi della “filosofia araba” condotta piů in coabitazíone con l’Europa cristiana che in simbíosi con la terra d’islâm?

I “luoghi” culturali, la distribuzione del sapere, le relazioni e subordinazioni delle discipline, gli strumenti d’indagine e il dato d’avvio, i processi di specificazione delle scienze (dall’esegesi coranica alla teologia apologetica, dalla sapienza illuminativa alla mistica, dalla polis storica della societŕ musulmana ad una filosofia politica, dalla teologia scolastica alle scienze naturali... ) si costituiscono, si evolvono, si coordinano (eventualmente entrano in conflitto) secondo una dialettica diversa in civilizzazione cristiana e in civilizzazione islamica. Con una “filosofia araba” appendice del medioevo cristiano non si rischia d’interpellare una tessera diventata muta perché sottratta al proprio mosaico?

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