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Livio in Tolomeo da Lucca,

«Studi petrarcheschi» 6 (1989) 43-52.

 

fra Tolomeo (aferesi di Bartolomeo) di Fiadone dei Fiadoni da Lucca OP († 1327)

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cita De bello Punico (III deca) di Livio: xxvi 49-51

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De regno, in Toscana 1300; affinità e dissonanze con Remigio dei Girolami, che ignora Livio

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repubblicanesimo comunale intrecciato con ierocratismo papale

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notizie archivistiche circa fra Tolomeo, 1288-1307

 

 Livio in tre autori OP | aggiorna

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 Billanovich/Panella

 
 

Autografia di Tolomeo!

In riferimento a questo mio contributo, importanti note sulla tradizione di Livio cui attinge Tolomeo: Gius. Billanovich, La famiglia romana dei libri XXVI-XL di Livio, «Studi petrarcheschi» 6 (1989) 87-89.

 

1. Stabilito che ogni potere proviene da Dio ed è esercitato tramite cause seconde, Determinatio cc. 18-20 (ed. M. Krammer, MGH, Fontes iuris Germanici antiqui, Hannoverae-Lipsiae 1909, 38-42; d’ora in poi cap. e pag. dell’edizione), Tolomeo di Fiadone dei Fiadoni da Lucca passa a validare l’ipotesi storica della provvidenziale mediazione del potere dell’antica Roma sulla congruenza di talune virtù con i precetti evangelici, «propter certa genera virtutum quas et lex precipit evangelica» (c. 21, p. 42): il sincero amor di patria (c. 21, pp. 42-44), le leggi ordinate alla giustizia (c. 22, pp. 44-45), la benevolenza nella condotta civile: «ex eorum civili benivolentia» (c. 23, pp. 45-46). Qui, riferito da Valerio Massimo IV 3,1, l’episodio della giovane di rara bellezza catturata in Spagna da Scipione l’Africano e da costui restituita illibata allo sposo e ai genitori, continua:

Titus etiam Livius loquens de predicta victoria sic dicit de Scipione, quod quando misit obsides Romam, primum ortatus est universos bonum habere animum: «venisse enim eos in populi Romani potestatem, qui benefitio quam metu obligare homines malunt exterasque gentes fide ac societate vinctas (sic) habere quam tristi subiectas servitio» (c. 23, pp. 45-46).

La Determinatio del frate lucchese risale al 1280 circa (Praefatio dell’editore Krammer, v-x; Ch. T. Davis, Roman patriotism and republican propaganda: Ptolemy of Lucca and pope Nicholas III, «Speculum» 50 (1975) 417-21; Id., Dante’s Italy and other essays, Philadelphia 1984, 232-37; Panella, Priori di SMN..., MD 17 (1986) 264 n. 26). Giusto un ventennio dopo, nel portare a termine il De regno di Tommaso d’Aquino, Tolomeo rielabora il materiale della Determinatio in più sistematico contesto sulla teoria della costituzione politica; in De regno III 6 (Quomodo concessum est eis a Deo dominium propter ipsorum civilem benivolentiam) riprende la documentazione liviana:

Unde Titus Livius De bello Punico narrat Scipionem sponsum dicte virginis adlocutum fuisse, in quo sermone suam ostendit pudicitiam digne principibus imitabilem et dominio meritoriam. Scribit etiam idem Titus de ipso quedam benivolentie inductiva in predicta victoria. Cum enim miserit obsides Romam, primum quidem hortatus est in universos bonum habere animum: «venisse enim cos in populi Romani potestatem, qui benefitio quam metu obligare homines malunt exterasque gentes fide ac societate iunctas habere quam tristi subiectas servitio (Vat. lat. 810, f. 26ra-b).

■ Cf. testo volgato nelle edizioni correnti dei De regimine principum (= De regno) di Tommaso d’Aquino, Opuscula philosophica, ed. Marietti 1954, 302-03, n. 952. In entrambe le citazioni di Tolomeo malunt contro malit di Livio xxvi 49,8 (ed. Oxoniensis).

Salva l’eventualità degli onnipresenti fantasmi dei florilegi (non nel caso di Tito Livio, mi assicura Giuseppe Billanovich), Tolomeo sembra aver attinto direttamente dagli Ab Urbe condita: a motivo della citazione letterale di xxvi 49,8 e dello stesso titolo de bello Punico con cui si denominava la iii deca (= libri XXI-XXX).

Niccolò Trevet: «Hunc Titum libri huius, qui est de gestis Romanorum sive de rebus Romanis, auctorem designat titulus hic prescriptus. Distinxit autem hunc librum in duas partes, quarum prima dicitur Ab Urbe condita ut ex titulo patet, secunda De bello Punico, utraque vero pars in decem libros distenditur»: R.J. Dean, The earliest known Commentary on Livy is by Nicholas Trevet, «Medievalia et Humanistica» 3 (1945) 88. Molte altre testimonianze in Gius. Billanovich, La tradizione del testo di Livio e le origini dell’Umanesimo I/1, Padova 1981; La biblioteca papale salvò le Storie di Livio, «Studi petrarcheschi» 3 (1986) 1-115.

Iacopo Passavanti, Semones de tempore: «Sicut autem dicit Vegecius lib. II de re militari: Altior locus et securior exercitui peditum est locus montuosus; exercitui vero equitum campus planus, quia in montibus nichil potest. Unde et Tytus Livius, libro primo de secundo bello punico, dicit quod exercitus equitum penorum fuit melior quam romanorum, et ideo in campo plano ab eis victi sunt» (München, Staatsbibl. 13580, f. 4rb). libro primo de secundo bello punico esatta formula di citazione di iii deca (XXI 47,1), che sta a favore d'utilizzazione diretta di Livio.

Tolomeo inoltre non preleva un blocco isolato (come d’abitudine nel genere dei florilegi), ma trasceglie e riordina il materiale liviano per costruire l’argomento inserviente alla propria tesi. L’elemento «quando misit obsides Romam» proviene da Livio xxvi 51,1-2; quanto segue nella Determinatio è invece xxvi 49,7-8. Nel De regno Tolomeo prima riassume il dialogo di Scipione con Allucio fidanzato della ragazza (xxvi 50), senza farsene sfuggire le implicite intenzioni là dove risolve rapidamente il rispetto della pudicizia nella validazione del potere («ostendit pudicitiam... dominio meritoriam»), poi torna indietro (xxvi 49,7-8) per raccogliere il vero frutto della lezione.

Quando lavora alla continuazione del De regno Tolomeo ha sottomano la Determinatio e ne utilizza il testo  -  fa cosi anche in molti altri casi. Non si limita tuttavia a rilanciare la documentazione liviana apprestata nell’opera precedente, ma vi aggiunge del nuovo: l’abboccamento di Scipione con Allucio, cui il conquistatore rende la promessa sposa mostrando imitabile esempio di principe pudico. È Livio xxvi 50, del tutto assente nel brano parallelo della Determinatio.

2. Tolomeo, specie nella continuazione del De regno, si confronta con l’esposizione sistematica dell’origine e forme del potere politico. L’intento ‘attualizzante’ dell’argomento retorico seleziona frammenti eulogici della storia romana e accantona le riserve espresse dal De civitate Dei di sant’Agostino, che pure utilizza ampiamente  -  insieme con Valerio Massimo  -  per la recensione dei personaggi esemplari; raggiunge simultaneamente il periodo repubblicano delle istituzioni politiche di Roma, funzionale alla preminenza teorica accordata al repubblicanesimo comunale dell’Italia centro-settentrionale del suo tempo (E.H. Kantorowicz, «Pro patria mori» in medieval political thought, «American Historical Review » 56 (1951) 472-92; N. Rubinstein, Marsilius of Padua and Italian political thought of his time, in AA.VV., Europe in the late Middle Ages, Evanston 1965, 44-75). Che Tolomeo coniuga con un altrettanto marcato ierocratismo papale. Senza stridente contraddizione. Ché l’incompiuta sovranità dei comuni toscani (al quali principalmente va la simpatia di Tolomeo, se non alla sua sola Lucca), contesi tra autonomie locali, rivendicazioni dei vicari imperiali e competenza papale durante la vacanza dell’impero, offre congrua materia all’insolito e originale connubio quando il papato risultasse l’unica forza politica capace di tener testa alle pretese germaniche nel territori italiani dell’impero (Davis, Dante’s Italy 224-89). Parimenti la corruzione tirannica del governo permette a Tolomeo, almeno in talune occasioni, d’avanzare oltre l’exemplum e configurare un ruolo politicamente definito dei personaggi: Giulio Cesare viene accomunato ad Annibale nell’«abusus dominii» (De regno III 8 n. 966). «Duravitque consulatus, immo monarchia, usque ad tempora Iulii Caesaris, qui primo usurpavit imperium» (ib., III 12 n. 996; cf. Eutropio VI 25).

3. La continuazione del De regno è stata certamente redatta in Toscana, tra Lucca e Firenze; qui Tolomeo risiede in qualità di piore conventuale di Santa Maria Novella da luglio 1300 a luglio 1302, verosimili anni della parte del De regno che gli compete (Priori di Santa Maria Novella.... MD 17 (1986) 259, 263-65, 276-77). Convive nel medesimo convento fiorentino con fr. Remigio dei Girolami, che non molto dopo le violenze cittadine seguite al 5 novembre 1301 e all’ascesa al potere dei guelfi neri scrive il De bono comuni. Oltreché condividere con Tolomeo la sensibilità a svolgere la teoria politica d’ascendenza aristotelica su misura della città-stato del comune (da Tolomeo si discosta nel contenere, con discrezione ma con consapevolezza teologica, la competenza papale in temporalibus) Remigio raccoglie la medesima documentazione sull’esemplarità delle virtù politiche della Roma repubblicana; che poi rilancerà nella proposta di pacificazione cittadina del De bono pacis (Perugia, maggio-giugno 1304), coincidente con la legazione fiorentina di Niccolò da Prato. Ma nell’economia redazionale del De bono comuni e De bono pacis, il canone romano degli exempla è ancillare al fulcro argomentativo del discorso principe, che rimane vigoroso e pertinente alla specifica situazione fiorentina: l’irrinunciabile preminenza del bene comune su quello privato quando le basi della polis rischiano la dissoluzione; il ruolo sociale dei beni, quando l’esonero dalla restituzione di beni espropriati sia contraccambiato col rientro dei fuorusciti e sbanditi per ritessere la convivenza politica. Cosicché il ricorso alla romanità classica resta confinato alla funzione retorica dell’exemplum; persuasiva sì di virtù politiche, ma conchiusa nella detemporalizzazione cui vanno soggetti sia i diversi assetti del potere politico nella storia romana sia i protagonisti della sua vita civile. La recensione dei testi remigiani su Cesare, ad esempio, mi fa credere che il personaggio fosse trattato alla stregua dell’exemplum, in positivo e in negativo secondo le esigenze del contesto retorico. Ne viene disincentivata la conoscenza storica, e di conseguenza la curiosità per letture e autori meno corrivi.

■ Oltre quanto in De bono comuni 2, 16-18; 5, 100-06 (ed. MD 16, 1985, 125,131-32), BNF, Conv. soppr. C 4.940, ff. 128vb, 278vb; D 1.937, ff. 9vb, 345v marg. sin.; G 4.936, ff. 48vb, 229r marg. d., 229vb (tra gli esempi di misericordia), 262va (tra gli esempi di tiranni insieme con Tarquinio il Superbo), 232vb-233ra, dove tra l’altro si corregge Isidoro col ricorso a Svetonio: «Tertio, quare Iulius Cesar vocatus sit. De quo loquens Ysidorus libro IX [,3] dicit sic: ‘Cesar autem dictus quod ceso mortue matris utero prolatus eductusque fucrit’. Sed Suetonius dicit in libro De duodecim Cesaribus quod mater diu vixit post ipsum natum» (232vb e marg. inf). Correzione meritevole d’attenzione perché dedotta da un’incidentale nota di cronaca familiare inserita da Svetonio nel corso del racconto della carriera militare di Cesare: «Eodem temporis spatio [si era parlato della campagna di Gallia e Britannia] matrem primo, deinde filiam, nec multo post nepotem amisit» (Svetonio, Iul. I, 26).

La tradizionale documentazione sul canone dei personaggi esemplari (Regolo, Tarquinio, Curzio, Fabrizio ecc.) era sufficiente all’intento: De civitate Dei d’Agostino, Factorum et dictorum memorabilium di Valerio Massimo, Eutropio, Orosio, Paolo Diacono. Gli Ab Urbe condita di Livio avrebbero di certo interessato Remigio, sia a motivo del piacere di vaste letture, anche classiche, che tradisce, sia per lo spiccato e prolungato interesse nei temi politici. Ma né in De bono comuni e De bono pacis né altrove Remigio utilizza Livio, il cui nome mai compare negli scritti del frate fiorentino (a meno che mi sia sfuggito durante lo spoglio dei voluminosi codici).

■ In un primo spoglio delle fonti dei trattati politici di Remigio era stato inserito il nome di Livio: L. Minio-Paluello, Remigio Girolami’s «De bono communi»: Florence at the time of Dante’s banishment and the philosopher’s answer to the crisis, «Italian Studies» 11 (1956) 61; Ch. T. Davis, Education in Dante’s Florence, «Speculum» 40 (1965) 432; Id., Dante’s Italy 162. Ma l’edizione integrale e la ricerca minuziosa delle letture dirette di Remigio («Memorie domenicane» 16, 1985, 123-86), escludono il contributo di Livio. Nell’ediz. del De bono comuni, p. 135, si sopprima l’intera nota 25 e la si riformuli così: 25-30 «legitur de beato Lupo»: alla lettera da Giacomo da Varazze, Legenda aurea c. 107 (su san Germano), p. 449.


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