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3. Tempo di teologia, tempo di fiorino

Sette specialissimi doni ha elargito Dio a Firenze: abbondanza di danaro, nobiltà di moneta, moltitudine di popolo, saggio ordinamento politico, industria della lana, produzione delle armi, espansione edilizia nel contado e distretto. Della grandezza e prosperità di Firenze è misura il fiorino, nobile a motivo dell’oro fino del suo conio - superiore a quello dei tarì e degli augustali - e nobile a motivo delle immagini che porta impresse: da una parte san Giovanni Battista di cui è scritto che è il più grande tra i nati di donna, dall’altra il giglio in cui, secondo il Cantico dei Cantici, sono prefigurati il Cristo e sua Madre (App. c: Unum scio...).

■ Al di là dell’orgoglio comunalistico, Remigio conosce bene i valori delle valute del suo tempo: «Sexto modo quantum ad usus valorem, et sic sterlingus est super turonensem parvum, et turonensis grossus est super sterlingum, et florenus aureus super turonensem grossum, et augustalis super florenum aureum» (De via paradisi: cod. C, f. 214ra). Lo sterlino era scambiato con 4 tornesi piccoli. Quanto alle monete auree, il fiorino (coniazione 1252) era di gr. 3,53 al titolo di carati 24; l’augustale (coniazione di Federico II, 1231) era di gr. 6 al titolo di carati 20 ½. Tali monete, come il tarì del regno di Sicilia, ricorrono con frequenza negli atti commerciali della Firenze del tempo - basti scorrere le imbreviature dei notai del XIII-XIV secolo in ASF, Notar. antecos. Vedi anche le voci «sterlino», «tornese», «fiorino» del glossario in A. CASTELLANI, Nuovi testi fiorentini del Dugento, vol. II, Firenze 1952. G. LuzZATTO, Storia economica d'Italia. Il Medioevo, Firenze 1963, pp. 277-89. C. M. CIPOLLA, Le avventure della lira, Bologna 1975. M. BLOCH, Il problema dell'oro nel Medioevo, in Lavoro e tecnica nel Medioevo, Bari 197.4, pp. 111-56. M. BERNOCCHI, Le monete della Repubblica Fiorentina, Firenze 1974-76.

Non sono spunti occasionali. Firenze - sue glorie e sue vergogne, governo guelfo delle arti e bando di parte bianca, lotte tra i ceti dominanti e pace cittadina, peccati d’usura e miracolo del sangue in Sant’Ambrogio - scorre intera nella produzione letteraria e nel temperamento di Remigio cittadino e intellettuale. Basti menzionare i trattati De bono pacis, De bono comuni, De peccato usure, la questione Venditio ad terminum, i sermoni De pace, quelli ai priori cittadini e ai pubblici personaggi della Firenze di fine ’200 e primo ventennio del ’300. I sermonari soprattutto ne portano evidentissima testimonianza.

All’uomo di scuola s’unisce il predicatore (la praedicatio non era parte integrante della didattica scolastica?) e il cittadino. Firenze è luogo precipuo dell’attività oratoria di Remigio e della sua partecipazione alle vicende politiche dall’istituzione del priorato delle arti (1282) alla minaccia di Enrico VII di Lussemburgo (1312-13) e oltre. Quando ne è lontano, la memoria cede al ricordo e alla nostalgia. E anche alla rabbia. La notte - una notte dopo Natale - sorprende Remigio nell’insonnia e nello scoramento. Lontananza da Firenze, disconoscimento dei meriti, successo e improntitudine degl’immeritevoli e ambiziosi. Allora il fiorentino Remigio prorompe nella composizione Omnes lucrant preter ego. Di pochi autori scolastici si può produrre, accanto agli scritti di stretta tessitura scientifica (il De subiecto theologie ne è tipico esempio), versi che raccolgano il mondo interiore dei sentimenti. I sentimenti d’una notte: sconforto, rabbia, fors’anche invidia. Il testo non vibra per afflato poetico. Ma porta i segni della sincerità e della passione. Eccolo per intero. Dai velati accenni interni si può verosimilmente rimettere la composizione agli anni del baccellierato sentenziario a Parigi. E a Parigi una notte d’inverno può risultare, a un fiorentino, insopportabilmente gelida e solitaria.

Omnes lucrant preter ego

01

    Omnes lucrant preter ego

extra Florem flenter dego

nec hoc esse iustum nego

sed Clementem flagito.

08

   Visum ad depressionen

sanctam elevationem

divam consolationem

quod hic premit operatur.

02

   Libros volvo multum lego

me, ut possum, mente rego

et pudorem meum tego

sub et supra cogito.

09

    Sunt et multi digniores

qui patent despectiores

ventus hic non flat ad mores

nam a virtute fugatur.

03

   Hinc oppugnant hostes multi

demerentes clarent culti

spernunt patres, rident ulti

memor nullus est amicus.

10

  E contra deteriores

sunt ambitiosiores

ad caducos hos honores:

certum est quod affirmatur.

04

   Adversantes hii sunt fulcti

minorantes sunt adulti

dirigentes fiunt stulti

nullus est hiis inimicus.

11

   A Deo est esse dignum

a nobis esse indignum

habet ergo cor malignum

qui conqueritur de Deo.

05

   Ratio sic consolatur

minus digno tribulatur

debito plus prosperatur

homo quivis in hoc mundo.

12

   Deus dat ut placet sibi

bonus est, non nocet tibi;

tumet causas malum tibi

dum avertis te ab eo.

06

   Fletus in risum mutatur

gaudens hic post cruciatur

nec hoc vel illud terminatur

quando quis exit de mundo.

13

   Si vis, malum facis bonum

de ablato formas donum

ergo des de nullo sonum

nisi de te querulosum.

07

   Status per occasionem

culpe dat ruitionem,

veram infert lesionem

quod solatium putatur.

14

   Pax sit ergo nostre menti

ad Christum simus attenti

qui de seculo presenti

ivit sic ad gloriosum. Amen.

 

Dum sequenti nocte post festum Nativitatis dominice in lecto recumbens partem temporis sine sompno transigerem, subito venit in mentem cogitatio quedam comparativa de statu meo ad michi notorum statum prosperum aliorum; ex qua nimirum in rithmica predicta prorupi, a verbis derisoriis incoans, quamvis ea cuiusdam pape nonnulli asserant extitisse.

 

cod. G4, f. 407ra-b

Flos = Florentia. Sermone IV per san Zanobi: «Ego flos. Cant. 2[,1]. Istud verbum congruit vere beato Çenobio ratione sexemplici (...). Quarto ratione nativitatis in quantum congruit omni florentino. In loco enim florenti nascitur flos, iuxta illud Cant. 2[,12] “Flores apparuerunt in terra nostra”, idest omnes nati in Florentia. Sed heu quia scriptum est Apoc. 3[,1] “Nomen habes quod vivas et mortuus es”, ita potest dici de multis florentinis: Nomen habes quod sis flos et tu es fimus fetentissimus propter multa peccata carnalia et spiritualia» (cod. D, f. 404va-b). ASF, Notarile antecosimiano 2963, f. 23v (23.II.1299/300) «de domina Fiore vocata domina Firençe uxore Feini...».

■ Un altro ritmo, di soli due versi, dice «Est prior vel locus iste vacans / rex vadit nos male pacans» (cod. G4, f. 407vb). Lo si è messo in relazione a Carlo di Valois e sua entrata in Firenze (fine 1301, inizio 1302). Proposta insostenibile. Il ritmo parla di rex, mentre Carlo di Valois non lo era. Remigio lo chiama dominus nel sermone a lui dedicato (1-5 nov. 1301); e nei sermoni dedicati a re e loro congiunti dimostra estrema cura nei titoli e nelle relazioni parentelali. Due possibilità: re di Napoli e re di Francia. Visti i dati cronici e topici della biografia remigiana, la seconda ipotesi ha maggiori probabilità a suo favore. Trovo che nel capitolo generale dei domenicani Metz 1298 (vi partecipò anche Remigio) furono assolti (Absolvimus) i priori conventuali di Francia (MOPH III, 291/10). Bisogna dunque orientarsi per il re Filippo il Bello e periodo parigino della lettura delle Sentenze? Ma si potranno mai individuare i fatti specifici e le persone che sono all’origine dei due preziosi ritmi Est prior e Omnes lucrant?

Il seguente brano dall’opera Speculum (di poco posteriore al periodo dell’insegnamento parigino) serba ancora tracce di rancore per la penosa esperienza comunitaria in Francia?

Illi enim qui in exteriori convictu contradicunt moribus illorum inter quos convivunt frequenter turbantur in vita ista a proximis, et hic et in futuro turbabuntur a Deo, contra Gallicos precipue (cod. C, f.145rb).

Remigio - come s’è detto - è anche uomo politico; a motivo del suo temperamento, della sua vocazione di frate Predicatore, del taglio della sua formazione filosofico-teologica, ma a motivo altresì della sua famiglia, i Girolami, grosso ceppo popolano, di fede guelfa, tipico esemplare della borghesia commerciante fiorentina, presto arrivata - dopo l’insediamento del governo guelfo - al successo economico e al prestigio politico. Affermatasi tra il ceto del popolo grasso, la famiglia Girolami registra una delle più alti frequenze di partecipazione al priorato cittadino tra l’istituzione del governo delle Arti e il bando dei guelfi bianchi (cf. S. Raveggi, M. Tarassi, M. Medici, P. Parenti, Ghibellini, guelfi e popolo grasso. I detentori del potere politico a Firenze nella seconda metà del Dugento, Firenze 1978, ad indicem voce «Girolami»). È anche il periodo dei massimi conflitti interni e della frenetica crescita economica, politica, demografica, edilizia della Firenze tardomedievale. Remigio è tutt’altro che estraneo alle cose dei fiorentini. Ne conosce - e ne descrive - strade e mestieri, fazioni e istituzioni, vizi e devozioni. Ne conosce - e a suo modo ne spartisce - l’orgoglio: la compiacenza nella grandezza di Firenze. I simboli pubblici son là a proclamarne le misure, dal palazzo del podestà a quello dei priori, dalla nuova Santa Reparata a Santa Maria Novella. Ai priori in carica da mezzo dicembre 1293 a mezzo febbraio 1294, Remigio indirizza la domanda di sovvenzione per la nuova fabbrica di SMN. Confitebor tibi in ecclesia magna è il tema del sermone. Il «magnus» stringe la rapida fattura letteraria del sermone con la sua ossessiva ricorrenza. Grande è il sacerdote Cristo, grande è Maria, grande è il popolo fiorentino: vogliamo, dunque, una chiesa grande, più grande di quella d’altri ordini mendicanti!

Ad priores civitatis, I: Confitebor tibi in ecclesia magna, in populo gravi laudabo te. Ps. [34,18].

Ecclesia nostra, immo vestra, magna est excedens in quantitate omnes ecclesias michi notas religiosorum pauperum. Magnus enim sacerdos, magna domina et magnus populus, magnam debet habere ecclesiam. Sacerdos est Christus cuius magnitudinis non est finis. Domina Maria virgo, cui «magna fecit qui potens est», Luc. 1[,49]. Populus autem florentinus est qui innumerus est. Primo nulla magnitudo sufficit, secunde omnis magnitudo congruit, tertius excellentem magnitudinem requirit (cod. G4, f. 355rb; cf. Presentazione, MD 11 (1980) p. 8).

Proprio come la ecclesia Christi, inscindibilmente solidale con la societas christiana, è grande oltre ogni misura: quanto ad universitatem locorum, quanto ad universitatem personarum, quanto ad universitatem notitiarum. La sapienza della chiesa abbraccia tutto il sapere di tutte le discipline umane. È l’idea base che presiede all’importante trattato Contra falsos ecclesie professores. A confronto, la chiesa degli eretici ed infedeli appare incomparabilmente esigua (Contra falsos 37, 132-34: Studio p. 151). Ai càtari non era valso rivendicare per la chiesa il privilegio scritturistico d’esser soltanto un pusillus grex:

Moneta da Cremona OP († 1260), Adversus Catharos et Valdenses, ed. A. Ricchini, Roma 1743, 394-95: «Item obicit [catharus] quod Ecclesia Romana multiplicata est et dilatata per orbem; e contrario Ecclesia Dei pauca est, Matth. 7, 14».

Di lì a qualche decennio saranno definitivamente eliminati dalla storia dell’Europa latina. Ai confini estremi della grandezza non si annida la prepotenza?

Della grandezza della chiesa e della grandezza di Firenze sono simboli rispettivamente la teologia e il fiormo. Da qualche tempo chiesa e mercante non sono più irriducibili nemici (J. Le Goff, Tempo della chiesa e tempo del mercante, Torino 1977, 3-23, 133-152; AA.VV., L’etica economica medievale, a c. di O. Capitani, Bologna 1974). Remigio, teologo e fiorentino, non ha da forzare similitudini remote: la teologia è preziosa come prezioso è il fiorino. La congruità è nei fatti prima ancora che gli si dia parola. Uomo di scuola, uomo di città, uomo di Firenze. La produzione letteraria di Remigio dei Girolami porta il segno di questo blocco storico. L’editore non può ignorarlo. Ecco dunque la teologia, uscita dalla disputa scolastica, visitare a pieno diritto la città, luogo delle virtutes politicae:

Ex qua ratione apparet quod civis naturaliter preamat civitatem sibi, quia scilicet in civitate plus habundat et virtus intellectualis et moralis sive etiam theologica quam in uno cive per se, cum plures sint ibi huiusmodi virtuosi et etiam magis quam ipse sit, ut ipse debet supponere. Et iterum quia ipse civis magis potest fieri modis omnibus virtuosus, humaniter loquendo, comparatus ad civitatem, quam in se ipso solus existens, intellectualiter quidem quia per se ipsum potest quidem sapientiam acquirere per inventionem, sed in civitate potest etiam eam acquirere per disciplinam, et tanto commodius quanto civitas maior existens plus habundat doctoribus. Ubi etiam per exercitium mutuum cum discipulis aliis magis potest proficere, et si doctor sit, etiam alios docendo proficit, quia scientia est nobilis possessio animi que distributa suscipit incrementum etc., ut magistraliter dicitur (De bono comuni c. 12:, cod. C, f. 101rb).

Altrove la metafora aveva già inurbato il sapere del tempo: grammatica, logica, matematica, scienza naturale, etica, metafisica, teologia sono la controparte sapienziale degli spazi urbani, rispettivamente chiasso, via, strada, palazzo, chiostro, piazza, campo (Studio p. 47). Antiche evocazioni ed esegesi allegorica propiziano nuove consonanze: sapientia-pecunia.

Prologus VI-bis: Si enim sapientiam invocaveris et inclinaveris cor tuum prudentie, si quesieris eam quasi pecuniam et sicut thesauros effoderis illam, tunc intelliges timorem Domini et scientiam Dei invenies. Prov. 2[,3-5].

Sicut dicit Philosophus in I Ethicorum c. 1 unusquisque bene iudicat que cognoscit (…). Tertio vocat eam [scil. sapientiam] pecuniam, et ideo dicitur Mt. 25[,27] «Oportuit te conmictere pecuniam meam nummulariis», Glosa: idest sermonem divinum. Et Luc. 19[,13ss] dicit Beda quod mna est facere scriptura. Et in Ps. [11,7] dicitur «Eloquia Dei eloquia casta, argentum igne examinatum». Dicit autem quasi pecuniam quia sapientia absque dubio non est pecunia sed similitudinem habet cum pecunia, iuxta illud Eccles. 7.b [= 7,13] «Sicut protegit sapientia sic protegit pecunia». Pecunia enim protegit in quantum per eam humanis miseriis subvenitur, quia scilicet «omnia nummismate mensurantur», ut dicitur in V Ethicorum c. 5. Et similiter qui sacre scripture student predicande vel etiam elucidande, sicut predicatores et doctores, possunt et debent recipere necessaria ad victum ab aliis... (cod. G4, ff. 278vb, 279rb).

Il danaro non è alcunché di turpe. Far danaro non è più tabù, a patto che si sottometta a nuova etica. Uso retto, buona intenzione, rispetto delle circostanze dell’atto umano e delle regole della giustizia, non soltanto legittimano mercatura e profitto, li rendono – all’occasione - perfino meritori. Una buona teologia aveva provveduto le premesse: «Omnes creature sive sint corporales sive spirituales sive superiores... de se sunt bone» (App. c, p. 83/1-2). E non solo la giustizia; anche la misericordia può aprire le porte alle ricchezze:

Estote [misericordes]. Secundo, misericordia facit interdum ditiorem quantum ad divitias artificiales sive sint per artem manualem, ut domus vestes et huiusmodi, sive sint per artem legalem, ut pecuniam, que quidem lege humana adinventa est, secundum Philosophum in libro I Politice. Unde et nummus dicitur a nomo idest lege, secundum Philosophum in V Ethicorum. Unde et legislator mutat valorem pecunie argentee vel auree vel de quacumque materia existentis secundum quod placet sibi (…). Tertio, misericordes interdum ditantur quantum ad divitias civiles, scilicet quantum ad commendationem, quantum ad honores et huiusmodi (De misericordia c. 12: cod. C, ff. 201vb, 202ra)

Cf. ed. A. Samaritani, La misericordia in Remigio de’ Girolami e in Dante nel passaggio tra la teologia patristico-monastica e la scolastica, «Analecta Pomposiana» 2 (1966) 169-207, inutilizzabile per l’alto tasso d’errori di trascrizione.

Ma non una moneta qualsivoglia, bensì il fiorino. Il «piccolo», la lira argentea - di cui è coniata solo la 240a parte, l’umilissimo denaro - non merita menzione, confinato com’è alle minute transazioni del mercato interno alle mura cittadine. È il fiorino - che fa la sua corsa dal 1252 - il vero simbolo dell’opulenza fiorentina. Esso misura le grosse transazioni nelle fiere di Champagne. Raggiunge perfino i Saraceni! A renderlo nobile concorrono - senz’ombra di contesa - i suoi 3,53 grammi d’oro del titolo di 24 carati, san Giovanni Battista e il giglio, simbolo del Cristo e della Vergine. Gli odi e le lotte cittadine minacciano ad un tempo amore di Dio, amore del prossimo, bene comune, istituzioni politiche e crescita economica. Sono i grandi temi intrecciati negli importanti trattati De bono pacis e De bono comuni, di poco posteriori agli sconvolgimenti cittadini seguiti all’avvento di Carlo di Valois e al prevalere di parte nera (1302). Il linguaggio del predicatore e teologo non soffre ancora il pudore dell’estraneità: la crisi politica e l’instabilità sociale scoraggiano l’investimento estero e colpiscono i depositi bancari.

Qualem enim utilitatem potest modo habere civis florentinus? Societates enim sunt dissotiate, fundacha - ut ita dicam - sunt exfundata, apoteche sunt abottate (…). Et sic bene, immo male, “Florentia” mutata est in “Firençe” quia ubi ex odore fame extranei etiam de longinquis partibus suas pecunias propter utilitates temporales et lucra pecuniaria propria deponebant, nunc ex fetore infamie etiam cives inde auferre que posuerunt conantur, et - quod miserabilius est - rehabere sua non possunt (De bono comuni c. 14, cod. C, f. 102ra-b).

Una nuova società, una nuova etica, una nuova nobiltà. Quando la dignità cavalleresca è stata travolta dallo sfaldamento della società del feudo e la città premia il burgensis commerciante e imprenditore, la nobiltà conserva sì l’antico fascino ma rincorre nuovi meriti. Non più chi eredita per sangue beni e titolo nobiliare (miles nature), né tantomeno il cavaliere inetto e fatuo (miles infortunii), ma il borghese probo e operoso, cui meriti personali, legami sociali e sostanziose ricchezze conquistano la dignità cavalleresca (miles fortune). Se il primo è da tollerare, il secondo da vituperare, il miles fortune è commendevole quasi al pari del miles gratie. Le due dignità - nobilitas anime e nobilitas gratie - sono ormai il modello congiunto del nuovo cittadino di Firenze. Così almeno per Remigio dei Girolami. Gaetano Salvemini (La dignità cavalleresca nel Comune di Firenze, ed. Milano 1972, 119-20) aveva fin dal 1896 attirato l’attenzione su un testo di Remigio. Si tratta d’un sermone in morte d’un innominato miles. Forse un semplice sermone modello da utilizzare per simili ricorrenze, come suggeriscono istruzioni redazionali «Possumus ponere ad presens sex militias in duobus ternariis...» e quella finale «Vel dicas quod...». Eccone il testo integrale:

originale latino

volgarizzamento (2007) di EP

De milite, I: Militia est vita hominis super terram. Iob 7[,1].

In morte d'un cavaliere, sermone primo: Combattere è la vita dell'uomo sulla terra. Giobbe 7, 1.

In transitu istius nobilis militis parat Deus loqui de militia ad nostram utilitatem isto modo. Possumus ponere ad presens sex militias in duobus ternariis, scilicet dicendo quod sunt milites nature idest di natura, puta qui sunt corredati de prosapia militum descendentes et cum militaribus moribus. Et alii sunt milites fortune idest de ventura, puta qui per amicitiam vel probitatem vel multas divitias corredati sunt et militates mores habent. Alii sunt milites infortunii idest di sciagura, puta aliqui qui inepti sunt ad militiam, temptati tamen a vanitate mundi sive sint de genere militum sive non, faciunt se corredari; et ex hoc ab omnibus hominibus deridentur, eorum nota miseria propter evidentem statum.
Alii sunt milites gratie qui arma habent spiritualia scilicet scutum fidei, loricam iustitie, gladium verbi et galeam spei, secundum Apostolum.

In occasione della morte di questo nobile cavaliere, Dio ci propone queste parole a nostra profitto. Possiamo distinguere sei tipi di militanza in due ternari. Diciamo dunque che vi sono cavalieri di natura, cioè coloro che ottengono il cavalierato per discendenza da ceppi militari e dotati di virtù militari. Cavalieri di ventura, quelli ad esempio che per amicizia o per dignità o per le molte ricchezze ottengono il cavalierato e posseggono costumi militari. E cavalieri di sventura o di sciagura, inetti all'arte militare, ma sedotti dalla mondana vanagloria, siano o no d'ascendenza cavalleresca, si fanno insignire del titolo di cavaliere. Oggetto di generale derisione, visto e risaputo il loro miserevole stato sociale.
Altri sono
cavalieri di grazia. Posseggono armi spirituali: scudo della fede, corazza della giustizia, spada della parola, elmo della speranza, secondo l'apostolo Paolo (Efesini 5, 13-17; I Tess. 5, 8).

Primi et secundi, dummodo contra Deum non agant, sunt tolerandi et reverendi, iuxta illud Luc. 3[,14] «Neminem concutiatis neque calumpniam faciatis et contenti estote stipendiis vestris». Secundi autem magis videntur commendandi quam primi, quia sine adminiculo nature ex probitate anime nobiliter se gerunt. Sed tertii sunt vituperandi. Sed quarti sunt maxime commendandi, puta Stephanus, Laurentius, Vincentius, et maxime si fuerunt milites mundi quia plus vicerunt temptationem, ut Georgius et Martinus. Ieronimus: «Non laudo Paulam quia multas divitias habuit sed quia multas divisit».

Primi e secondi son da accettare e da onorare, a patto che non agiscano contro Dio, come scritto in Luca 3, 14 «Non maltrattate e non commettete ingiustizia contro nessuno, contentatevi delle vostre paghe». I secondi da lodare più dei primi, perché senza sostegno naturale ma per onestà d'animo tengono un comportamento nobile. I terzi son da biasimare. I quarti sono massimamente da lodare, ad esempio i santi Stefano, Lorenzo, Vincenzo; specie se furono guerrieri del mondo, perchè così sostennero maggiori tentazoni, come i santi Giorgio e Martino. San Girolamo: «Non lodo Paola perché possedeva molte ricchezze, piuttosto perché molte ne condivise».

Item sunt milites generales idest omnes homines, et speciales idest omnes corredati, et singulares idest ex militibus nati et militariter morigerati et corredati. Circa illud nota quod omnes sumus nati milites, et masculi et femine etc.
Vel dicas quod quidam sunt milites armati armis naturalibus, alii carnalibus, alii spiritualibus (cod. G4, f. 392rb-va).

Inoltre, vi sono cavalieri generici ossia gli uomini tutti, e cavalieri speciali ossia quelli insigniti del cavalierato, e singolari ossia quelli nati da cavalieri, dai costumi e corredi militari. Nel primo senso, nota che tutti siamo nati cavalieri, sia maschi che femmine.
Oppure di': taluni sono cavalieri provvisti di armi naturali, altri di quelle meccaniche, altri ancora di quelle spirituali (cod. G4, f. 392rb-va).

   

Il «Prologus XII» (prologus o principium è il sermone inaugurale dell’anno accademico prevalentemente ispirato alla lode della sapienza e teologia) lega teologia e danaro a un unico filo: Sicut protegit sapientia sic protegit pecunia (App. b, pp. 76-82). L’analogia, prolungata e minuziosa, scopre inattese affinità tra teologia e moneta. Affinità che non disdegnano la funzione di conoscenza analogica. Perfino l’oggetto formale della teologia vi ritrova la sua espressione in chiave retorico-omiletica. La moneta illustra otto proprietà della teologia: istituzione, determinazione, rotondità, immagine, iscrizione, moltiplicazione, sostegno, appetizione. L’uomo rincorre per natura il danaro, universale soccorso alle proprie miserie. Ma non vi sono altresì le miserie spirituali, cui soccorre la sapienza teologica? Il testo prevarica le misure incidentali della metafora. Teologia e danaro sono indissociabilmente legati ai radicali bisogni dell’uomo:

Quia enim homo naturaliter appetit suis miseriis subveniri, ideo etiam naturaliter appetit pecuniam et theologicam sapientiam per quam suis miseriis subvenitur (App. b, p. 82/175-78).

♦ “sermo super theologiam” viene denominato questo prologo dal santorale cod. D, f. 252va: «Et in hac figura notatur sanctitas persone quia caret anguli sorde. Vide de hoc in sermone super theologiam Sicut protegit sapientia etc.».


Andrea di Buonaiuto da Firenze, capitolo SMN_est, s. Tomm. d'Aquino (1365-67): Veritatem meditabitur guttur meum (Prov. 8,7)
finis

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