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  Dal bene comune al bene del comune

I trattati politici di Remigio dei Girolami († 1319)
nella Firenze dei bianchi-neri

 

I - Le possibilità della pace
nelle lotte cittadine d’inizio Trecento

1. «De bono pacis». Pax summum bonum civitatis

«Levatevi, o malvagi cittadini pieni di scandoli, e pigliate il ferro e il fuoco con le vostre mani, e distendete le vostre malizie. Palesate le vostre inique volontà e i pessimi proponimenti; non penate più; andate e mettete in ruina le belleze della vostra città. Spandete il sangue de’ vostri fratelli, spogliatevi della fede e dello amore, nieghi l’uno all’altro aiuto e servizio. Seminate le vostre menzogne, le quali empieranno i granai de’ vostri figliuoli. Fate come fe’ Silla nella città di Roma, che tutti i mali che esso fece in x anni, Mario in pochi dì li vendicò. Credete voi che la giustizia di Dio sia venuta meno? pur quella del mondo rende una per una. Guardate a’ vostri antichi, se ricevettono merito nelle loro discordie: barattate gli onori ch’eglino acquistorono. Non vi indugiate, miseri: ché più si consuma in un dì nella guerra, che molti anni non si guadagna in pace; e picciola è quella favilla che a distruzione mena un gran regno» (Compagni II, 1).

■ Per abbreviazioni e sigle in ed. a stampa vedi lista a fine Introduzione, «Memorie domenicane» 16 (1985) pp. 121-122.

L’apostrofe non è delle pagine migliori di Dino Compagni né rende giustizia alla straordinaria passione del cronista fiorentino. Ma collocata a introduzione del secondo libro dà la misura della determinazione della Cronica a raccogliere le vicende fiorentine dell’ultimo ventennio del Dugento, concentrate nel primo libro, per travasarne impeto e senso nel fulcro del racconto: le lotte tra guelfì bianchi e guelfi neri che devastarono Firenze nei primi anni del nuovo secolo. La storiografia moderna - sia pure con approcci e soluzioni diversi da Gaetano Salvemini a Nicola Ottokar - ha attribuito invece all’ultimo ventennio del Dugento, anzi agli anni 1280-1295, una “importanza fondamentale”: la rapida ascesa economica e l’occupazione, da parte della borghesia mercantile, del potere politico da difendere ora dall’antica aristocrazia di sangue ora dalla più recente aristocrazia di censo. “Magnati e popolani” agitano la memoria dello storico così come agitavano la vita cittadina della Firenze di fine Dugento; gli uni e gli altri generati dall’unica matrice del vero potere urbano, il mondo delle arti. Gli Ordinamenti di giustizia del 1293 sottrassero il potere politico ai magnati; ma non tutto il potere, non certo quello economico. Anche l’addolcimento delle misure antimagnatizie del luglio 1295 seguìto al tumulto dei magnati fu, tutto sommato, recensito a consolidamento del “governo di popolo”, cioè della borghesia cittadina di recente estrazione. «Ma pure questa novitate - commentava Giovanni Villani - fue la radice e cominciamento dello sconcio e male istato della città di Firenze che ne seguì appresso, che da indi innanzi i grandi mai non finirono di cercare modo d’abattere il popolo a lloro podere; e’ caporali del popolo cercarono ogni via di fortificare il popolo e d’abbassare i grandi, fortificando gli ordini della giustizia» (Villani IX, 12, 42-48). Il Salvemini riconosce che «con queste parole il Villani allude alla lotta fra Bianchi e Neri che invade la storia fiorentina subito dopo il 1295». E chiude la sua opera: «Ma a questo incidente ci basti aver accennato; il compito assuntoci di narrare le lotte tra i partiti dal 1280 al 1295 è ormai esaurito» (G. Salvemini, Magnati e popolani in Firenze dal 1280 al 1295, ed. Milano 1974, 193).

L’espediente retorico del brano citato della Cronica del Compagni cuce elegantemente «le ricordanze dell’antiche istorie» ad attacco del proemio con la presentazione dei protagonisti dello «sconcio e male stato» della Firenze dei bianchi e neri d’inizio Trecento:

«Le ricordanze dell’antiche istorie lungamente ànno stimolata le mente mia di scrivere i pericolosi advenimenti non prosperevoli, i quali ha sostenuti la nobile città figliuola di Roma, molti anni, e spezialmente nel tempo del giubileo dell'anno MCCC» (Compagni I, 22; cf. Villani IX, 38).

Con i guelfi bianchi, capeggiati da Vieri di Torrigiano dei Cerchi, sono: Adimari (Goccia), Cavalcanti, Gherardini, Frescobaldi, Scali, Mozzi, Nerli, Abati, Malispini e un ramo della Tosa (Biligiardo, Baschiera, Baldo). Col «gran barone» Corso dei Donati capo-fazione dei guelfi neri: Adimari (Gherardo Sgrana e Bindello), Pazzi, Visdomini, Bardi, Rossi, Brunelleschi, Tornaquinci, Manieri, Buondelmonti, Bostichi, Franzesi, un altro ramo della Tosa (Rosso, Arrigo, Nepo e Pinuccio). Lo strato sociale più basso e più numeroso - quello del popolo minuto delle arti minori e la massa esclusa da qualsiasi partecipazione al potere politico - fu spettatore; all’occorrenza fece la comparsa traendo profitto nei tumulti di piazza e nei saccheggi; fu vigile semmai a che i contendenti non sopprimessero gli Ordinamenti di giustizia. Difatti le due fazioni, se corteggiarono il popolino al fine di trarlo dalla loro, si guardarono bene dal metter mano sugli Ordinamenti (Compagni I, 22). I “popolani” invece (la classe emersa e affermatasi dall’istituzione del priorato delle arti in poi), in molti casi consoci dei grandi nelle medesime aziende commerciali (molti dei grandi, ricordiamo, erano d’estrazione popolana), dovettero prender partito tra bianchi e neri. Il dinamismo dei ceti sociali si dissolveva - o subiva un arresto - nel rigurgito dei forti vincoli dei clan familiari e delle feroci rivalità personali?

«Certo, noi possiamo dire che la cruenta serie di faide tra Bianchi e Neri è di fatto un conflitto “arretrato” rispetto alle lotte politiche fiorentine che avevano caratterizzato gli anni 1280-1295; esso naturalmente non è la causa dell’ “arretramento”, ma ne è il significativo effetto»: così gli autori del più notevole contributo alla storia del potere politico nella Firenze del secondo Dugento dopo i Salvemini e gli Ottokar (Detentori 320).

■ Cf. G. Tabacco, Egemonie sociali e strutture di potere nel medioevo italiano, Torino 1979, 275-92, 330-46; pp. 338-39 conflitti fiorentini di primo Trecento interpretati in rapporto alle istituzioni politiche dell’assetto statale.

Che tipo di conflitto è allora quello che dilania Firenze nel primo decennio dei Trecento? «È un conflitto in cui le componenti di aggregazione all’interno degli opposti schieramenti sono la consorteria e soprattutto la sua più moderna incarnazione, la consorteria bancaria. Se gli antichi vincoli familiari e consortili paiono anch’essi conoscere in questi avventurati anni vari sintomi di crisi, sostanzialmente saldi si mostrano al contrario i legami derivati dalla comune partecipazione ad aziende commerciali; nell’ambito di questa nuova realtà anche le lotte cittadine trovano il loro vero fondamento nello scontro degli opposti interessi e nella concorrenza spietata che contrappone alcuni grandi gruppi finanziari ad alcuni altri: rinasce la consorteria “mercantile” dalla crisi della consorteria di sangue, così come è nata una nuova aristocrazia di censo sulle ceneri dell’aristocrazia di stirpe» (S. Raveggi, M. Tarassi, M. Medici, P. Parenti, Ghibellini, guelfi e popolo grasso. I detentori del potere politico a Firenze nella seconda metà del Dugento, Firenze 1978, pp. 319-20; d'ora in poi semplicemente Detentori e relative pagine).

■ Per il ruolo delle strutture familiari nell'organizzazione e dinamismo della società fiorentina vedi R.A. GOLDTHWAITE, Organizzazione economica e struttura famigliare, in AA.VV., I ceti dirigenti nella Toscana tardo comunale, Firenze 1983, 1-13; M. CASSANDRO, Per una tipologia della struttura familiare nelle aziende toscane dei secoli XIV-XV, ib. 15-33.

In realtà gli autori in questione - il cui lavoro di ricostruzione della tipologia sociale delle famiglie fiorentine è confinata al quarantennio 1260-1300 - non hanno protratto la medesima sistematica ricerca per gli anni cui il giudizio si riferisce. Quale che sia il filo rosso che ricerche a tappeto del tipo dei decenni precedenti possa guidare alla trama delle nuove consorterie mercantili e dar ragione ai violenti conflitti tra esponenti - in fondo - del medesimo stato sociale, certo è che arroganze baronali (tipico il caso di Corso dei Donati e di suo figlio Simone) consumate in odi tra aspiranti al medesimo protagonismo e tenaci vincoli di famiglia (testimoniati anche quando compromessi da fratture interconsortili) devono aver concorso non poco alla trama di questo conflitto “arretrato” di primo Trecento. Così come certo appare che violenza di piazza, faide personali o di gruppi parentali, talvolta perfino terrorismo prevalgono di gran lunga sulle caratteristiche delle lotte sociali del ventennio precedente. Le istituzioni pubbliche dello stato fiorentino non esploderanno, ma dovranno spesso piegarsi a dar copertura di legalità formale alla manomissione del potere reale.

«E di popolani furono co’ Cerchi, Falconieri, Ruffoli, Orlandini, quelli delle Botte, Angiolieri, Amuniti, quelli di Salvi del Chiaro Girolami, e molti altri popolani grassi» (Compagni I, 22 in fine). "Quelli di Salvi del Chiaro" sono Girolamo, Chiaro e Mompuccio; figli di Salvi del Chiaro e nipoti di fr. Remigio dei Girolami.

Le violenze cittadine sollevano invocazioni alla pace. Quest’ultime sono ossessive quanto quotidiane sono le prevaricazioni. Pace, a suo modo, vuole Bonifacio VIII, il suo legato Matteo d’Acquasparta (legazioni giugno-ottobre 1300, dicembre 1301 - febbraio 1302) e il suo «paciaro» Carlo di Valois (dicembre 1301 - febbraio 1302); pace vuole Benedetto XI e il suo legato fr. Niccolò da Prato (legazione febbraio-giugno 1304). Pace proclamano Dino Compagni e Dante Alighieri; il primo in città, il secondo esule dall’autunno 1301. Pace propone il fiorentino fr. Remigio dei Girolami, da Firenze nel triennio immediatamente successivo al calendimaggio 1300, da Perugia - dove risiedeva la curia papale - durante la legazione di Niccolò da Prato. Propositi politici e contenuti etici sono diversi, talvolta opposti. Ma l’insuccesso li riconcilia tutti entro il medesimo abbraccio. Falliscono le mire nutrite da Bonifacio per sé e per il rampollo di Francia; fallisce la diplomazia pastorale di Benedetto; falliscono le utopie etico‑politiche: quelle di vaste dimensioni rimesse alla restaurazione della monarchia universale di Enrico VII (Compagni e Dante Alighieri):

DANTE, Convivio IV, 4, 3-4: «... discordie e guerre conviene surgere intra regno e regno, le quali sono tribulazioni de le cittadi, e per le cittadi de le vicinanze, e per le vicinanze de le case, <e per le case> de l'uomo; e cosi s'impedisce la felicitade. Il perché, a queste guerre e a le loro cagioni torre via, conviene di necessitade tutta la terra, e quanto a l'umana generazione a possedere è dato, essere Monarchia cioè uno solo principato, e uno prencipe avere; lo quale, tutto possedendo e più desiderare non possendo, li regi tegna contenti ne li termini de li regni, si che pace intra loro sia, ne la quale si posino le cittadi, e in questa posa le vicinanze s'amino, in questo amore le case prendano ogni loro bisogno, lo qual preso, l'uomo viva felicemente; che è quello per che esso è nato».

COMPAGNI III,23 ss. Cf. G. PETROCCHI, Vita di Dante, Bari 1984, c. 13 (La suprema illusione: Enrico VII), c. 15 (La concezione politica).

E fallisce quella tutta cittadina e comunale che fr. Remigio propone nel De bono comuni e nel De bono pacis. Benché il potere politico prevaricasse in quotidiano sopruso, le istituzioni repubblicane di Firenze tennero alla prova; segno che la città-comune meritava fiducia ed era ancora, in gran misura, padrona della propria storia.

La politica fiorentina di Bonifacio VIII, la venalità di Carlo di Valois e la prepotenza di Corso dei Donati (che Bonifacio aveva prima voluto podestà in Orvieto poi rettore di Massa Trabaria, territorio del Patrimoniun Sancti Petri) concorrono in novembre 1301 al prevalere di parte nera. Si susseguono a raffica tra gennaio e ottobre 1302 condanne all’esilio, esecuzioni capitali, estorsioni pecuniarie, confisca o guasto dei beni dei bianchi e di quanti ne avessero condiviso la precedente supremazia. Negli anni successivi condanne e bandi si ripetono sui titmi o dei tentativi militari dei fuorusciti di riguadagnare la città o delle faide private entro le mura cittadine. Il De bono pacis di fr. Remigio avanza una specifica proposta politica per la pacificazione cittadina: il condono dei danni inferti e subìti concordato dalle autorità pubbliche della città (o d’altre comunità minori comitadine e distrettuali) senza necessariamente l’assenso delle singole persone coinvolte, eventualmente contro la stessa volontà delle parti lese, fossero quest’ultime anche ecclesiastiche. Il trattato parte col formulario della questione scolastica: «Queritur utrum pro bono pacis et concordie... » (c. 1); ma la risposta è un sì netto e senza pentimenti di sorta. Vale dunque una proposta. Tutto il corpo del trattato mira a provare la liceità etica e giuridica della proposta. Gli argomenti condensano i più ricchi frutti d’una teoria politica che beneficia delle acquisizioni aristoteliche della cultura della scuola, dell’esemplarità normativa dell’amor patriae della romanità classica, della preminenza della società sul privato cittadino e della peculiare risoluzione - tutta remigiana - della teoria politica del bene comune su misura del bene del comune. Del comune di Firenze. Il De bono comuni (ma anche altri scritti sparsi nei codici remigiani) fa da supporto teorico e cronologico alla proposta del De bono pacis.

La conferma della liceità a cui punta l’assetto argomentativo del trattato ha la meglio sull’analisi della praticabilità politica della proposta nella specifica situazione fiorentina. È il medesimo scarto che corre tra soggetto politicamente impegnato in prima persona e progettazione d’un disegno politico. Lo si ritrova anche in chi coniuga in se stesso i due momenti d’impegno: nel mite Dino Compagni conteso tra tessere speranze d’improbabile resipiscenza dei suoi concittadini e conclamare l’urgenza «d’arrotare i ferri»; in Dante che aderisce alla lega degli esuli bianchi con antichi ghibellini in Gorgonza di Val di Chiana e in San Godenzo del Mugello nel tentativo (fallito) di rientrare in città con la ragione delle armi, e poi matura il progetto etico-politico della monarchia universale, condizione perché l’imperatore - Enrico VII o chi per lui - possa rimetter ordine nelle cose di Firenze, e in quelle del mondo intero.

■ «E così perdemo il primo tempo, che non ardimo a chiudere le porti, né a cessare l’udienza a’ cittadini: benché di così false proferte dubitavamo, credendo che la loro malizia coprissono con loro falso parlare. Demo loro intendimento di trattare pace, quando convenìa arrotare i ferri» (Compagni II, 5). Siamo durante il priorato dello stesso Dino, 15 ott. - 7 nov. 1301, priorato interrotto dai neri vincitori. Vedi anche ib. II, 13.

■ San Godenzo «de pede Alpium» 8.VI.1302: Torrigiano, Carbone e Vieri dei Cerchi, Dante Alighieri e altri s’impegnano a risarcire danni agli Ubaldini (antico casato comitale ghibellino) per la guerra che insieme intendono muovere contro Firenze: R. Piattoli, Codice diplomatico dantesco, Firenze 1940, doc. 92, pp. 109-10. Così commenta l’episodio G. Petrocchi, Biografia [di Dante]: «In realtà si trattò di stabilire tutti i modi dell’organizzazione e condotta della guerra, i limiti della resa che poteva esser chiesta ai Neri sconfitti, soprattutto la futura possibilità di un’alleanza politica tra due partitanti [guelfi bianchi e ghibellini] così lontani negli ideali e nei programmi, e che non so quanto avrebbe potuto convivere nel tempo e, in particolare, far rivivere gli ordinamenti democratici ch’erano stati della tradizione dei Bianchi dinanzi ai tentativi di restaurazione d’istituti e costumi aristocratico-feudali che i ghibellini avrebbero cercato di porre in opera, riuscendo miracolosamente a ripetere una nuova Montaperti a distanza di 43 anni» (ED VI, 32). Cf. Id., Vita di Dante, Bari 1984, 91-93.

A parziale discarico del frate fiorentino (oltre al merito d’aver continuato a credere alle possibilità storiche d’un soggetto politico quale la città-comune) va accreditata la clausola rimessa a fine trattato: il condono non si estende al caso in cui i beni siano attualmente in possesso dell’espropriante e si conosca la persona espropriata, specie se quest’ultima versi in stato d’indigenza; qui il condono cede il posto alla restituzione; oppure, se il condono non prevede eccezioni, sarà il tesoro pubblico a indennizzare.

In quale momento della concitata vicenda fiorentina si pone la proposta del De bono pacis?

Il capitolo 5 del trattato mette a fuoco un aspetto specifico della proposta di riconciliazione: la prevedibile resistenza del clero al condono degli espropri di beni ecclesiastici. Nell’economia del De bono pacis la questione - già annunciata nella formulazione d’inizio trattato - occupa un posto rilevante. In fondo il clero cittadino risulta l’unica delle parti sociali in causa espressamente menzionata. E Remigio sembra annettervi notevole importanza se s’impegna in una serrata disamina del diritto pubblico della chiesa da cui il clero renitente poteva trarre argomento. Ma, si noti, non è un capitolo di stretto dibattito giuridico; l’esegesi delle decretali prende le mosse da un nucleo d’eccellente ecclesiologia. La chiesa, corpo del Cristo, realizza il proprio fine nella pax fidelium, così come la polis realizza il proprio fine nella pace dei cittadini. Se la pace trovasse ostacolo nei beni temporali della chiesa, questi devono esser sacrificati al fine ultimo della comunità dei fedeli. Che se poi le decretali o lo stesso papa dicessero altrimenti, l’interpretatio va a favore della radice prima che detta ordine normativo alle autorità inferiori; il papa è vicario di Cristo; bisogna dunque obbedire anzitutto a Dio, poi agli uomini (v. anche De bono pacis 2, 45-52). E Dio ha cara la pace più d’ogni bene temporale. La biografia e gli scritti di Remigio non avallano il benché minimo sospetto che il frate fiorentino soffrisse disagi di pensiero o di vita all’interno dell’istituzione religiosa in cui vive, ché anzi ne esprime - e ne rappresenta in molteplici cariche di prestigio - l’immagine e la funzione pubblica. Remigio non è trasgressore dell’istituzione. Se si tien conto di ciò, l’oltranzismo dell’istanza evangelica rimessa in quei decenni all’ala spiritual-gioachimita del francescanesimo insofferente, può difficilmente suggerire paragoni credibili. Remigio, della riproposta della vita apostolorum dell’evangelismo medievale, raccoglie quanto realisticamente poteva animare pubbliche istituzioni religiose - e intendo gli ordini mendicanti - arrivati in quegli anni alla massima affermazione della loro forza demografica, istituzionale e dottrinale. «Sine dubio obediendum est pape», si dice poco dopo; ma «ubi sciretur pro certo quod aliquid esset contra caritatem, nec preceptum hominis nec excomunicatio sunt timenda quia nullo modo est faciendum contra caritatem, cuius scilicet effectus est pax». Nel Contra falsos ecclesie professores, là dove si vuol concludere che l’implicazione del clero e della chiesa nei beni terreni mina la devozione, l’amor di Dio e delle cose spirituali, Remigio evoca la donazione di Costantino per dire che quando costui dette alla chiesa l’impero occidentale una voce dal cielo fu udita proclamare «Veleno è stato oggi iniettato nella chiesa di Dio» (Contra falsos 26, 23-25). Se l’istituzione ecclesiastica fabbrica documenti in appoggio ai privilegi, l’istanza evangelica genera legenda per trarne autorità.

Contra falsos 26, 23-25: «Unde legimus quod quando a Constantino fuit datum ecclesie imperium occidentale, facta est vox de celo: "Hodie infusum est venenum ecclesie Dei"» (ed. F. Tamburini, Roma 1981, 58-59). Molto probabilmente Remigio raccoglie la leggenda dalla diffusissima Summa de vitiis et virtutibus (1249-50) di Guglielmo Peyraut O.P., trattato sull'avarizia: «Unde quando fuit datum Constantino occidentale patrimonium ecclesie, facta est vox de celo "Hodie infusum est venenum ecclesie Dei"» (BNF, Conv. soppr. G 4.856, f. 49va; codice di provenienza da S. Maria Novella: Cf. POMARO, Censimento I, 424-25).

Nel contesto dunque della pace cittadina da procurare a tutti i costi, anche a spese delle proprietà ecclesiastiche, il c. 5 del De bono pacis cita due volte la collezione canonica del Liber sextus decretalium promulgato da Bonifacio VIII il 3 marzo 1298, cui fa ricorso l’obiettante (per i dettagli testuali e le referenze si vedano le note al testo). Al che si risponde che «papa Benedictus XI modificat illam decretalem in constitutione sua que incipit Quod olim». La Quod olim fu emanata dal papa domenicano Benedetto XI a Perugia il 12 maggio 1304 e sarà introdotta soltanto nella tardiva collezione canonica Extravagantes communes. Il De bono pacis beneficia della data di promulgazione della Quod olim quale solidissimo termine post quem. Ma si noti la formulazione: «papa Benedictus XI modificat». Il verbo è al presente. Inoltre nessuna formula reverenziale - di prammatica nell’ars dictaminis e sotto la penna del medievale - insinua che papa Benedetto sia già morto. Bisognerebbe trovare e provare consapevole intenzione dell’autore per spiegare altrimenti questa deroga alla legge d’assuefazione del formulario. Nel capitolo provinciale dei domenicani tenuto in Città di Castello settembre 1304, il vicario della provincia Romana invia ai frati una lettera che inizia: «Ego fr. Petrus de Urbeveteri procurator ordinis et vicarius Romane provincie ordinis fratrum Predicatorum de diffinitorum provincialis capituli consilio et assensu, iuxta constitutionem editam a felicis recordationis domino Benedicto papa XI...». E così ci si esprimerà ancora nel 1306 e 1307 (MOPH XX, 151/15-18, 163-64, 167/23-26 «contra sancte memorie dominum Benedictum»). Papa Benedetto era morto in Perugia il 7 luglio 1304. «A felicis recordationis... »: non avremmo dovuto imbatterci in questa o simile formula («bone memorie...» ecc.) se Remigio avesse scritto dopo la morte di papa Benedetto?

■ Il capitolo di Città di Castello era stato convocato «in festo Exaltationis sancte Crucis» (14 sett.): MOPH XX, XX, 148. Capitolo provinciale di Siena 1306: «Ego fr. Petrus Urbevetanus, prior provincialis fratrum ordinis Predicatorum Romane provincie, de diffinitorum provincíalis capitoli consilio et assenso iuxta constitutionem editam a felicis recordationis domino Benedicto papa xi eligo... » (ib. XX, 163-64). Capitolo provinciale di Foligno 1307: «Committimus vicario Eugubino quod diligenter inquirat si fr. Gabriel supprior Eugubinus contra sancte memorie dominum Benedictum papam inordinata verba protulerit...» (ib. XX, 167).

Sempre nel c. 5 del De bono pacis si citano due brani di testi liturgici estratti dalla colletta (o orazione) che i frati recitavano e nella messa e nell’ufficio delle ore. Entrambi sono introdotti non da chi cita una fonte scritta, ché allora ci si attendeva l’indicazione dell’incipit-titolo com’è d’uso nel testo dell’Ordinarium, ma da chi attinge alla propria memoria. Un brano liturgico - e le collette in specie a motivo della loro ciclica ricorrenza - non ha bisogno di controllo libresco sotto la penna d’un ecclesiastico. Per la medesima ragione la citazione non potrebb’essere, certo, imprudentemente invocata a fissare una data entro l’anno liturgico. Ma nel nostro caso concorrono due circostanze che dissuadono dal licenziare senza dibattito la probabile indicazione cronologica della memoria liturgica: le collette citate sono due, non una soltanto; inoltre esse si susseguono a pochi giorni di distanza nel calendario liturgico. La prima Deus qui apostolis, da cui è tratto il brano «quibus dedisti fidem largiaris et pacem», era recitata e nella messa e nell’ufficio del lunedì dopo Pentecoste, la seconda Da quesumus ecclesie, da cui è tratto «ecclesia tua Spiritu sancto congregata bostili nullatenus incursione turbetur», era recitata e nella messa e nell’ufficio del venerdì della Quattro tempora di Pentecoste, della settimana cioè che segue immediatamente la Pentecoste. È veramente del tutto improbabile che la memoria liturgica, rinfrescata dalla celebrazione in corso, provvedesse a Remigio due testi eccellentemente in tono col trattato che stava componendo? che preghiera e studio, coro e cella congiurassero nella medesima ansia apostolica di contribuire a porre fine alla violenza che devastava la città?

La morte di Benedetto XI (7 luglio 1304) quale termine ante quem del De bono pacis non ha a suo favore ragioni così perentorie come la posteriorità del trattato alla Quod olim del 12 maggio 1304. Ma, come vedremo subito, la proposta di pacificazione e il tono di speranza del De bono pacis soppongono una situazione politica ancora aperta, in cui cioè le possibilità di mediazione e d’intesa tra le opposte fazioni non fossero definitivamente tramontate. Così non era dopo il 20 luglio 1304, data del più consistente tentativo militare dei bianchi di rientrare in città con le armi; e non lo era dopo la morte di Benedetto XI. Il De bono pacis, composto dopo il 12 maggio 1304, può difficilmente aver senso dopo i primi di luglio del medesimo anno. Allora anche i fragili indizi cronologici della memoria liturgica potrebbero rivendicare qualche valore. Ricordiamo che nel 1304 il lunedi dopo Pentecoste (colletta Deus qui apostolis) cadeva il 18 maggio e il venerdì delle Quattro tempora di Pentecoste (colletta Da quesumus ecclesie) il 22 maggio.

Riprendiamo il nocciolo della proposta avanzata nella proposizione iniziale del trattato. Non ci si può sottrarre dal pensare a una forma di lodo, stratagemma giuridico usatissimo dai litiganti medievali, ufficialmente rogato dal notaio. Le parti possono esser persone o comunità (universitates); queste rimettono la materia del contendere nelle mani d’un arbitro di comune fiducia e si obbligano sotto pena pecuniaria a osservare la sentenza. Il lodo fu la forma legale che concluse la pace tra guelfi e ghibellini nel 1280 sotto l’arbitraggio del legato papale fr. Latino d’Angelo Malabranca. Nel De bono pacis sembra invece che la competenza del condono spetti alle civitates o comunitates, cioè alle autorità pubbliche. E si assume che la pacificazione possa esser concordata anche senza l’assenso «omnium personarum particularium illius civitatis», anzi «contra voluntatem aliquarum personarum passatum iuniurias et dampna» cioè nonostante la renitenza delle parti lese.

Si noti il particolare risultante dall’apparato critico; il testo era: «... immo contra voluntatem aliquarum personarum etiam ecclesiasticarum»; l’aggiunta marginale di mano B, dell’autore Remigio, formula il testo: «... immo contra voluntatem aliquarum personarum passarum iniurias et dampna etiam ecclesiasticarum». Non vi sono cadenze omeoteleutiche; ma si danno anche omissioni di copia non riconducibili all’omeoteleuto. Data la natura dell’integrazione (il testo tiene anche senza la giunta), sarei più propenso a vedervi non la restituzione di un’omissione di copia (di testo cioè presente nell’esemplare trascritto dal copista) ma di vera giunta d’autore mirante a sottrarre la frase finale ad ogni equivoco.

Se è soltanto questo che Remigio intende, la sua proposta sarebbe indipendente dall’intervento papale. Ma come rimetter le speranze di riconciliazione nelle mani delle autorità pubbliche della città se nelle strutture del potere politico si erano insediati - prevaricando e manomettendo - proprio quelli (la fazione nera) che avevano ordinato condanne espropri guasti? e come prevedere la pacifica ricomposizione dei condannati sbanditi espropriati se a costoro si fosse detto che a dettare le condizioni di pace sarebbero stati gli stessi che li avevano sopraffatti? Se non vogliamo attribuire a Remigio una simile ingenuità (incredibile per lui fiorentino conoscitore delle cose di città e appartenente a una famiglia immersa fino al collo, come vedremo, in quelle stesse vicende), è giocoforza pensare che la proposta del De bono pacis sia inscindibilmente funzionale alla mediazione di Benedetto XI e alla legazione fiorentina di fr. Niccolò da Prato. Lo impongono del resto gl’intrecci temporali, le convergenze di massima e la prossimità di Remigio alla curia papale di Perugia.

Il terzo libro della Cronica di Dino Compagni inizia:

«Nostro Signore Iddio, il quale a tutte le cose provede, volendo ristorare il mondo di buono pastore, provide alla necessità de’ cristiani. Perché chiamato fu nella sedia di san Piero papa Benedetto, nato di Trevigi, frate Predicatore e priore generale, uomo di pochi parenti e di picciolo sangue, constante e onesto, discreto e santo».

Il tono tradisce il personale fervore di guelfo bianco che era Dino; il quale aggiunge subito che, creato cardinale fr. Niccolò da Prato - «di piccioli parenti ma di progenie ghibellina» - «molto si rallegrorono i Ghibellini e’ Bianchi; e tanto procurorono che papa Benedetto il mandò paciaro in Toscana».

Le ascendenze “ghibelline” di Niccolò da Prato hanno a loro favore fragilissimi indizi; forse niente più che quest’affermazione del Compagni (parallela a quella di Villani IX, 69, 13-14, e Albertino Mussato) e quanto gli si rimproverava in Firenze: di lavorare al rientro dei guelfì bianchi, che in più occasioni si erano coalizzati con ghibellini estromessi da lunga data per forzare le porte della città. A inizio Trecento “ghibellino” aveva un evidente uso strumentale e poteva valere poco più che “partito avverso”.

Quanto alla famiglia di Niccolò non sappiamo nulla delle sue ascendenze dirette; ghibellino fu un suo «avunculus» (zio per parte di madre), Chiericone di mr Iacopo dei Bolsinghi (V. Fineschi, Supplemento alla vita del cardinale Niccolò da Prato religioso domenicano, Lucca 1758 - stampato anonimamente in Livorno 1757 - p. 15; in BiblDom IV.2.1, già IV.i.1, già IV.334).

Di Niccolò conosciamo la sorella Gente, il cognato Albertino da Prato, e quattro figli di costoro: Stefano, Iacopo, Fenzio e Simona (Fineschi, Supplemento 4-11, 46-47, 56-57; HC I, 171 nn. 7-8; DBI I, 692-93; il nome di Simona in MOPH XX, 214/23, a. 1318).

Firenze 12.IX.1314: «Guccius Melanensis de Prato procurator reverende domine domine Gentis, uxoris olim Albertini de Prato et sororis carnalis venerabilis patris et domini domini Nicolai divina providentia ostiensis et velletrensis episcopi cardinalis, et Stephani filii dictorum Albertini et domine Gentis, ut de procura patet publico instrumento scripto manu Accursi de Prato condam Ubaldini notarii die primo mensis iulii proxime preteriti, procuratorio nomine pro eis confessus fuit se babuisse et recepisse et habuit et recepit ibidem et in presenti a Benghio Cini d. Iacobi de Bardis illos ducentos florenos auri quos recipere et habere debebat ab eo ex causa cambii et per licteras Cini factoris dicti Benghi et etiam per licteras d. Raynerii patriensis archiepiscopi filii olim Iacobi de Prato, de quibus se pro eis a dicto Benghio vocavit bene pacatum etc.» (ASF, Notar. antecos. 2964, già B 1950, f. 151r).

Per Ranieri del fu Iacopo da Prato, arcivescovo di Patrasso, cf. G. FEDALTO, La chiesa latina in oriente, vol. II Hierarchia latina orientalis, Verona 1976, 191.

Una lettera di Gente alle autorità di Prato, non datata, è edita da G. GIANI in «Archivio Storico Pratese» 1 (1916) 168. Con lettera data a Pisa 28.IX.[1298], fr. Niccolò «prior provincialis» raccomanda un suo fratello (innominato) a Ruggeri del fu mr Buondelmonte dei Buondelmonti abate di Vallombrosa (ASF, Dipl. Badia di Passignano sotto la data 28.1X.1310).

I nomi di famiglia o casato attribuiti di volta in volta a Niccolò (Ubertini, Albertini, Alberti, Martini, Levaldini) sono frutto di confusione e di tardiva elaborazione; «de Albertinis» è testimoniato per messer Fenzio di Albertino a metà XIV secolo in diplomi imperiali (Fineschi, Supplemento 6-11), da interpretare come formazione del nome gentilizio sul patronimico, e da costui (detto «d. Fentius q. Albertini  nel testamento del cardinale) trasferito indebitamente a Niccolò. Il documento qui sopra trascritto dimostra che Fenzio era nipote di Niccolò per parte della sorella Gente e che Albertino (senza titolo alcuno) non era che il nome del cognato del cardinale.

Nessuna testimonianza che Niccolò abbia studiato a Parigi o lasciato degli scritti, come si tramanda nelle biografie del cardinale (SOPMÆ IV, 211-12).

Distingui: Niccolò dei Bolsinghi da Prato OP († 1380 ca.), di ceppo consortile rifugiatosi in Pisa, maestro in teologia, dalla carriera eminentemente professorale. «Predicavit optime, legit egregie, disputavit acerime, sermocinabatur plurimum gratiose» (Pisa, Biblioteca Cateriniana 78, f. 34r).

In realtà la morte di Bonifacio VIII (11 ottobre 1303) e l’elezione di Benedetto XI (22 ottobre 1303) ponevano oggettivamente condizioni nuove per una mediazione papale in Firenze. Inoltre la sopravvenuta rottura della ristretta oligarchia nera tra la fazione di Rosso della Tosa e quella di Corso dei Donati, nonché le violenze seguìte in febbraio 1304, indebolivano l’egemonia interna e rendevano la situazione politica della città più propizia all’intervento papale. Niccolò da Prato, nominato legato il 31 gennaio 1304, entrò a Firenze il 2 marzo. La cronistoria della legazione, dalla gran festa di pace di domenica 26 aprile in piazza Santa Maria Novella ai fatti di Prato e al finale insuccesso, quando «temendo si partì [da Firenze] a dì viiii di giugno, lasciando la terra in male stato» (Compagni III,7; 10 giugno per Pieri, Cronica, ed. A.F. Adami, Roma 1755, 79; 4 giugno per Villani IX, 69, 110) dopo aver lanciato l’interdetto contro Firenze e rinnovato quello contro Prato, la si può leggere in Davidsohn sulla scorta dei cronisti fiorentini.

Davidsohn IV, 369 ss; importante anche la lettera Rex pacificus, 21.VI.1304, dello stesso papa Benedetto, Le registre de Benoit XI, ed. Ch. Grandjean, Parigi 1905, n° 1278, coll. 801-06.

Soffermiamoci su quanto potrebbe illustrare il De bono pacis di Remigio.

Nella Transiturus (31 gennaio 1304), lettera di nomina del legato, papa Benedetto mette la pace al centro del suo proposito pastorale: il Signore Gesù lasciò in testamento ai discepoli la pace, bene supremo; e a far opera di pace tra i cuori discordi devono mirare le nostre opere e lo stesso ministero apostolico.

Laterano 31.I.1304: «Transiturus ad Patrem Dominus de hoc mundo hereditatem pacis suis legavit discipulis testamento dicens “Pacem relinquo vobis, pacem meam do vobis” [Io. 14,27]; hec verbo in ultimo quasi proponens ut verbum pacis quasi in omnibus altius figeretur et prebere deberemus operas efficaces que inter discordes pacis vinculum reformarent. (…) Curam pacis precipuam reputamus...; ut fiat pax in diebus nostris et sancta mater ecclesia ex nostri ministerii studio, divini consilii substentatione suffulto, in sui fidelibus possideat locum pacis que exuperat omnem sensum» (ASF, Dipl. S. Maria Novella 31.I.1304; sotto questa segnatura d’archivio sono conservate sei pergamene tutte datate Laterano 31.I.1304 e tutte attinenti alla nomina del legato; tre di esse contengono la Transiturus).

In marzo-aprile 1304 Firenze rimette al papa la nomina del podestà per il secondo semestre. Il podestà era la magistratura suprema della repubblica fiorentina, garante delle pubbliche istituzioni, con potere giudiziario prevalentemente in campo civile; doveva essere, di diritto, forestiero. Solo poco tempo prima sarebbe stato impensabile che i fiorentini rinunciassero a tale diritto a favore di Bonifacio VIII, alla cui intrusione nelle cose di città avevano apertamente resistito un Dante e un Lapo dei Salterelli suscitando le ire del papa. Il 10 maggio 1304 Benedetto XI presenta una quaterna di nomi (di fatto nessuno dei candidati accetterà la carica podestarile), ma approfitta per sviluppare il tema della pace già introdotto nella Transiturus. Senza la pace - scrive il papa - non è possibile istaurare la giustizia; e là dove questa non sia stata istaurata, la libertà rischia d’esser parola vana; ben lo sapete voi fiorentini, lo sperimentate anzi a vostre spese.

Monterosi (Viterbo) 10.V.1304: «Sine pace enim non erit iustitia, quia, sicut scriptum est, "Iustitia et pax copulate sunt et leges siluere coacte"; et absque iustitia, prout scitis et pro dolor estis experti, in libertate, quam super omnia mundana vobis si boni estis debetis defendere, non sistetis» (Le registre de Benoît XI, ed. cit. n° 1316, col. 825; testo intero coll. 824-25; originale in ASF, S. Maria Novella ad annum).

Remigio nel quarto sermone ai priori cittadini, Potestas et terror  (molto verosimilmente di luglio 1295) aveva detto: «Instinctu diabolico vel divino iudicio maxima videtur esse discordia in hac civitate, de quo summe gemendum est nobis quia cum discordia nullum potest esse bonum in civitate, cum concordia - que nichil aliud est quam unio vel coniunctio cordium idest voluntatum ad idem volendum - sit summum bonum civitatis»; e poco sotto: «Concordie reparatorem instrumentalem ostendit esse virtutem et iustitiam nostram...; et ista est que reparat concordiam, iuxta illud Ysa. 32[,17] "Erit opus iustitie pax". Sine iustitia enim nulla civitas potest bene vel in corcordia regi, sicut domus non potest sine ruitione diu subsistere que male fundata est» (cod. G4, f. 355vb e f. 356ra). Altrove: «Et nota quod pax nascitur ex medio iustitie, Ysa. 32[,17], et securitas ex pace, Ysa. 32[,18]» (cod. D, f. 144va). Luogo proprio dell’esercizio della giustizia è la città: Contra falsos 49, 66-80 (ed. cit. pp. 142-43). Ben nota la provvisione fiorentina del 6.VIII.1289: «Cum libertas, qua cuiusque voluntas non ex alieno sed ex proprio dependet arbitrio, iure naturali multipliciter decoretur, qua etiam civitates et populi ab oppressionibus defenduntur et ipsorum iura tuentur et augentur in melius, volentes ipsam et eius species non solum manutenere sed etiam augmentare... » (in Salvemini, Magnati e popolani 125).

In quei giorni il legato Niccolò era a Prato dove contava di sostituire gli Otto, il podestà e il capitano con elementi più favorevoli ad un compromesso con i fuorusciti. La congiura di Corso dei Donati con i neri di Lucca e con i pratesi avversi a tale operazione fece fallire il tentativo del legato e gettò Prato in una vampata di violenza, cosicché Niccolò, temendo per la sua vita, «si fuggi ad modo di sconfitta e tornò in Firenze» (Pieri, Cronica 78/14-15). All’ingiuria subìta dal legato, il papa reagisce con un’indignata lettera Perugia 29 maggio 304.

Perugia, 29.V.1304 (Le registre de Benoît XI, n° 1322, coll. 827-28. Vi si dice tra l'altro: «Et si vos amor rei publice vestre non excitet, debuerunt tamen et debent vestra pericula, que vobis in eorum victoria imminent, excitare. Creditis forsitan sub servitutis jugo paucorum, qui vos lacerant vosque devorant sicut escam panis, quibusque sua quia modica sunt displicent et aliena placent, tuti vivere? creditis sub hiis, quibus omnia per injuriam facere in libidine est, in quiete morari? Desipitis si sic sapitis. Si vincant, eorum eritis preda» (coll. 827-28). Originale in ASF, S. Maria Novella ad annum.

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