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2. «De bono comuni». Si non est civis non est homo

Il lettore che passa dal De bono pacis al De bono comuni, o viceversa, può difficilmente sottrarsi all’immediata impressione d’esser davanti a due scritti intimamente connessi. Il bene comune della città prevale sul bene particolare, in definitiva sul bene del singolo cittadino, come il tutto sulla parte. Questa non sussiste se non nel tutto. Distrutta la città, non esiste cittadino. E l’uomo non è tale se non è cittadino: «si non est civis non est bomo» (De bono comuni 9, 80-81). Là dove la disgregazione sociale e politica spinge la città sull’orlo della distruzione (il caso di Firenze nel De bono comuni è esplicitamente e dolorosamente invocato), s’impone ogni tentativo di ritessere la trama della convivenza sociale; anche a prezzo di dolorosi sacrifici individuali; anche se la pacificazione deve passare, nel caso specifico, attraverso il sorprendente condono della spoliazione degli avversari politici. Il medesimo intreccio invade l’uno e l’altro trattato. Nel De bono comuni per asserire il primato del sociale, nel De bono pacis per trarne conseguenze risolutive - si presumeva - d’una specifica proposta di riconciliazione cittadina. Dal bene comune al bene del comune. Del comune di Firenze. Le transizioni concettuali e filologiche non potevano avvenire che nel sostrato geografico-politico dei comuni italiani. L’aggettivo “comune” s’era sostantivato sulle città-stato già dalla seconda metà del XII secolo. Remigio intreccia «bonum comune» con «bonum comunis»; risolve anzi il primo nel secondo. Firenze offre supporto politico al trapasso semantico (v. De bono comuni 9, 80-81n).

■ O. BANTI, "Civitas" e "Comune" nelle fonti italiane del secolo XI e XII, «Critica storica» 9/4 (1972) 568-84. Recente sintesi sulla formazione del governo comunale: G. TABACCO, Egemonie sociali e strutture di potere nel medioevo italiano c. 5, Torino 1979, 226 ss. Si configura di conseguenza il nuovo ruolo del civis: W. ULLMANN, Individuo e società nel medioevo c. 3 (L'affermarsi del cittadino), Bari 1974, 85 ss. Il sapere giuridico tenta di validare il nuovo soggetto politico, comune e sue magistrature, entro la razionalizzazione del processo del potere politico valido: P. COSTA, Iurisdictio. Semantica del potere politico nella pubblicistica medievale (1100-1433), Milano 1969, 184-223, riprodotto in AA.VV., Il pensiero politico del basso medioevo, a c. di C. Dolcini, Bologna 1983, 157-92.

Questa introduzione mira più a ricostruire la storia cittadina sottesa ai due trattati che a commentare gli esiti di filosofia politica concentrati nel De bono comuni e sfruttati nel De bono pacis. Le note all’edizione delle due opere integrano gli ausili d’interpretazione testuale. Ma non si concede alcunché all’iperbole se si asserisce che i due trattati del frate fiorentino sono di straordinario interesse. Perché raccogliendo - e sviluppando in più punti - l’eredità dell’elaborazione teorica della grande scolastica nutrita dalla Politica d’Aristotele, Remigio risulta l’unico rappresentante della cultura della scuola che applichi in modo sistematico il sapere politico di matrice aristotelica alla realtà del comune. Certamente sono le opere più originali della vasta produzione letteraria del frate fiorentino. Un’originalità che si colloca nello spazio culturale che intercorre tra le robuste costruzioni di teoria politica, quali - per intenderci - le più rappresentative d’un Tommaso d’Aquino e d’un Egidio Romano, e i numerosi trattati precettivi sul reggimento comunale fioriti in Italia nella seconda metà del Dugento (cf. A. Sorbelli, I teorici del Reggimento comunale, «Bullettino dell’Istituto Storico Italiano per il Medio Evo» 59 (1944) 31-136). Inoltre le due opere di Remigio testimoniano un felicissimo raccordo tra rigore dell’impianto scolastico e istanza della prossimità, quasi spontanea, alla cronaca politica della città, quella della Firenze d’inizio Trecento. Il tedio del particolare e dell’effimero non ha ancora sospinto l’uomo della scuola alla partenogenesi delle idee.

Diamo uno sguardo all’articolazione interna del De bono comuni.

Tesi

bonum comune preferendum est bono particulari, et bonum multitudinis bono unius singularis persone

declaratur  
auctoritate a)  sacre scripture et sanctorum (c. 1)
b) infidelium (c. 2)
exemplis a)  in creaturis habentium solum amorem naturalem (c. 3)
b) in habentibus amorem etiam animalem (c. 4)
c) in habentibus amorem etiam rationalem:
   1. exempla infidelium secundum virtutem politicam quantum ad bona exteriora, quantum ad bona membrorum corporis, quantum ad bonum corporalis vite in personis coniunctis, quantum ad bonum corporale vite proprie (c. 5)
  
2. exempla fidelium veteris (c. 6) et novi testamenti (c. 7)
  
3. exempla de sanctis extra canonem: papa, archiepiscopo, episcopo, laico (c. 8)
ratione a) ex parte obiecti amati: bonum, pulcrum, esse, Deus, beatitudo (c. 9)
b)  ex parte subiecti idest bominum amantium (c. 10)
c)   ex parte causarum amoris: sine qua non, idest cognitionis (c. 11); que movent homines ad amandum: 1. virtus (c. 12)  2. corporalis delectabilitas (c. 13)  3. temporalis utilitas (c. 14)  4. similitudo (c. 15)
d) ex parte effectuum amoris: l. unio amantis cum amato  2. inhesio  3. extasis  4. çelus  5. conservatio amantis (c. 16)
c) ex parte signorum amoris: 1. inspectio  2. obeditio 3 . laboris toleratio  4. elargitio (c. 17)
obiectiones

a) contra predeterminata (c. 18)
b) contra rationes inductas quantum ad obiectum (c. 19), ad subiectum (c. 20), ad causas (c. 21)
- dimittuntur obiectiones ex effectibus et signis

Il più breve trattato De bono pacis, orientato a sostenere il contenuto specifico della proposta di pace, ha un’articolazione meno complessa. La liceità etico-giuridica della proposta è provata («videtur posse probari»):

videtur posse probari

auctoritate

ratione

philosophie ex parte Dei (c. 2)
sacre scripture ex parte mundi (c. 3)
sanctorum  ex parte hominis (c. 4)
iuris canonici  ex parte ecelesie catholice (c. 5)
iuris civilis (c. 1) ex parte cause que est finis (c. 6)
  ex parte persone presidentis (c. 7)

obiezioni e relative risposte sono inserite nella sezione delle prove «ex ratione»

Nessun rimando esplicito (e frequenti in Remigio sono i rimandi ai propri scritti) rinvia dall’uno all’altro trattato. Entrambi sono redazionalmente compiuti. Eppure la forza teorica del De bono comuni si riversa nel De bono pacis. Se in quest’ultimo (1, 15-17; 4, 2-5) il sintetico richiamo alla «divina» eccellenza della polis sul cittadino di Ethica I, 1 e le contigue autorità Ethica VIII, 14 e Politica I, 2 sulla socialità dell’uomo richiamano medesime tesi e medesime autorità in De bono comuni 2, 2-5 e 9, 80-82, altrove almeno quattro brani paralleli offrono peculiarità testuali tali da richiamare l’attenzione.

 De bono pacisDe bono comuni
1

1, 22-29

2, 18-32

21, 30-371, 18-34
3 1, 38-421, 34-39
43, 26-479, 51-82

Nel brano n° 1 tre citazioni di Cicerone nel De bono pacis si ritrovano tra le sei del De bono comuni; in entrambi i trattati hanno la funzione di provare la preminenza del bene pubblico su quello privato e si adattano alle specifiche tesi delle due opere. In n° 2 (prove dalla sacra scrittura) due autorità bibliche, II Mach. 4, 4-6 e Io. 11, 50, del De bono pacis si ritrovano fra le quattro dell’altro trattato; sorprende il fatto che le esplicitazioni che in quest’ultimo fanno seguito a II Mach. 4, 4-6 e a II Mach. ult., entrambe sulla pace, non compaiono nel De bono pacis. In n° 3 (autorità dei santi) ambedue i trattati traggono conveniente argomento dal commento della Regula di sant’Agostino a I Cor. 13, 5; ma poi De bono pacis cita un testo del De civitate Dei confacente al tema specifico della pace e De bono comuni cita un adagio boeziano sul bene comune. In n° 4 il De bono comuni tocca la fondazione metafisica della propria tesi. L’essere è il culmine di quanto per natura è oggetto d’amore e d’elezione; nessuno potrebbe volere il non essere (autorità d’Aristotele e d’Agostino). Dal che la tesi risulta provata in due istanze subordinate. Prima: il tutto ha più essere della parte poiché quel che si dà in atto è il tutto, mentre la parte non è che componente potenziale del tutto; e sappiamo che l’essere per sé è atto, mentre la potenza è essere relativo (si citano due autorità della Physica). Seconda: l’essere della parte dipende dall’essere del tutto; né si predica la parte fuori e nel tutto se non in senso equivoco, così come equivoca è la predicazione della mano recisa, non più abile a porre operazioni proprie della mano unita al corpo. Il brano parallelo del De bono pacis parte con l’asserto che l’essere e il bene della parte in quanto tale dipendono dall’essere e dal bene del tutto poiché la parte non è predicata allo stesso modo quando nel tutto e quando separata. L’asserto è proclamato e dato per scontato. E non soltanto si cumulano in un solo asserto le due categorie di essere e di bene e si sorvola sui trapassi intermedi delle due istanze argomentative, ma si tralascia qualsiasi bisogno di prova: quella della precedenza ontologica dell’essere e quella basata sulla distinzione tra essere in atto ed essere in potenza, proprie del De bono comuni; sono sacrificate di conseguenza le prime quattro autorità di quest’ultimo. I testi si ricongiungono da «Pars enim extra totum existens non est pars...» sull’esempio della mano recisa e procedono poi nel lungo brano identico, fino a «Ut qui erat civis fiorentinus... » testo proprio del De bono comuni.

Il lungo brano identico entro il n° 4 prova almeno un punto: quando l’autore componeva un trattato aveva sottomano e utilizzava il testo dell’altro. Ma quale dei due ha servito la composizione dell’altro? Che equivale a domandarsi quale dei due sia anteriore.

Tenuto conto delle caratteristiche generali dei due trattati (più teorico, più scolasticamente strutturato, più ampiamente documentato il De bono comuni, più breve nel testo e più circoscritto nel soggetto il De bono pacis) e dell’interrelazione concettuale (fondamenti di teoria politica nel De bono comuni e applicazione al caso concreto nel De bono pacis), la collazione redazionale fra i quattro brani paralleli invita a pensare che sia il De bono pacis a utilizzare princìpi stabiliti nel De bono comuni, a richiamare per sommi capi argomentazioni, a selezionare autorità che diano autorevolezza teorica alla proposta di pacificazione, sulla quale segnatamente verte il De bono pacis. Così fa pensare soprattutto il brano parallelo n° 4 in cui appare molto più probabile una redazione che passi da quella del De bono comuni a quella del De bono pacis che non viceversa (ma, a rigore, il caso contrario, sebbene a mio giudizio meno probabile, non è impossibile). Inoltre anche la distribuzione interna del materiale insinua la priorità del De bono comuni; qui a fine trattato (c. 21, 38-42) l’autore prospetta un altro possibile ordine di procedimento, più congruo a illustrare la verità e più efficace a muovere il consenso: che la sezione degli argomenti di ragione preceda quella degli esempi, o che gli argomenti contro la tesi facciano subito seguito agli argomenti a favore («vel primo rationes secundo contra obiectiones»). È appunto il procedimento adottato nel De bono pacis, in cui le obiezioni sono introdotte dopo ciascun argomento a favore.

Nel c. 8 del De bono comuni la tesi è illustrata con esempi di santi fuori del canone della sacra scrittura. Se ne scelgono quattro che, significativamente, rappresentano le componenti della chiesa, l’ordo clericorum e l’ordo laicorum, secondo le categorie care al medievale: un papa, un arcivescovo, un vescovo (san Leone, san Tommaso da Canterbury, san Lupo) del primo ordine, e san Luigi re di Francia dell’ordine dei laici. Luigi IX fu canonizzato da Bonifacio VIII in agosto 1297, durante l’interstizio delle due fasi di conflitto tra il papa e Filippo IV il Bello, nipote di Luigi IX; e non senza l’intento d’un segno di distensione, che peraltro non maturò in ricomposizione tra i due litiganti. La canonizzazione di Luigi IX, così come la Quod olim di maggio 1304 per il De bono pacis, è il solidissimo termine post quem del De bono comuni.

Testi su Luigi IX nelle opere di Remigio: 1) Sermone ottavo De pace: «Exemplum de Ludovico rege Francorum qui asserebat pacem esse in regno suo propter elemosinas quas faciebat» (cod. G4, f. 359vb: ed. in Appendice); in margine mano B aggiunge «sancto» trasformando in «de sancto Ludovico». Medesimo sermone in cod. G4, ff. 78vb-79rb, senza la giunta marginale «sancto». 2) Sequenza Almi regis Ludovici (cod. G4, ff. 406vb-407ra: ed. in G. SALVADORI, I sermoni d'occasione, le sequenze e i ritmi di Remigio Girolami Fiorentino, Roma 1901, 50) composta a canonizzazione avvenuta, probabilmente in occasione della stessa canonizzazione, quando l'ordine domenicano elaborava la liturgia del nuovo santo (MOPH IlI, 289, 296, 302). 3) Sermone (unico) su san Luigi, Ludam et vilior fiam (cod. D, f. 272rb-va). 4) Sermone sui santi Cosma e Damiano, Nos reliquimus omnia (cod. D, ff. 301vb-306va): «Corporalia et temporalia et intellectualia et spiritualia et supercelestia et divina et Deus ipse per pecuniam habentur. Corporalia in quantum et quantum ad victum et quantum ad vestitum et quantum ad ornatum et quantum ad habitaculum et quantum ad delectamentum secundum omnes sensus corporeos et omnino quantum ad vitam contra omne periculum; puta si sit accusatus de aliquo fore facto, ut Iugurta, si sit captus in bello, ut sanctus Ludovicus» (f. 303va). 5) De bono comuni c. 8, 31-35.  6) De via paradisi IV, 25: «At contra sanctus Ludovicus medico persuadenti quod non ponere deberet aquam in vino propter senectutem respondit "Per nomen meum! Ego malo esse rex infirmus quam rex ebrus"» (cod. C, f. 273vb). Medesimo episodio riferito anche nel sermone in ricevimento di Carlo di Valois: «Unde avus istius sanctus Ludovicus dicitur respondisse...» (cod. G4, f. 353rb) trascritto integralmente più sotto in I§2.

Tra 1297 e 1300 Remigio era in Saint-Jacques di Parigi dove in qualità di baccelliere sentenziario commentava a scuola le Sentenze del Lombardo e attendeva agli altri atti accademici d’obbligo per conseguire il magistero in teologia. Non sappiamo quando Remigio rientrasse esattamente in Firenze (al termine dell'anno scolastico 1300?). Il sermone Induamur arma lucis di domenica I d’Avvento, che fa menzione del vescovo di Vicenza Rinaldo da Concorezzo legato papale in Francia da febbraio 1299 a fine 1300, ha due possibilità di datazione: o 29 novembre 1299 o 27 novembre 1300 (Note di biografia, AFP 54 (1984) 260). Ma se si tien conto che in novembre 1300 la legazione di Rinaldo volgeva al termine e il legato era sul punto di rientrare in Italia, mentre Remigio dice «multa bona fecit et ampliora facturus est» (cod. G4, f. 1r) - annuendo dunque ad ulteriori trattative legatizie - la prima datazione del sermone ha a suo favore molte più probabilità della seconda. In ogni modo Remigio, preso parte con fr. Tolomeo da Lucca al capitolo generale di Colonia maggio 1301, è certamente in Firenze a partire almeno da agosto del medesimo anno (Studio 216-18).

Note di biografia domenicana tra XIII e XIV secolo, AFP 54 (1984) 260. Rinaldo da Concorezzo non parti per la Francia se non dopo il 4.II.1299; rientrò in Italia probabilmente entro la fine del 1300; in gennaio 1301 era certamente a Roma: R. CARAVITA, Rinaldo da Concorezzo arcivescovo di Ravenna (1303-1321) al tempo di Dante, Firenze 1964, 30-31, 34. Si considerino inoltre i seguenti dati: il sermone Confide filia in cui Remigio fa menzione della sepoltura di fr. Lorenzo d'Orléans è del 16.XI.1298 (Note di biografia..., art. cit. pp. 251-52); in quegli anni la lettura sentenziaria era ancora biennale, prima di diventare annuale; il biennio parigino di Remigio trova la più soddisfacente collocazione negli anni accademici 1298­1299, 1299-1300. Al termine dell'anno scolastico 1300 Remigio poteva lasciar Parigi e rientrare in Firenze. Niente si oppone positivamente a tale ricostruzione cronologica. Cf. Nuova cronologia remigiana, AFP 60 (1990) 210-212.

Riteniamo provvisoriamente, prima d’interpellare lo stesso De bono comuni, che questo trattato sia stato composto dopo il rientro di Remigio dalla Francia e prima del De bono pacis. L’obiezione che si affaccia in questa fase di ricerca potrebb’essere l’esplicito rimando del De bono comuni c. 19 ob. 3 al trattato Contra falsos ecclesie professores. Qui si era sostenuto che la vita solitaria e contemplativa è superiore a quella attiva o «civilis». Nel secondo trattato Remigio mette in bocca all’obiettante la tesi sostenuta nel Contra falsos. Come dare allora preferenza al bene comune, bene essenzialmente della comunità civile? L’uomo contemplativo - risponde Remigio - è quasi divino, come vuole Aristotele; ma la preminenza stabilita dalla vita contemplativa termina alla superiorità dell’amore per Dio sull’amore per il creato, non necessariamente alla superiorità dell’amore per il singolo sull’amore per il comune. Così il Remigio del De bono comuni. È fuori dubbio che il De bono comuni è posteriore al Contra lalsos. Ma quando fu composto quest’ultimo? (Studio 68-78; I quodlibeti, AFP 1983, 29 n. 73). Il primo dato esterno d’una certa consistenza sulla questione della datazione del Contra falsos è la collazione di brani comuni con Quolibet II; ne risulta che è quest’ultimo a utilizzare e a perfezionare il testo del primo. Quolibet II è stato disputato nel convento domenicano di Perugia quando qui risiedeva la curia romana, tra aprile 1304 e fine 1305, senza poter escludere positivamente gli anni successivi fino a luglio 1307 (I quodlibeti, AFP 1983, 27-29, 30-3l). Il Contra falsos, eccezion fatta per le sezioni dedicate al potere papale e all’etica della mercatura, è un grosso trattato allegorico il cui testo copre 169 colonne di fittissima scrittura gotico-libraria e 292 pagine d’edizione. Natura e scopo è fornire materiale allegorico che Remigio stesso e confratelli potessero utilizzare nella predicazione. Se l’impianto ricavabile dallo schema del trattato è d’estremo interesse, e per molti versi originale, la stesura (fatta eccezione per le sezioni già menzionate) termina a sistematici allegorismi che scienza ed arti prestano ai significati spirituali. In moltissime pagine si è di fronte a poco più che a liste di sensus e interpretationes dalle molteplici riprese allegoriche. Il predicatore in cerca d’ausili omiletici vi può attingere a due mani.

Natura del trattato ben colta da Ch.T. Davis in Pref. a ed. F. Tamburini, Roma 1981, pp. iii-xx. Citazioni dal Contra falsos sono date per n° di capitolo e righi di questa edizione. Significative le istruzioni di Remigio al «diligens lector» perché adatti o sviluppi: cf. Contra falsos 48,82-84; 48, 93-94; 92, 22-23; 95,78-80.

Vi attinge abbondantemente lo stesso Remigio per i propri sermoni. I seguenti esempi - e molti altri se ne troveranno nei voluminosi sermonari del frate fiorentino - sono sufficienti a illustrare in quale misura il materiale del Contra falsos servisse a confezionare sermoni. Data la quantità e la frammentarietà dei brani comuni tra sermoni e Contra falsos, non è pensabile che sia quest’ultimo a raccogliere brandelli sparsi nei sermonari e ricucirli in ordine organico; talune peculiarità testuali confermano che sono i sermoni ad attingere al trattato, e non viceversa.

Cod. G4 - Sesto sermone di domenica I dopo l’ottava dell’Epifania, Deficiente vino (ff. 24va-29rb). Il sermone saccheggia il Contra falsos nelle allegorie del vino sulle tre virtù teologali e quattro cardinali; molti brani sono ripresi letteralmente, talvolta con leggeri riadattamenti, e intessuti con brani propri del sermone. Si noti soltanto il brano che in Contra falsos 84,2-15 termina: «et Ro. 12 “Spe gaudentes”, et Glosa Iac. 1 “Spe illius boni ad quod tenditis quicquid in via contingat gaudere debetis”, unde et Philosophus dicit in III Ethicorum quod inebriati bene sperantes fiunt»; mentre nel sermone: «... et Ro. 12 “Spe gaudentes”, et Glosa Iac. 1 “Spe illius boni” etc.»; poi i testi riprendono insieme con «Sed tamen letificatio...» (Contra falsos 84,16 ss). Terzo sermone della feria terza di dom. I di Quaresima: si compendia Contra falsos cc. 62 ss sulla mercatura «licita, probibita, iussa et consulta» (ff. 62vb-63ra). Sesto sermone di dom. iv dopo la Trinità, Eadem quippe mensura: si utilizza con qualche variante Contra falsos 68,19 ss sulle frodi commerciali nei pesi e misure (f. 171ra-b), si danno definizioni della geometria, aritmetica, musica e astronomia che ricalcano quelle delle rispettive discipline del trattato. Sintomatico l’adattamento omiletico di Contra falsos 6, 38-41: «Secundum enim Alfagranum sol est maior terra centies sexagies septies et fractio, cum tamen luna sit trigesima nona pars terre, secundum eum, et fractio: et accipit a Ptholomeo in Almagesti libro V propositione 18»; nel sermone: «Et astronomia [docet] de mensura astrorum, scilicet quomodo luna est trigesima nona pars terre et sol est maior terra centies sexagies sexies et fractio» (f. 172rb). Il predicatore fa grazia alla buona gente dell’abracadabra degli alfagrani ed almagesti.

Cod. D - Quinto sermone sulla Pentecoste, Spiritus robustorum. Nel contesto dei diversi significati biblici della parola «spiritus» il sermone trascrive l’importante regola esegetica che pone fine a Contra falsos 99,23-37; e là dove quest’ultimo (99, 31-32) ha correttamente «et adducit tria exempla, duo de Evangelio et unum de Psalmo, scilicet de iudice iniquo...», il sermone tradisce un’evidentissima omissione di copia: «et adducit tria de Evangelio et unum de Psalmo, scilicet de iudice iniquo...» (f. 182va). Il sermone Ego quasi vitis fructificavi, tutto di mano B, aggiunto alla fine dei sermoni sulla Natività della beata Vergine (ff. 293v-289v, mg.), utilizza le allegorie sulla vite di Contra falsos cc. 78 ss. Il sermone ottavo sulla Dedicazione, Omnes eiecit de templo ritorna sulla «quadruplex negotiatio, scilicet licita, prohibita, iussa et consulta...» (f. 371rb-va) di Contra falsos cc. 62, 63, 74, 75. Il sermone ottavo sulla Natività della beata Vergine, Bene omnia fecit (ff. 284va-289rb) merita qualche attenzione in più. Quanto si legge a ff. 286r-289r è una vera riduzione a materia predicabile dell’allegorismo delle arti meccaniche, e attinge dal Contra falsos, oltreché la parte introduttiva alla sezione delle arti meccaniche di c. 46, i cc. 46, 49, 58, 76, 95, 96, 97, rispettivamente sulla vestitiva, armifactura, navigatio, agricultura, venatio, medicina, theatrica, adattando ovviamente all’atto omiletico; si tralasciano citazioni dotte, si saltano riferimenti che nel trattato rinviano ai capitoli precedenti, si sopprime o si adatta quanto nel trattato era orientato all’esclusiva simbologia ecclesiologica ecc.

Contra falsos 46, 9-31 (f. 286rb-va; e anche qui si ha «quadruvio»); 49, 4-12 (f. 287ra); 58, 5-9 (f. 287va); 76, 4-7 (f. 288ra); 95, 3-7 (f. 288vb, formulazione alquanto diversa); 96, 3-6 (f. 288vb; tralascia elementi dotti); 97, 3-6 (f. 289ra). A fine sermone una giunta di mano B dà l'istruzione: «Sed quoniam aliquando istud evangelium legitur infra octavam Assumptionis, potest hoc idem verbum ad eius Assumptionem octavaliter adaptari» (f. 289r, mg. inf.).

Un solo esempio: l’inciso «quas omnes [artes] diximus in ecclesia reperiri» di Contra lalsos 46,18-19, all’interno d’un lungo brano identico, è omesso nel sermone perché chiaramente funzionale al trattato che nei primi capitoli aveva asserito la presenza di tutte le arti nella chiesa. Fortunatamente il sermone porta con sé a chiare lettere la datazione. Leggiamo l’inizio: «Bene omnia fecit et surdos fecit audire et mutos loqui, Mr. 7 [,37] de evangelio hodierno; et tamen sollempniçamus octavas nativitatis Virginis gloriose que quidem, secundum representationem ecclesie, hesterna die nata fuit (…). Bene omnia fecit. Hoc verbum, quod dictum est singulariter de prole, absque dubio dici potest specialiter de matre, que quidem sicut tali die, computando non solum crastinam sed totam octavam pro una die vel sicut hesterna die, ipsa bene facta est sancta nascendo, ita hodie idest in sequenti tempore...» (f. 284va).

Mr. 7,31-37 è vangelo di domenica XII dopo la Trinità del calendario domenicano, corrispondente alla XIII dopo Pentecoste nel rito romano. Il sermone è stato predicato il 9 settembre («hodie»), quando il giorno precedente («hesterna die») era la festa della Natività (8 settembre). La concorrenza di tale domenica col 9 settembre, entro l’ottava della Natività, si dà negli anni 1207, 1291, 1302, 1375 (Pasqua 22 aprile). Il sermone Bene omnia fecit è del 9 settembre o dell’anno 1291 o del 1302. Il trattato Contra falsos era già composto almeno prima di settembre 1302.

Quando nei sermonari remigiani si accenna ad un tema o soggetto senza svolgerlo, ma altrove trattato sistematicamente, allora si fa esplicito rimando al luogo dove il lettore può trovare specifica trattazione. Tali rimandi sono del tipo: «quomodo [ecclesia catholica] sit magna vide in tractatu Contra falsos ecclesie professores». Ecco la lista completa dei rimandi espliciti al Contra falsos dalle opere di Remigio: cod. D, ff. 13v mg. inf., 87v mg. inf., 99v mg. s. (B), 115rb, 262vb; cod. G4, ff. 30va, 227vb, 303vb; De bono comuni 19 ob. 3. Un altro probabile rimando è quello di cod. G4, f. 8r, mg. sup. (B), dove si rinvia erroneamente a Speculum. In totale, computando anche quest'ultimo, 10 rimandi passivi, di cui 2 di mano B, contro un solo rimando attivo alla Divisio scientie (Contra falsos 1,33-35).

Anche l’unico sermone su san Luigi IX, canonizzato nel 1297, utilizza il materiale sul ludus di c. 97 del Contra lalsos dopo che Ludovicus èfatto derivare da ludus (cod. D, f. 272rb-va). Ma a ben considerare, il 1297 è l’anno della canonizzazione non necessariamente del sermone, sebbene si possa ragionevolmente pensare che Remigio, il quale mostra speciale devozione al santo re di Francia al punto da abbozzarne la sequenza liturgica (Almi regis Ludovici, cod. G4, ff. 406vb-407ra), non abbia atteso molti anni per celebrarne la ricorrenza nella predicazione. Ad ogni modo questi dati si ricongiungono sorprendentemente con quanto proposto a partire dall’analisi interna del trattato, segnatamente dei capitoli sul potere papale. Il dossier argomentativo di questa sezione non porta traccia dello sviluppo dottrinale e documentario dell’abbondante letteratuia fiorita durante il conflitto tra Bonifacio VIII e Filippo il Bello (1301-03); il trattato non cita l’Unam sanctam (1302) testo capitale sul soggetto; fa riferimento alla deposizione di Federico II con «ut tangit papa in sententia depositionis ipsius» (32, 17; cf. 12, 24-25) in un contesto di citazioni delle Decretali e Decreto, quando la bolla di condanna era stata inserita nella collezione canonica delle decretali Liber sextus pubblicata da Bonifacio VIII nel 1298. Si concludeva alla probabile anteriorità del Contra falsos all’Unam sanctam (1302) e allo stesso Liber sextus decretalium (1298).

Studio 70-77. Nessun teologo ignora le decretali quando tratta questioni attinenti al diritto. Remigio preferì tacere il Liber sextus e l’Unam sanctam per crearsi spazi di maggior libertà dottrinale? Viste talune posizioni dottrinali del Contra falsos, l’ipotesi potrebbe lusingare lo storico. Ma a parte il fatto che tacere le auctoritates specifiche delle decretali equivaleva a barare per un teologo e la cosa non passava inosservata ai trattatisti del fronte opposto, l’intenzionale reticenza di Remigio la si desume quando si è provato “aliunde” che il trattato è posteriore al 1302, ma non la si assume per datare il trattato dopo l’Unam sanctam.

Ultima annotazione: a fine d’ogni sezione dedicata alla singola disciplina il Contra falsos nega alla chiesa degli eretici (falsi ecclesie prolessores) quanto asserito della chiesa di Cristo. I riferimenti vanno quasi esclusivamente ai catari. È redibile che in Firenze a Trecento inoltrato Remigio si preoccupasse ancora dei catari? Nel 1304 e 1305 fr. Giordano da Pisa predica a Firenze: «Ma oggidì è bisogno di guardare da' mali maestri; non trovansene oggidì certo degli eretici, e di quelli che calunniano la fede, per la grazia di Dio, sette, e' sono oggidì quasi spenti e non se ne trova quasi nullo, almeno palese; ma non però di meno ci ha de' mali maestri in abbondanza» (Prediche, ed. D. Moreni, Firenze 1831, I, 172). «La chiesa, che già era disfatta, [santo Domenico] rifece e rinfrancò, e trassene ogne mala radice in tal modo che oggi non si trova nullo paterino o nullo eretico; e se alcuno n'è, si sta appiattato, ove uno ed ove un altro, non è quasi nullo; e se alcuno n'è preso, non sa che si dire, sì sono ispente tutte resìe» (ib. I, 239). Cf. MARIANO D'ALATRI, L'inquisizione francescana nell'Italia centrale nel secolo XIII, in «Collectanea franciscana» 23 (1953) 95-112; R. MANSELLI, L'eresia del male, Napoli 1963, c. 11 (Agonia e fine del catarismo); D. CORSI, Aspetti dell'inquisizione fiorentina del '200, in AA.VV., Eretici e ribelli del XIII e XIV secolo, Pistoia 1974, 65-91.

Tornando al caso del De bono comuni: il rimando di quest’ultimo al Contra falsos non solleva alcuna obiezione se il De bono comuni risultasse databile nei primissimi anni del Trecento.

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