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(III - Il contesto letterario)

8. I sermoni «De pace»

Nella sezione «de diversis materiis» di cod. G4 Remigio ha raccolto nove sermoni sotto la rubrica De pace (ff. 357rb-361rb). «Sermones de pace», dice la tabula autografa di fine codice, f. 409r. A motivo del loro interesse e delle molteplici connessioni coi due trattati politici, sono qui pubblicati in Appendice.

Al primo, Fiat pax in virtute tua (f. 357rb-vb), rimanda il secondo sermone della rubrica De processione che dà soltanto il tema: «II. Fiat pax in virtute tua. Ps. [121,7]. Require supra de pace» (f. 369ra).

Il secondo, Potestas et terror (f. 357vb), contiene soltanto il tema e rinvia al quarto sermone della rubrica Ad priores civitatis dal medesimo tema (ff. 355vb-356rb), risalente con tutta probabilità al luglio 1295 in connessione con gli addolcimenti inseriti negli Ordinamenti di giustizia in materia di legislazione antimagnatizia.

Il terzo, Habete in vobis sal (ff. 357vb-358ra) è diretto ai frati, e al termine offre anche uno schema alternativo.

Il quinto, Pax Dei que exuperat (f. 358va), termina: «Ego dimicto suppriorem vicarium meum etc.»; suppone pertanto il priorato fiorentino di Remigio, che tardive fonti collocano nell’anno 1314 (ma da confermare).

Il sesto, Qui posuit fines tuos (ff. 358va-359ra), è identico (anche nella lacuna in bianco: «Unde quia peccatum est privatio modi, specieí et ordinis, sicut dicit Augustinus  .  .  . ,  inde est quod... ») al dodicesimo sermone della rubrica De comunione, trascritto poco dopo a f. 367rb-vb. Il tredicesimo De comunione dà soltanto il tema: «Qui posuit fines tuos pacem ex adipe frumenti satiat te. Ps. [147,17]. Require supra de pace» (f. 367vb); il rimando deve mirare al quarto De pace, dal medesimo tema e con medesima variante «ex adipe» contro «et adipe» del sesto.

Il settimo, In pace sunt ea (f. 359ra-va), si ritrova quale ottavo della domenica III di Quaresima nel medesimo sermonario: «In pace sunt ea, vel omnia, que possidet. Luc. 11[,21]. Licet istud verbum... » (f. 78rb-vb); è in relazione al giorno in cui i frati ricevono l’eucaristia. Il versetto tematico è tratto da Luc. 11, 14-28, vangelo della liturgia della domenica III di Quaresima.

L’ottavo, Vade in pace (ff. 359va-360ra), è anche il nono della domenica III di Quaresima (ff. 78vb-79ra), ma il versetto tematico Mr. 5, 34 non è del vangelo di tale ricorrenza liturgica. In ambedue i luoghi inizia insolitamente: «Vel dic: Scriptum est Mr. 5 quod dixit Iesus ad mulierem sanguifluam duodecim annis Vade in pace et esto sana a plaga tua... ». Il riferimento a Luigi IX re di Francia dice «Et exemplum de Ludovico rege» a f. 79ra; «Exemplum [preceduto da Ex soppresso] de sancto Ludovico rege» in De pace VIII (f. 359vb), dove «sancto» è aggiunto in margine da mano B. L’assenza di «sancto» in prima scrittura in entrambi i testimoni non può invocare a spiegazione un incidente d’omissione occorso indipendentemente nel medesimo luogo in due distinti atti di trascrizione. Il sermone è anteriore alla canonizzazione (1297) di Luigi IX, e la giunta marginale «sancto» in De pace VIII non ripara un’omíssione di copia ma “aggiorna” il testo a canonizzazione avvenuta, più esattamente dopo la trascrizione (novembre 1314 - agosto 1315) di cod. G4. Al testo in De pace fa seguito una giunta marginale di mano B che richiama in acrostico le sillabi iniziali delle partizioni del sermone (f. 360r, mg. sup., B). Mentre al testo della domenica III di Quaresima fa seguito una giunta marginale di mano B d’altro tenore: «Item nota quod ad hoc quod sit perfecta pax tria exiguntur; totum enim et omne in tribus consistit, ut dicitur in I De celo. Et primum est ut sit intentio recta in tractatoribus, ut scilicet placeatur Deo et in bonum comunis. Secundum est ut sit obligatio solida et secura, ut scilicet si quis dederit impedimentum vel rumpimentum aliquod procuraverit, super caput ipsius solum et super nullum alium punitio et pena revertatur. Tertium est ut sit remissio seu absolutio plena seu integra, ut scilicet fiat integre de omnibus dampnis datis et acceptis sine omni salvo hoc vel illo, et sine omni determinatione seu restrictione temporis alícuius... » (f. 79r, mg. d., B).

Il nono, Si dormiatis (ff. 360ra-361rb), va ricondotto al tentativo di ricomposizione tra i frati di Santa Maria Novella e il clero secolare dopo la lite sui diritti di stola nei funerali scoppiata in marzo 1311.

La rubrica De pace raccoglie dunque sermoni di diverso genere e occasione, ma in qualche modo connessi col tema della pace. Soltanto il primo secondo e ottavo vertono sulla pace della polis; gli altri sono indirizzati alla comunità conventuale, specie in ricorrenza del giorno in cui i frati accedevano all’eucaristia. Il primo, più in particolare, potrebbe riallacciarsi al tempo del De bono comuni. Il sermone fu tenuto in occasione d’una processione per impetrare la pace; e fu predicato in volgare, come si ricava dal fatto che in volgare sono dati i lemmi-chiave della divisione trimembre del sermone: priego, accordo e nascimento. Breve ma organico in tutte le parti canoniche dell’ars praedicandi, pròtema compreso, che chiude con l’invito alla preghiera, introdotto  -  e come d’abitudine lasciato sospeso nella redazione scritta  -  da «Et ideo etc.» prima della ripresa del versetto tematico Fiat. Dall’entrata in Firenze di Carlo di Valois (1° novembre 1301) all’insediamento del governo nero (7 novembre), fra l’altre iniziative prese per sventare il deteriorarsi della situazione cittadina i priori bianchi in carica (tra cui Girolamo di Salvi dei Girolami e Dino Compagni) indissero una pubblica processione di pace. Lo racconta lo stesso Dino nella Croníca (II, 13), il quale annota: «e molti ci schernirono, dicendo che meglio era arrotare i ferri». I «fortes clamores» e l’appassionata invocazione alla pace nel sermone sembrano ben adattarsi a tale circostanza. La concorrenza della memoria liturgica avalla la proposta: la colletta citata («et orat ecclesia...») è tratta dalla liturgia d’Ognissanti (1° novembre): «quaesumus ut desideratam nobis tuae propitiationis abundantiam, multiplicatis intercessoribus, largiaris». La recente celebrazione d’Ognissanti provvede a Remigio la citazione liturgica per l’occorrenza?

9. Le fazioni cittadine

Speculum, De bono comuni, De bono pacis non sono le sole opere in cui il fiorentino Remigio si commisura con le parti sociali alla base del dinamismo e delle lotte di città. I sermonari ne conservano moltissime tracce. Tralascio i cinque sermoni ai priori cittadini, che meritano uno studio specifico; raccolgo invece quanto sparso nei sermoni, specie quanto può illustrare il contesto cittadino dei trattati politici. Il pulpito concorre con la cattedra e con gli scritti trattatistici al medesimo impegno apostolico nella vita della città.

Taluni spunti non vanno oltre l’annotazione corsiva: una tal quale diversità dei cittadini è necessaria per l’armonia del tutto, come in un coro la disparità delle voci: «Si omnes voces chori vel note essent pares vel omnes impares, non esset cantus ordinatus in melodia; et similiter si omnes homines civitatis essent pares vel omnes impares in conditione, non esset ordo in politia» (cod. D, ff. 222vb-223ra); molti popolani costituiscono un solo popolo così come molti frati un solo convento: «Multa enim membra sunt umun corpus, sicut dicit Apostolus etc., et multe mansiones[1] sunt una domus, Io. 14[,2], et multe domus sunt unus vicus, Act. 9[,15] etc., et multi familiares sunt una familia, et multi fratres sunt unus conventus, et multi populares sunt unus populus etc., et multa capitula sunt unus liber et multi libri sunt umun volumen et multa volumina sunt unum armarium etc.» (205v, mg. inf., B). Città e convento vivono in profonda simbiosi. Gli spazi urbani raggiungono quelli conventuali tramite unità sapienziale:

originale latino

volgarizzamento (2008) di EP

Prologus IX, Radix sapientie cui revelata est? Eccli. 1[,6] (cod. G4, ff. 289ra-294va).

Prologo IX, A chi fu rivelata la radice della sapienza? Ecclesiastico (Siràcide) 1,5.

(...) Inter alias ergo scientias gramatica potest dici semita vel viculus sive kiasso tum quia stricta est cum a nullius alterius scientie ingressu in eam latitudinem aliquam habeat tum quia ducit ad viam idest ad logicam.

Que quidem logica dicitur via tum quia ex ingressu gramatice est iam latior effecta quam semita tum quia ducit ad terminum idest ad alias scientias que propter se queruntur, immo et ad omnes scientias...

(...) Tra le altre scienze o discipline, la grammatica la si può chiamare sentiero o vicolo o chiasso. È stretta, perché non riceve grandezza da nessuna altra scienza che entra da lei; e perché conduce alla via che è la logica.

La logica la si chiama via, perché dall'ingresso della grammatica diviene più spiaziosa del sentiero; e perché conduce al termine, ossia alle altre scienze cercate per se stesse, conduce anzi a tutte le scienze...

Mathematica autem congrue potest dici publica strata tum quia ex ingressu predictarum duarum latior est effecta, quemadmodum publica strata latior consuevit esse quam alia via, tum quia est certa et manifesta quia procedit per demonstrationes modo humano certissimas.

La matematica la si può congruamente chiamare strada pubblica. Dall'ingresso infatti delle due precedenti discipline è già divenuta più ampia, allo stessso modo che una pubblica strada è solitamente più spaziosa d'altre vie. Inoltre è certa e manifesta, visto che procede per dimostrazioni certissime per metodo umano.

Scientia autem naturalis, quam omnes predicte ingrediuntur, latior est et potest congrue dici aula palatii tum quia latior est quam strata tum quia per cibum et potum nature sustentande intendit, de qua quidem natura agitur in scientia naturali.

La scienza naturale, alla quale accedono tutte le precedenti, è ancor più larga. La possiamo chiamare aula di palazzo: perché è più ampia della strada, e perché mira ad alimentare la natura tramite cibo e bevanda; e di tale natura appunto si occupa la scienza naturale.

Moralis vero scientia iam ex ingressu omnium predictarum latior effecta potest dici claustrum monasterii tum quia latius consuevit esse quam aula tum quia in eo intenditur moribus instruendis a quibus denominatur tota moralis scientia.

La scienza morale, digià dilatata dall'ingresso di tutte le predette discipline, la si può chiamare chiostro del monastero: sia perché solitamente più ampia dell'aula, sia perché in esso si mira alla formazione dei costumi, da cui prende nome l'intera scienza morale.

Methaphisica vero, ex ingressu omnium predictarum latitudinem induens ampliorem, plathea convenienter appellari valet tum quia plathea latior quam claustrum esse solet... tum quia plathea est locum comunis in quo comunius conveniunt homines, comunius afferuntur res venales, in quo comunius recitantur rumores; in methaphisica autem agitur de comunibus quia ens in comuni est subiectum eius.

La metafisica, ancor più ampia a motivo dall'ingresso di tutte le predette discipline, la si può convenientemente chiamare piazza. Perché la piazza è di solito più larga del chiostro... E perché la piazza è il luogo per eccellenza del comune-città: là comunemente s'incontrano i cittadini, là comunemente si espongono cose alla vendita, là comunemente circolano pettegolezzi. In metafisica si studia la realtà comune, perché suo proprio soggetto è l'ente in comune.

Theologia autem vel sacra scriptura, ex ingressu omnium aliarum scientiarum effecta latissima, campus congrue appellatur tum quia campus est latior quam plathea, tum quia campus emictit germina multa, tum quia delectabilibus ludis magis congruit quam alia loca; delectabilissimum autem est ludere cum verbis sacre scripture modo sic modo aliter in utilitatem anime exponendo (cod. G4, f. 290va-b).

La teologia o sacra scrittura, vastissima perché ad essa accedono tutte le altre scienze, la si chiama congruamente campo. Perché il campo è più vasto della piazza; perché il campo emette molti germogli; perché più di altri luoghi si presta a giuochi piacevoli. Piacevolissimo è giocare con le parole della sacra scrittura, esporle ora in un modo ora in un altro, sempre a vantaggio dell'anima (cod. G4, f. 290va-b).

Dom. IV dopo l'ottava di Pasqua, sermone III, Si quis putat se religiosum esse, Iac. 1 (cod. G4, ff. 153va-155rb), spazi conventuali: «1° altare..., 2° chorus..., 3° debet ibi esse navis fiende predicationis..., 4° debet ibi esse clastrum silentii et taciturnitatis..., 5° debet ibi esse refectorium sobrietatis (cod. G4, f. 154va); 6° debet ibi esse dormitorium castitatis...; 7° debet ibi esse hospitium caritatis...; 8° debet ibi esse infirmitorium pietatis...; 9° debet ibi esse scola doctrinalis veritatis... (154vb): studium enim scole est necessarium religioso tum propter vitam quia veritas non potest diligi nisi cognoscatur... tum propter predicationis et consiliationis efficatiam (154vb-155ra); 10° debet ibi esse capitulum iuste correctionis per accusationem etc., ... ut scilicet non solum teneantur capitula generalia et provincialia seu visitatorum sed etiam cotidiana priorum in quibus fratres quasi crucifiguntur et ideo victimantur...» (155ra).

Il governo del convento replica il governo della polis, i suoi ideali e le sue corruzioni:

originale latino

volgarizzamento (2008) di EP

In capitulo provinciali, sermo I: Multi de populo Israel diffiniverunt apud se ut non manducarent immunda. I Mach. 1[, 65] (cod. G4, ff. 255vb-257vb).

Capitolo provinciale, primo sermone: Molti del popolo d'Israele presero decisione tra loro di non mangiare cibi immondi. I Maccabei 1, 62 (cod. G4, ff. 255vb-257vb).

(...) Quinque tanguntur in verbo proposito que inesse contingit ad diffinitoris officium assumptis vel congrue assumendis, scilicet eorum numerus quia Multi, cetus quia de populo Israel, actus quia diffiniverunt, agendi modus quia apud se, et ritus quia ut non manducarent immunda.

Dico quod primo tangitur diffinitorum numerus quia Multi idest quatuor. Et quidem satis aperte per multitudinem simpliciter dictam, quantum ad presens, quaternarium intelligere possumus. Multitudo enim universalis videtur principaliter consistere in quatuor naturis, scilicet divina, angelica, celesti et subcelesti (256ra).

(...) Cinque punti vengono proposti nel versetto tematico, che ben si applicano ai frati eletti o da eleggere all'ufficio di definitori capitolari: loro numero, ossia Molti; loro ceto, del popolo d'Israele; atto, presero decisione; procedura, tra loro; rito, di non mangiare cibi immondi.

Il primo punto tratta il numero dei definitori, Molti, ossia quattro. Per molteplicità in senso indistinto, qui possiamo intendere il numero quattro. La molteplicità universale infatti sembra principalmente consitere in quattro nature: divina, angelica, celeste e subceleste (256ra).

(...) Sed nunc videamus qualiter multos, et specialiter quatuor, esse et congruit et expedit. Congruit siquidem esse multos ratione divini regiminis, sed expedit esse multos ratione nostre utilitatis (256rb).
(...) Unde post se, primum patrem et dominum et magistrum et motorem et causam et prelatum, voluit [Deus] esse multos alios patres et dominos et magistros et motores et causas et prelatos qui alios gubernarent.

(...) Vediamo ora come molti, ed esattamente quattro, è numero congruo e opportuno. È congruo esser molti a motivo del governo divino, ma è opportuno esser molti a nostro giovamento (256rb).
(...) Dopo se stesso, primo padre e signore e maestro e motore e causa e prelato, Dio ha voluto che vi fossero molti altri padri e signori e maestri e motori e cause e prelati, che presiedessero il governo del popolo.

Licet enim secundum Philosophum in VIII Ethicorum et IV Politice regnum in quo principatur unus sit optimus principatus, tamen timocratia in qua principantur plures mediocres etiam bonus est, et aristocratia in qua principantur pauci optimi est melior. Ad pulcritudinem autem et ordinem universi facit ut non solum sint optima, verum etiam meliora et bona.

Sebbene a giudizio di Aristotele, Etica nicomachea VIII,10 (1160a 31 ss) e Politica IV,4-7 (1290a - 1293b), il regno retto da uno solo o monarchia sia ottimo principato, tuttavia anche la timocrazia, ossia il governo retto da molti del ceto medio, è anch'esso buono, e l'aristocrazia, ossia il governo retto da pochi ottimi, è migliore. Torna a bellezza e ordine dell'universo che vi siano non soltanto cose ottime, ma anche cose migliori e buone.

In ordine autem nostro, tamquam in quodam regno spirituali, in toto quidem tenet locum regis magister ordinis; in provincia autem sua prior provincialis; in conventu autem suo prior conventualis. Aristocratice autem principantur |256va| diffinitores in toto ordine et in provincia; timocratice autem principari videntur omnes qui sunt de corpore capituli, scilicet generalis in toto ordine, provincialis in provincia et conventualis in conventu (256rb-va).

Nel nostro ordine domenicano, quasi a mo' di regno spirituale, il maestro dell'ordine ha ruolo di re sull'intero ordine, il priore provinciale nella sua provincia, il priore conventuale nel suo convento. Il governo aristocratico lo esercitano |256va| i definitori, o nell'intero ordine o nella provincia. Il governo timocratico lo esercitano i frati eletti a membri del capitolo: capitolo generale in tutto l'ordine, provinciale nella provincia, conventuale nel convento (256rb-va).

Secundo expedit esse multos propter nostram utilitatem, et in tractanda cognoscendo vel advertendo. Melius enim vident plures oculi quam unus (256va).
Quarto in repellendo corrumpentia, scilicet privatum amorem, scilicet minas, promissiones et maxime munera. Facilius est enim unum quam multos corrumpere; unde Philosophus in libro III Politice c. 9 «Uno ab ira obtento vel ab aliqua alia passione tali necessarium corrumpi iudicium; ibi autem difficile simul omnes impetu ferri et peccare» (256vb).

In secondo luogo, il governo di molti torna a nostro vantaggio, sia per le conoscenze che per la valutazione delle questioni di governo. Molti vedono meglio di uno solo (256va).
In quarto luogo, per respingere motivi di corruzione, quali interessi privati, minacce, promesse, e soprattutto regali. È più facile corrompere uno solo che molti; cosicché dice Aristotele, Politica III,15 (1286a 33-35): «Il singolo può esser dominato dall'ira o da altra passione del genere, e il suo giudizio ne è viziato; mentre è difficile che tutti vengano simultaneamente trascinati dall'ira e dall'errore» (256vb).

Interdum omnes principatus corrumpuntur vel corrumpi possunt. Regnum enim corrumpitur et degenerat in tyrannidem, dum magister vel prior provincialis vel conventualis querit proprium honorem et commodum, neglecto bono comuni ordinis, provincie vel conventus.

Tutte le forme di governo sono soggette alla possibile corruzione (cf. Etica nicomachea VIII,10: 1160a - 1161a). Il regno corrotto degenera in tirannide, laddove il maestro dell'ordine o il priore provinciale o quello conventuale rincorrono il proprio prestigio o interesse, e sorvolano il bene comune dell'ordine o della provincia o del convento.

In oligarchiam autem degenerat aristocratia, dum diffinitores sunt mali preter dignitatem distribuentes officia quibusdam. Et, ut dicitur VIII Ethicorum, «Omnia vel plurima bonorum sibi ipsis» scilicet usurpant, «et principatus semper eisdem» scilicet personis conferunt, «de plurimo facientes ditari» idest hoc ut plurimum intendentes ut ipsi et amici eorum ditentur; vel idest de hoc quod plurimo scilicet tempore conferuntur eis, faciunt ditari conferentes et amicos eorum.

L'aristocrazia degenera in oligarchia, quando i definitori sono corrotti e distribuiscono cariche a questo o a quello oltre ogni merito. E come dice Aristotele, Etica nicomachea VIII,10 (1160b 14-15), gli oligarchi «assicurano tutti i beni o la maggior parte di essi a se stessi», dunque usurpano; «conferiscono cariche pubbliche sempre agli stessi», alle medesime persone; «anzitutto affinché s'arricchiscano», ossia soprattutto preoccupandosi, loro e i loro amici, di far soldi; oppure, conferiscono cariche pubbliche a tempi lunghi, per arricchire se stessi e i propri amici.

Timocratia autem degenerat in democratiam quando ad populum, idest ad pueros et ad fratres conversos, devolvitur dominium et |257ra| regimen principatus.

Vel aliter adapta (256vb-257ra).

La timocrazia (governo di molti) degenera in democrazia quando potere e governo della cosa pubblica finisce in mano al popolo o alla piazza, |257ra| ossia a gente immatura e frati conversi!

Oppure adatta il sermone diversamente e secondo il caso (256vb-257ra).


[1] mansiones: dic. 2012, la dott.ssa Alessandra Malquori mi chiede come tradurrei mansiones, lessema che ricorre nei testi delle Tebaidi, o letteratura dei padri del deserto; "multe mansiones sunt una domus" = "molte camere costituiscono una sola casa"; magioni, stanze, capanne, piccole dimore - concordiamo e ci suggeriamo a vicenda!


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