precedente successiva

De bono comuni

Il bene comune

originale latino

volgarizzamento (2007) di EP

(... 18. Argumenta directe contra questionem, et eorum solutiones)

(... Capitolo 18. Obiezioni conto la tesi - bene comune precede bene privato -, e loro solusione)

10. Sed contra, decimo sic. Dicitur Exo. 23[,2] «Non sequeris turbam ad faciendum malum». Ergo quilibet debet potius velle quod comune peccet et non ipse quam quod ipse peccet et non comune. Sed carere malo est quoddam bonum, secundum Philosophum in V Ethicorum, et amare est idem quod velle bonum, secundum eundem[1]. Ergo aliquis non tenetur preamare comune suum sibi.

Obiezione 10. Esodo 23,2, «Non seguirai la folla per agire male». Uno dunque deve piuttosto volere che pecchi il comune e non lui, e non viceversa. Ma mancare del male (o il male minore) è un qualche modo un bene, secondo Aristotele, Etica nicomachea V,1 (1129b 8-9); e amare equilvale a voler bene, sempre secondo Aristotele. Dunque uno non è tenuto ad amare il proprio comune più di se stesso.

Et dicendum quod solutio huius potest accipi tripliciter. Uno modo ex parte Dei quia secundum ordinem caritatis super omnia diligendus est Deus; per peccatum autem offenditur Deus, et ideo propter nullius amorem, nec comunis |104va| nec alterius, homo debet peccare. In hoc igitur non prefertur amor sui amori totius sed amor Dei.

Risposta triplice. Prima, da parte di Dio. L'ordine della carità vuole che Dio sia amato al di sopra di tutto. Il peccato offende Dio, e nessuno deve commettere peccato per alcuna ragione, né per amore del comune né di alcun altro. Qui dunque non è l'amor di sé che viene anteposto all'amore del tutto, bensì l'amore di Dio.

Et preterea oportet quod in amore totius includatur amor partis, sicut dictum est; et similiter in peccato totius includitur peccatum partis in quantum huiusmodi sunt. Sic autem accipiendo, pars magis refugit peccatum comunis quam proprium. Et sic accipitur solutio ex parte subiecti.

Inoltre nell'amore del tutto va incluso quello della parte, come detto; parimenti nel peccato del tutto, ossia d'una comunità in quanto tale, è di fatto incluso quello della parte o del singolo in quanto tale. In questo senso, la parte rifugge più il peccato del comune che il proprio. E qui si ha la soluzione da parte del soggetto.

Et preterea quod de natura sua malum est, nullo bono fine potest fieri, secundum Philosophum et Augustinum[2]; sed peccatum est malum de sui natura, ergo propter nullius amorem debet commicti. Et sic accipitur solutio ex parte peccati.

Inoltre, ciò che per sua natura è antietico, non lo si deve fare per nessun buon fine, a giudizio d'Aristotele e di sant'Agostino; ma il peccato è male per sua natura, e dunque non dev'esser commesso per amore di nessuna cosa. E qui si ha la soluzione da parte del peccato.

11. Undecimo sic. Quilibet magis tenetur velle, ut videtur, quod suum comune in inferno dampnetur et non ipse quam quod ipse dampnetur et non comune, immo et totus mundus. Sed malum pene in quantum huiusmodi est proprie contra subiectum patiens et non contra Deum, qui est actor omnis pene, secundum Augustinum[3]. Ergo homo non tenetur preamare comune sibi.

Obiezione 11. Ognuno è tenuto a volere, come sembra, che sia puttosto il suo comune (o sua comunità) o addirittura il mondo intero ad esser condannato all'inferno anziché se stesso, e non viceversa. Ma il male della pena in quanto tale è propriamente contro la persona che la subisce e non contro Dio, il quale è autore d'ogni pena, a detta d'Agostino. Dunque nessuna persona è tenuta ad amare il comune o comunità più di se stessa.

Et dicendum quod pena[4] in dampnato presupponit culpam in eo etiam simul cum pena remanentem; et ideo est ibi offensa Dei, quem tenemur preamare toti mundo, et propter amorem ipsius gaudere de pena inflicta etiam infernali quantocumque comuni a Deo propter offensam ipsius Dei, iuxta illud Ps. [57,11] «Letabitur iustus cum viderit vindictam».

Risposta. Nell'uomo dannato la pena  presuppone in costui anche la colpa, che persiste insieme con la pena. C'è dunque là un'offesa di Dio, che siamo tenuti ad amare sopr'ogni cosa al mondo, e per suo amore siamo tenuti a compiacerci della pena inflitta, perfino della pena dell'inferno quantunque estesa, a motivo dell'offesa arrecata a Dio; Salmo 58,11, «Il giusto godrà nel vedere la vendetta».

Si autem quantacumque pena posset esse sine culpa, ex virtute amoris ordinati homo deberet potius ipsam velle pati cum immunitate comunis quam quod comune suum ipsam incurreret cum immunitate sui, in quantum est pars comunis.

Poniamo tuttavia il caso che una pena si dia senza colpa. In forza dell'amore ordinato, l'uomo dovrebbe esser disposto ad addossarsi la pena e preservarne il proprio comune o comunità, piuttosto che la sua comunità la subisca e lui ne resti immune; e ciò perché egli è parte integrante del comune.

12. Duodecimo sic. Secundum beatum Augustinum in I libro De doctrina cbristiana «quatuor sunt diligenda: unum quod supra nos est  -  scilicet Deus  -  alterum quod nos sumus, tertium quod iuxta nos est  -  scilicet proximus  -, quartum quod infra nos» scilicet corpus proprium, quia scilicet ad ipsum per quandam redundantiam beatitudo derivatur. Sed inter ista quatuor, comune nonnisi ad proximum pertinere videtur, quem sine dubio post nos diligere debemus.

Obiezione 12. Secondo Agostino, Dottrina cristiana I, 23, 6-8 (CCL 32,18; PL 34,27), «quattro sono le cose da amare: primo quel che è sopra di noi, che è Dio; secondo noi stessi; terzo quel che ci è vicino, il prossimo; quarto quel che è sotto di noi» ossia il proprio corpo, perché su di esso quasi per sovrabbondanza la beatitudine si riversa. Tra queste quattro priorità, il comune non può collocarsi se non col prossimo; che di certo dobbiamo amare dopo di noi medesimi.

Et dicendum[5] quod comune ex aliqua ratione pertinet ad nos et proximum in quantum et nos et proximus sumus partes eius. Ex alia autem ratione pertinet ad Deum in quantum scilicet Deus est comune et totale bonum omnium; unde ex ista ratione sicut Deus naturaliter preamatur ab omnibus generaliter tamquam illud quod est causa |104vb| entitatis et bonitatis omnibus, ita post Deum totum preamatur a partibus tamquam illud quod est causa entitatis et bonitatis ipsis. Et ideo bene Philosophus in I Ethicorum[6] coniungit comunis amorem cum Deo asserens quod melius et divinius est amare comune quam unum solum.

Risposta. Il comune, o comunità politica, per un ordine di ragione appartiene a noi e al prossimo, perché e noi e prossimo siamo sue parti componenti. Per un altro ordine di ragione appartiene a Dio, perché Dio è il sommo e condiviso bene di tutte le cose. E proprio per quest'ultima ragione, così come Dio è per natura preamato da tutti in quanto causa |104vb| dell'essere e del bene di tutte le cose, allo stesso modo dopo Dio è il tutto che viene preamato dalla parti in quanto causa dell'essere e del bene delle parti medesime. Cosicché Aristotele, Etica nicomachea l,1 (1094b 9-10), ricompone eccellentemente l'amore della polis con Dio, laddove dice che più bello e più divino è amare la comunità politica che una sola persona.

13. Tertio decimo sic. Caritas proprie non habetur nisi ad res rationales; sed ipsum comune in se non est quid rationale; ergo etc.

Obiezione 13. La carità in senso proprio non si dà se non in rapporto a realtà razionali. Ma il comune in sé non è un soggetto razionale. Dunque, eccetera.

Et dicendum quod comune non accipitur hic secundum totalitatem totius universalis sed secundum totalitatem totius integralis[7], non quidem ex partibus corporalibus directe et principaliter sed ex partibus rationalibus. Unde ex ista ratione directe amatur; preamatur autem post Deum propter similitudinem quam habet ad Deum, qui certe summe rationalis est.

Risposta. Il comune, o comunità politica, è qui inteso non come totalità d'un tutto universale ma d'un tutto integrale; questo a sua volta è composto direttamente e principalmente di parti non fisiche ma razionali. In questo senso il comune è termine diretto d'amore; e nell'ordine della carità si colloca dopo Dio a motivo della similitudine che ha con Dio, il quale è sommamente razionale.

14. Quarto decimo sic. Quando aliquid contingit toti ratione partis, magis contingit parti quam toti quia originans semper est potius. Puta esse simum magis contingit naso quam homini, unde et propria passio nasi est non hominis; et simile est de esse crispum in capillis et de esse ricum[8] in crure. Sed comune non amatur directe ex caritate nisi ratione partium suarum, in quibus etiam sicut in subiecto proprie est caritas. Ergo quilibet civis preamatur civitati ex caritate.

Obiezione 14. Quando una cosa ricade sul tutto a ragione della parte, appartiene più alla parte che al tutto; il generante ha precedenza. Esempi: "essere schiacciato" si dice propriamente più del naso che della persona, perché difetto del naso; allo stesso modo "essere ricciuto" si dice propriamente dei capelli, "essere curvo" della gamba. Il comune, o comunità politica, non lo si ama direttamente d'amor di carità se non in ragione delle sue parti; ed in queste come nel suo proprio soggetto risiede la carità. Dunque ogni cittadino nell'amor di carità è anteposto alla città.

Et dicendum quod duplex est ratio alicuius ad presens, scilicet ratio quasi materialis et minus principalis, et ratio quasi formalis et magis principalis: scilicet ratio sine qua non, et ratio propter quam. Puta ratio materialis, sine qua color videri non potest, est corpus; ratio vero formalis, propter quam color videtur, est lumen.

Risposta. In due modi possiamo intendere ratio, o principio essenziale, di qualcosa: ratio materiale e meno radicale, e ratio quasi formale e più radicale; ossia principio senza il quale una cosa non è, e principio in forza del quale una cosa è quel che è. Esempio: principio materiale senza il quale non possiamo vedere il colore è il corpo; principio formale in forza del quale vediamo il colore è la luce.

Dicendum est ergo quod ratio materialis sine qua aliquid directe ex caritate amari non potest, est esse rationale sive intellectuale; sed ratio formalis propter quam aliquid ex caritate diligitur, est ipse Deus. Quecumque enim ex caritate diligimus, propter Deum diligere debemus, qui scilicet est influens caritatem et ultimus et principalis finis eius. Quia igitur totum creaturarum rationalium magis assimilatur Deo quam quecumque pars eius, ideo post Deum magis debet amari a parte qualibet quam una pars eius ab altera vel etiam a se ipsa.

Diciamo allora: ratio o principio materiale, senza il quale non si dà direttamente amore di carità, è l'essere razionale o intellettuale; principio formale in forza del quale amiamo per amore di carità, è Dio. Qualunque cosa amiamo di carità, lo dobbiamo amare per Dio, il quale è sia generatore di carità che suo ultimo fine. Ora il tutto delle creature razionali si avvicina a Dio più di qualsiasi sua parte; e dunque dopo Dio, il tutto dev'essere amato dalla parte più che una parte da un'altra, o da se stessa.


[1] «secundum eundem»: altrove «Unde Philosophus in V Ethicorum, et etiam secundum vulgare nostrum, amare aliquem idem est quod velle ei bonum» (cod. D, f. 55ra; cf. ib. f. 236v, marg. inf., B). Ma niente in libro V che giustifichi il rinvio. Cf. Ethica nicom. VIII, 2 (1155b 31-33); VIII, 4 (1156b 7-11); Rhetorica II,4 (1380b 35-36): «Sit itaque amare velle alicui que putat bona, illius gratia sed non sui» (traduz. Moerbeke: Arist. Lat.  31,228). Tommaso d'Aquino, Summa theologiae I-Il, 26, 4: «sicut Philosophus dicit in II Rhetorice, amare est velle alicui bonum».

[2] Aristotele, Ethica nicomachea II, 6 (1107a 9-17). | Agostino, Contra mendacium c. 17 § 18: «sed ea quae constat esse peccata, nullo modo bonae causae obtentu, nullo quasi bono fine, nulla velut bona intentione facienda sunt» (PL 40,528).

[3] Cf. Retractationes I, 9 § 5 (PL 32, 598); De libero arbitrio III, 18 § 51 (CCL 29, 305; PL 32, 1296). Sui testi agostiniani PIETRO LOMBARDO, Sententiae II, dist. 36, c. 2, e c. 5. ALANO DA LILLE, Distinctiones: «unde auctoritas theologica dicit: Omnis pena a Deo est» (PL 210, 905 B). Remigio in Quolibet II, 5, 28-29: «iuxta illud Augustini "Omnis pena iusta est et a Deo est"» (MD 1983, 120); in Speculum: «et Augustinus in libro I Retractationum "Omnis pena iusta est et a Deo est"» (cod. C, f. 137ra).

[4] Ignorata la distinzione tra colpa e pena, questo paragrafo di Remigio è stato gravemente frainteso: cf. M.C. De Matteis, La “teologia politica comunale” di Remigio de’ Girolami, Bologna 1977, CXXXII-CXXXV; MD 7 (1976) 387; AFP 60 (1990) 217-18. Dello stesso autore vedi Queritur utrum malum convenienter dividatur per culpam et penam (cod. G3, f. 123rb-va), Queritur utrum omnis pena infligatur propter aliquam culpam (ib. ff. 123va-124ra). Cf. Tommaso d'Aquino, Quodl. I, a. 9. ENRICO DA GAND, Quodl. IX (1286), 19 (Utrum bonum proprium magis sit procurandum quam commune), nel caso del bene spirituale proprio non incluso in quello spirituale comune, non prospetta la distinzione tra colpa e pena, e conclude pertanto: «Si vero utrumque bonum sit spirituale, tunc proprium magis est procurandum, quia modicum boni gratiae aut gloriae propter aeternam eius perseverantiam magis debet quilibet velle sibi quam maximum proximo, quemadmodum potius debet velle solus salvari et omnes alios damnari, quam e converso» (ed. cit. p. 294). GIORDANO DA PISA, predica Non veni vocare iustos, Firenze 21.IX.1309: «Onde se tu sapessi che per uno peccato mortale si salvasse tutta una cittade, eziandio quelli di ninferno n'uscissero, non dei fare il peccato, e se 'l fai non ne se' scusato» (Prediche, ed. Moreni II, 44).

[5] Mentre nel § "Et dicendum..." Remigio implica in rapporti inclusivi i soggetti noi-prossimo-Dio nelle nozioni di parte-comune, ENRICO DA GAND, Quodl. IX, 19 li prospetta separabili; all'obiezione «bonum cummune magis est procurandum quia est divinius» risponde: « In casibus enim in quibus proprium magis est procurandum, non est commune divi­nius, aut non simpliciter aut non procuranti. Divinius autem commune numquam est magis procurandum nisi quando in ipso includitur divinius proprium. Divinius enim proprium quod non includitur in communi, semper magis est procurandum, sicut et spirituale proprium spirituali communi quando proprium non includitur in communi, ut dictum est» (ed. cito pp. 294-95).

[6] Ethica nicom. l, 1 (1094b 9-10); traduz. recogn.: «Amabile quidem enim et uni soli, melius vero et divinius genti et civitatibus» (Arist. Lat.  26, 376). È Remigio che sostituisce comune a genti et civitatibus (εθνει και πολεσις) del testo aristotelico. Vedi sopra c. 2, 3; 9, 112. BRUNETTO LATINI, La Rettorica (1260-65) così traduce il «cum nostrae rei publicae detrimenta considero» dell'inizio del De inventione di Cicerone: «però che quando io considero li dannaggi del nostro comune» (ed. F. Maggini, Firenze 1968, 3). ED non registra nel lessico volgare di Dante il sostantivo comune (città-stato).

[7] Per la definizione del totum universale e totum integrale («totum integrale est quod est compositum ex partibus habentibus quantitatem et pars eius dicitur integralis») vedi i testi di logica più diffusi al tempo di Remigio: PIETRO DI SPAGNA, Tractatus V,12 e 14 (ed. cit. pp. 63-64); LAMBERTO D'AUXERRE, Logica c. 6 (ed. F. Alessio, Firenze 1971, 126-27).

[8] «Ricus» col significato di curvo ritorna anche altrove. Vero luogo parallelo in De modis rerum 1,3: «Similiter si fiat contractio ad partem integralem cui aliqua passio primo et per se conveniat, et toti per partem conveniat; puta cum dicitur "Est crispus capit<e>", bene sequitur "Est crispus simpliciter" quia crispitudo non contingit toti nisi secundum istam partem que est caput. Et similiter sequitur "Est simus in naso, ergo est simus", et "Est ricus in crure, ergo est ricus", et sic in consimilibus» (cod. C, f. 19ra). Extractio: «Quamvis enim Sortes non sit simus nisi secundum nasum et ricus nonnisi secundum quod habet crus, tamen hec est vera simpliciter "Sortes est simus" et hec "est richus"» (cod. G3. f. 145rb). «Aliqui vero neque habent nomen <vere dilectionis> neque factum, sicut Nero imperator et Mauricius et Fredericus, quasi "frigidus" et "ricus" idest curvus» (cod. G4, f. 202v, mg. inf., B).


precedente successiva