Pietro Abelardo, Logica Ingredientibus, I, Glossae super Porphyrium, ed. B. Geyer, pp. 7-32.

 

Come dice Boezio, vi sono tre questioni difficili ma molto utili, che sono state affrontate da molti filosofi, ma da ben pochi risolte.

La prima è di sapere se i generi e le specie esistano in sé e per sé o se esistano soltanto nei puri e semplici concetti che ne abbiamo, come se dicesse: se abbiano una vera realtà o esistano soltanto nell'immaginazione.

La seconda poi, ammesso che abbiamo una vera realtà, se le essenze siano corporee o incorporee.

La terza, infine, se siano separate dalle realtà sensibili o in esse esistenti.

Esistono infatti due specie di realtà incorporee, le une capaci di sussistere nella loro incorporeità fuori del sensibile, come, ad es., Dio e l'anima; le altre invece non possono esistere separate dal sensibile a cui ineriscono, come, ad es., la linea, che non può essere separata dal corpo che ne è sostrato.

(Porfirio) accenna a queste questioni dicendo: "mox de generibus et speciebus illud quidem dicere recusabo sive subsistunt etc., sive ipsa subsistentia sint corporalia ad incorporalia et utrum, ipsa cum incorporalia dicuntur, separentur a sensibilibus etc., et circa ea constantia".

Tutto ciò può essere interpretato diversamente. Possiamo interpretare infatti così, come se dicesse: rifiuterò di trattare queste tre questioni sopra poste ed altre simili intorno a queste (quaedam constantia circa ea), cioè a queste tre questioni. Possono, infatti, essere poste anche altre questioni intorno ad essi egualmente difficili, come è quella circa la comune causa della imposizione dei termini universali, che essa sia, cioè il fatto che le realtà diverse convengano tra loro; oppure la questione circa il valore intellettivo dei termini universali, poiché sembra che nessuna realtà sia conosciuta attraverso essi, così come sembra che attraverso la voce universale non si abbia a che fare con nessuna realtà, ed altre molte difficili questioni.

Possiamo così interpretare "et circa ea constantia" aggiungendo una quarta questione, se cioè i generi e le specie, finché sono generi e specie, è necessario che abbiano una qualche realtà a cui si riferiscano nella denominazione, oppure, distrutte le realtà stesse denominate, l'universale possa avere ancora valore dal solo significato dell'intelletto, come questo nome "rosa", quando non esista più alcuna rosa di cui sia termine comune. Ma di queste questioni discuteremo più approfonditamente in seguito….

…Ora, come abbiamo promesso, ritorniamo ai quesiti sopra ricordati, e, aprendo una indagine diligente, cerchiamo di risolverli.

E poiché è certo che i generi e le specie sono universali, e Porfirio in rapporto ad essi accenna alla natura di tutti gli universali in generale, noi qui distingueremo le proprietà comuni degli universali attraverso le proprietà delle realtà particolari e ci domanderemo se le proprietà degli universali convengano solo ai termini o anche alle cose (solis vocibus seu etiam rebus).

Aristotele definisce l'universale nel Perihermeneias "ciò che è per natura atto ad essere predicato di molti", Porfirio invece definisce il singolare, cioè l'individuale, "ciò che si predica di uno solo". E l'autorità sembra attribuire questa proprietà tanto alle cose che ai termini. Aristotele, infatti, l'attribuisce tanto alle cose quando, subito prima della definizione dell'universale, aveva detto: "Poiché tra le cose ve ne sono di universali e di singolari, chiamo universale ciò che per natura si predica di molti, singolare invece ciò che non, ecc…". Lo stesso Porfirio, quando stabilì che la specie è costituita dal genere e dalla differenza, riferì questi elementi alla natura delle cose. E' chiaro dunque che le cose stesse sono contenute nei nomi universali.

Ma universali si docono anche i nomi, Aristotele infatti dice: "Il genere determina la qualità in rapporto alla sostanza; una quiddità significa infatti una qualità sostanziale". E Boezio, nel Libro delle Divisioni: "E' molto utile sapere che il genere è in qualche modo una somiglianza tra molte specie che rivela la comunità di sostanza di tutte queste". Ora è proprio dei termini sgnificare o indicare, mentre è proprio delle cose essere significate. E ancora: "Il termine "nome" si attribuisce a una quantità di nomi, e si costituisce in qualche modo una specie contenente degli individui a sé subordinati". Non si tratta però di specie nel vero senso della parola, poiché è un vocabolo non sostanziale, ma accidentale; ma è senza dubbio universale ciò a cui conviene la definizione di universale. Ne deriva che esistono anche termini universali, ma solo in quanto sono termini "predicati" di proposizioni.

Poiché dunque, sia le cose che i termini sembrano essere detti universali, si tratta di vedere in che modo la definizione di universale possa adattarsi alle cose. Nessuna cosa, infatti, né alcuna collezione di cose sembra possa essere predicata di molti, singolarmente considerati, come esige la definizione di universale. Infatti, per quanto questo popolo o questa casa o Socrate si dica di tutte le loro parti prese insieme, nessuno tuttavia in nessun modo dice che sono universali, appunto perché non si predicano delle loro singole parti. E molto meno che una collezione di cose, può essere predicata di molti una cosa singola. Vediamo come allora alcuni possano chiamare universale una cosa o una collezione di cose, ed esponiamo tutte le loro opinioni…

…"Alcuni intendono la res universale in modo da porre una stessa sostanza, essenzialmente identica, in realtà diverse tra loro solo per forma ed in modo che essa costituisca l'essenza fisica degli individui in cui si trova, unica in se stessa e solo diversa per le forme delle realtà inferiori. Così che, se si potessero separare queste forme, non vi sarebbe nessuna differenza tra le cose, le quali differiscono tra di loro soltanto per la diversità delle forme (cioè gli accidenti), essendo il substrato essenzialmente lo stesso. Per Es. nei singoli uomini, solo numericamente diversi, la sostanza "uomo" è identica; essa ora diventa Platone, per certi accidenti, ora Socrate per certi altri. Con questi sembra essere d'accordo Porfirio soprattutto, quando dice: "per la partecipazione alla stessa specie più uomini sono un solo uomo, mentre a causa dei particolari, l'unico e comune (uomo) diviene molteplice". E ancora: "Si definiscono, dice, individui per il fatto che ciascuno di essi ha delle proprietà la cui collezione non si ritrova in nessun altro".

Allo stesso modo pongono nei singoli animali, di specie diversa, una sola sostanza "animale", essenzialmente identica, che si diversifica nelle varie spiecie, perché riceve diverse differenze, come se, ad es. con questa cera ora modellassi una statua di un uomo ora di bue, adattando forme diverse ad un sostrato che resta perfettamente identico.

La differenza sta però in questo, che la medesima cera non costituisce nello stesso tempo statue diverse, mentre questo si ammette per l'universale, che Boezio dice comune in modo tale, da essere tutto identicamente presente nel medesimo tempo (ut eodem tempore idem totum sit in diversis) in quelle diverse realtà, di cui costituisce fisicamente la sostanza; e pur essendo in se stesso universale, nello stesso tempo è individuale per le varie forme che assume, senza le quali esiste in sé "naturalmente", senza poter in alcun modo esistere "in atto".

Universale è quindi per natura, ma in atto singolare, e come incorporeo e non sensibile nella semplicità della sua universalità è oggetto di intellezione, mentre, come corporeo e sensibile, esiste in atto in forza degli accidenti e, sempre secondo Boezio, le stesse cose eisterebbero come singolari e sarebbero oggetto di intellezione come universali.

E questa è una delle due sentenze realiste. Ora, per quanto le autorità sembrino soprattutto consentire con questa, la fisica la rifiuta totalmente.

Se, infatti, un'identica essenza, pur ricevendo forme diverse, sussiste nei singoli, è necessario che questa essenza, che ha assunto queste forme, sia quella medesima essenza che ha assunto altre forme; ad es., che l'animale che ha assunto la forma della razionalità sia lo stesso animale formato dalla irrazionalità, e così l'animale razionale sarebbe insieme animale irrazionale, con la conseguenza che nelle medesime realtà verrebbero a trovarsi contemporaneamente attributi contrari; anzi i contrari non sarebbero più contrari, dal momento che si incontrerebbero insieme in una essenza perfettamente identica, come non sarebbero più contrari bianco e nero, se fossero insieme presenti in un'unica realtà, anche se questa fosse per diversi aspetti bianca o nera, come per la bianchezza o per la durezza ora è bianca ora dura. I contrari, infatti, non possono inerire insieme in una stessa realtà, neppure per diversi aspetti, come pure i relativi ed altri tipi di attributi. Perciò Aristotele, trattando della "relazione", là dove mostra che grandezza e piccolezza possono per diversi aspetti coesistere nella stessa realtà, proprio per il fatto che queste ineriscono insieme nella stessa realtà, dimostra che non sono contrari.

Ma forse si dirà, secondo questa dottrina, che razionalità e irrazionalità non sono per questo meno contrari, per il fatto di trovarsi in una stessa realtà, cioè nello stesso genere e nella stessa specie, a meno che non sussistano entrambi nello stesso individuo. Il che così si spiega: è vero che razionalità e irrazionalità esistono nello stesso individuo, perché si trovano in Socrate. Ma poiché si trovano simultaneamente in Socrate, è evidente che si trovano sia in Socrate che nell'asino.

[Ma allora Socrate e l'asino sono Socrate. E veramente Socrate e l'asino sono Socrate, poiché Socrate è Socrate e l'asino: Socrate in effetti è Socrate, e Socrate è l'asino.

Che Socrate sia l'asino consegue necessariamente da tale dottrina. Tutto ciò che vi è in Socrate, al di fuori delle forme proprie a Socrate, è identico a quello che esiste nell'asino, al di fuori delle forme dell'asino. Ma tutto ciò che vi è nell'asino al di fuori delle forme dell'asino, è asino. E tutto ciò che vi è in Socrate, al di fuori delle forme di Socrate, è asino. Ne consegue che, essendo Socrate stesso ciò che in lui è al di fuori delle forme che gli sono proprie, allora anche Socrate è asino.

Che sia vero tutto ciò che abbiamo sopra affermato, che cioè tutto ciò che è nell'asino, al di fuori delle forme proprie dell'asino, sia asino, risulta chiaro dal fatto che né le forme proprie dell'asino sono l'asino, perché allora gli accidenti sarebbero la sostanza, né la materia e le forme dell'asino costituiscono simultaneamente l'asino, perché si dovrebbe allora ammetere che un corpo ed un non corpo sono un corpo….

…Inoltre, secondo la posizione della teoria sopra enunciata, dieci soltanto sono le essenza di tutte le cose, cioè i dieci generi sommi, poiché nelle singole categorie si trova una sola essenza, che si differenzia solo per le forme dei generi inferiori, come si è detto, e senza queste non avrebbe nessuna varietà.

Come dunque tutte le sostanze sono radicalmente una sola sostanza, così tutte le qualità sono una qualità sola e tutte le quantità sono una sola quantità ecc. Poiché, dunque, Socrate e Platone hanno in sé proprietà che appartengono a categorie diverse, ed essendo esse radicalmente identiche, tutte le forme dell'uno sono le forme dell'altro, perché non sono tra loro diverse né per l'essenza né per la sostanza in cui ineriscono; così pure la qualità dell'uno è la qualità dell'altro, poiché ambedue sono qualità.

Pertanto essi non sono diversi per la natura delle loro qualità, più di quel che lo siano per la natura della loro sostanza, poiché l'essenza della loro sostanza è una, come una è l'essenza della loro qualità. Per lo stesso motivo neppure la quantità, essendo identica, può differenziarli, né le altre categorie. Quindi neppure dalle forme può derivare loro alcuna differenza; esse infatti non sono in sé diverse; come non lo sono le sostanze.

Inoltre, come ammettere una diversità numerica nelle sostanze, se la differenza consistesse soltanto nella varietà delle forme, restando la sostanza sottoposta perfettamente identica? E, infatti, non diciamo che Socrate comporta una diversità numerica per la semplice assunzione di una molteplicità di forme.

Ugualmente non si può ammettere che gli individui siano costituiti tali dai loro accidenti. Se infatti gli individui ricevono il loro essere dagli accidenti, gli accidenti sono allora naturalmente ad essi anteriori, come le differenze alle specie che esse costiuiscono. Infatti, come l'uomo si distingue per la sua differenza specifica, così essi definiscono Socrate dai suoi accidenti. Per cui, come non ci può essere Socrate al di fuori dei suoi accidenti, così non vi può essere uomo al di fuori della sua differenza specifica. E allora Socrate non è il fondamento degli accidenti, come l'uomo non lo è delle differenze.

Ma se gli accidenti non ineriscono alle sostanze singolari, come ai loro soggetti, allora non ineriscono neppure agli universali. Tutto ciò infatti che inerisce alle sostanze seconde come in un soggetto, inerisce necessariamente anche nelle sostanze prime come in un soggetto.

Ne risulta quindi chiaro che è assoltamente priva di fondamento l'opinione secondo la quale una stessa identica sostanza possa contemporaneamente trovarsi in esseri diversi….

La soluzione di Abelardo

…Ed ora, mostrate le ragioni per le quali le realtà, né singolarmente, né collettivamente prese, possono dirsi universali, in quanto l'universale si predica di molti, resta che attribuiamo ai soli termini l'essere universale.

Come dunque alcuni nomi sono detti dai grammatici appellativi e certi altri propri, così dai dialettici certe espressioni semplici sono dette universali, altre particolari, cioè singolari.

E' infatti universale il vocabolo che istituzionalmente è atto ad essere predicato di molti presi uno ad uno, come, per es., questo nome "uomo", che si può unire ai nomi particolari degli uomini, per la natura dei soggetti ai quali è imposto.

Singolare, invece, è il vocabolo che si può predicare di uno solo, come "Socrate", quando è considerato nome di uno solo. Se infatti lo si assume equivocamente, non si ha più un solo vocabolo, ma molti per il significato, poiché secondo Prisciano molti nomi possono essere impliciti in una sola espressione verbale.

Quando si definisce l'universale "ciò che si predica di molti", quel "ciò che" preposto non suggerisce solo la semplicità dell'espressione (simplicitatem sermonis) per distinguerlo dai discorsi complessi, ma anche l'unità del significato, per distinguerlo dai termini equivoci.

Chiarito ora che cosa significhi nella definizione di universale il premesso "quod", consideriamo diligentemente le due altre espressioni che seguono, cioè "praedicari" e "de pluribus".

E' "praedicari" la proprietà di essere unito a qualche cosa veracemente, in forza del valore enunciativo del verbo sostantivo presente, come il termino "uomo" validamente può essere unito a diversi individui attraverso il verbo sostantivo. Gli stessi verbi, come "corre", "cammina", predicati di molti hanno la stessa funzione del verbo sostantivo nella copulazione. Per questo Aristotele nel De Interpretatione…. dice: …"Non c'è nessuna differenza tra dire "l'uomo cammina"; e dire "l'uomo è camminante".

Riguardo poi al "de pluribus", Aristotele intende riferirsi ai nomi in relazione alla diversità dei nominati. Altrimenti Socrate si predicherebbe "de pluribus", quando si dice: "questo uomo è Socrate", "questo animale è questa cosa bianca, questo musico". I quali nomi, sebbene siano diversi nel loro contenuto intellettivo, si riferiscono tuttavia alla stessa e identica realtà.

Osserva inoltre che altra è la congiunzione in vista della costruzione, che interessa i grammatici, altra quella in vista della predicazione, che interessa i logici; secondo la validità infatti della costruzione, attraverso "è" si possono egualmente bene unire "uomo" e "pietra", e qualunque nome di caso retto, come "animale" ed "uomo, e ciò solo per quanto riguarda l'esprimere un puro pensato, ma non per manifestare un modo di essere della realtà. L'unione quindi in vista della costruzione è buona, ogni volta che ne risulta un enunciato perfetto, e ciò indipendentemente dal fatto che la realtà sia così oppure no.

L'unione invece in vista della predicazione, di cui ci occupiamo, riguarda la natura delle cose e la manifestazione della verità del loro stato. Se pertanto qualcuno dicesse: "l'uomo è una pietra", ha fatto di "uomo" e "pietra" una costruzione valida per ciò che voleva esprimere, e non ha commesso alcun errore grammaticale; e sebbene in forza del puro enunciato la pietra, qui, si predichi di quomo, in vista del quale è posta come predicato, poiché anche le proposizioni categoriche false hanno un termine che funge da predicato, tuttavia essa non è predicabile di "uomo" secondo la natura delle cose. Ora, quando definiamo l'universale, noi prendiamo in considerazione soltanto il valore e la validità della predicazione.

… Ora, una volta data la definizione dei termini universale e singolare, esaminiamo attentamente la proprietà dei termini universali.

A proposito di questi universali sono sorte delle questioni e soprattutto si discute sul loro significato, in quanto sembra che non abbiano alcuna realtà a cui riferirsi come ad un soggetto, né servire a una valida intellezione di qualcosa. Sembrava cioè che i nomi universali non disegnassero alcuna cosa reale, poiché tutte le cose esistono individue e separate in sé, né come si è dimsotrato, possono convenire in alcuna cosa, e secondo questa poter essere predicati.

Essendo dunque certo che gli universali non si applicano alle cose secondo la differenza che le distingue una dall'altra, poiché altrimenti non sarebbero comuni ma singolari, né possono designare le cose in quanto convengono in qualche realtà, poiché non vi è una realtà in cui le cose convengano, sembra che gli universali non abbiano in sé nessun significato nei confronti delle cose, in quanto soprattutto non costituiscono alcuna valida intellezione di una cosa reale.

Per questo Boezio nelle Divisioni dice che il termine "uomo" introduce un dubbio nell'intendimento, poiché, udito il termine, l'intelletto di chi ascolta è colto da molte perplessità e condotto a molti errori….

Poiché il termine "uomo" è imposto ai singoli individui per una stessa causa, perché cioè sono "animali ragionevoli mortali", la stessa comunità di imposizione è di impedimento a che qualcuno possa in esso capire qualche cosa, come invece in questo nome "Socrate" s'intende la persona propria di uno, onde si dice singolare. Ma nel nome comune "uomo", in forza della voce (ex vi vocis), non s'intende né lo stesso Socrate, né un altro individuo, né l'insieme di tutti gli uomini, e come alcuni sostengono, neppure lo stesso Socrate - in quanto è uomo - è designato da questo nome.

Anche se il solo Socrate sieda in questa casa e per lui solo sia vera questa proposizione: "un uomo siede in questa casa", in nessun modo tuttavia, in forza del nome, il soggetto "uomo" può essere riferito a Socrate, neppure in quanto anche lui è uomo, altrimenti dalla proposizione dovremmo razionalmente intendere che "il sedere" gli appartiene necessariamente, per poter dedurre, dal fatto che un uomo siede in questa casa, che è proprio Socrate che vi siede.

Egualmente neppure un altro può essere designato nel nome "uomo", né l'insieme di tutti gli uomini, essendo la proposizione vera soltanto rispetto ad un solo uomo.

Sembra pertanto che né "uomo", né alcun altro termine universale abbia alcun significato, poiché essi non costituiscono intellezione di alcuna cosa reale. Anzi sembra che non possa esserci intellezione in generale se essa non ha una realtà da intendere. Per cui Boezio dice nel suo Commento: "ogni intellezione intenda la realtà così come è oppure no, suppone l'esistenza di una realtà a cui riferirsi, senza la quale non si può avere nessuna intellezione". Sembra dunque che gli universali siano privi totalmente di qualsiasi significato.

Ma non è così. Infatti, nominandole essi significano in qualche modo le cose diverse, non costituendo tuttavia un significato intellettivo che nasca da queste, ma tuttavia si riferisce alle cose singole. Così, ad es., il termine "uomo" nomina i singoli uomini per una causa comune, per ilfatto cioè che sono uomini, per la qualcosa si dice universale, e costituisce un significato comune, non proprio, che si riferisce ai singoli individui, dei quali esprime la comune similitudine…

….Ma prima consideriamo la causa comune. I singoli uomini, distinti l'uno dall'altro, perché differiscono sia per le essenze che per le forme, come abbiamo sopra ricordato considerando il problema da un punto di vista fisico, in questo tuttavia, convengono: che sono uomini (quod homines sunt). Non dico che convengono nell'"uomo" (in homine), poiché l'uomo non è una res, se non individua e distinta, ma nell'"essere uomini" (in esse hominem).

Ora, se riflettiamo diligentemente, il fatto di essere uomo non è l'uomo, né alcun'altra cosa concreta (non est homo nec res aliqua), così come il "non essere in un soggetto" o il "non aver contrario", o il "non comportare il più o il meno" non costituisce in sé una realtà concreta (res), pur trattandosi, secondo Aristotele, di caratteri in cui convengono tutte le sostanze.

Poiché, infatti, come sopra abbiamo dismostrato, non ci può essere il convenire in una res, se alcune cose convengono fra di loro, bisogna considerare questo convenire non come una res; come ad es. Socrate e Platone sono simili nell'essere uomini, e nel non esserlo sono simili il cavallo e l'asino, per il fatto che ambedue sono detti "non uomo".…

…Per il fatto che non è una qualche realtà, bisogna assolutamente evitare di interpretare il convenire insieme delle cose come se facessimo convenire nel nulla le cose che sono, quando ad es. diciamo che questo e quello convengono nello stato di "uomo", cioè nel fatto che sono uomini. Ma null'altro vogliamo dire se non che sono uomini, e in quanto a questo non differiscono affatto, in quanto, dico, sono uomini, sebbene questo "essere uomini" non possa essere considerato una sostanza.

Chiamiamo poi stato di uomo l'essere uomo, il che non è una res, ed è, come abbiamo detto, la causa comune anche dell'imposizione del nome ai singoli, in quanto essi convengono tra loro. Spesso, infatti, chiamiamo con il nome di causa anche quelle cose che non sono una realtà, come quando si dice: "è stato battuto, perché non voleva andare al foro". Ora il non volere andare al foro, che è posto come causa, non è una realtà.

Possiamo chiamare anche stato di uomo le realtà stesse fondate nella natura umana (res ipsas in natura hominis statutas), delle quali chi impose il nome comune concepì la comune similitudine…

…Considerato il significato degli universali, che è una significazione di cose attraverso la loro denominazione, e mostrata la causa comune dell'imposizione di essi, ricerchiamo che natura abbiano le intellezione, che essi costituiscono nella mente. Ma prima precisiamo la natura di tutte le intellezioni in generale.

Essendo, dunque, sia i sensi che l'intelletto qualità dell'anima, questa è la loro differenza: i sensi si esercitano solo attraverso strumenti corporei e percepiscono soltanto i corpi e le loro determinazioni, come ad es. la vista percepisce una torre o le sue qualità visibili. L'intelletto, invece, come non necessita di uno strumento corporeo, così non gli è necessario avere come sostrato un corpo su cui esercitarsi, ma gli è sufficiente la similitudine della cosa, che l'animo stesso si foggia e verso la quale dirige l'azione della sua intelligenza. Ne deriva che, se la torre viene distrutta o allontanata, la sensazione, che ad essa terminava, perisce, l'intellezione invece resta, avendo l'animo conservata la similitudine della cosa. Ma come la sensazione non è la cosa sentita, verso cui si dirige, così neppure la intellezione è la forma della cosa concepita, ma l'intellezione è una attività dell'anima, per cui essa si dice intelligente, mentre la forma, verso la quale l'attività dell'anima si dirige, è un qualche cosa di immaginario e finto, che l'animo elabora come vuole e quando vuole, quali sono quelle città immaginarie che si vedono in sogno o quella forma dell'opera da eseguire, che l'artista concepisce come modello ed esemplare dell'oggetto da formare, forma che non si può chiamare né sostanze né accidente.

Alcuni, comunque, la chiamano ugualmente intellezione; ad es., chiamano intellezione della torre quella costruzione di torre che si concepisce senza che vi sia la torre, e che contemplo alta e quadrata in una piazza spaziosa. Con questi sembra essere d'accordo Aristotele che, nel Perihermeneias, chiama "similitudini della cosa" le passioni dell'anima, che si dicono intellezioni.

Noi invece diciamo l'immagine similitudine della cosa. Ma nulla si oppone a che anche la intellezione si chiami in certo modo similitudine, poiché in verità l'intellezione concepisce ciò che propriamente si dice similitudine della cosa. Similitudine che noi abbiamo detto essere diversa dalla intellezione, e giustamente.

Mi chiedo, infatti, se quella quadratura e altezza di torre sia una vera forma dell'intelletto, che sia condotto alla similitudine della quantità della torre e della sua composizione. Ma vera quadratura e vera altezza non sono che nei corpi e, se sono qualità finte, né l'intelletto né alcuna vera essenza può essere determinata da esse. Resta dunque che, come è finta la qualità, sia finta anche la sostanza che è soggetto della qualità. Forse anche quella immagine dello specchio, che sembra soggetta alla vista, si può dire che non è nulla, perché nella bianca superficie dello specchio spesso appare una qualità di colore contrario.

Ci si potrebbe poi chiedere se, allorché l'anima sente ed intende contemporaneamente, come quando vede una pietra, anche allora l'intelletto agisca sull'immagine della pietra, o non piuttosto intelletto e senso agiscano insieme sulla pietra stessa. Mi sembra più ragionevole che, in questo caso l'intelletto non abbia bisogno dell'immagine, poiché ha a disposizione la verità della sostanza. Se qualcuno dicesse che dove c'è sensazione, non c'è intellezione, non lo ammetteremmo. Spesso infatti accade che l'anima veda una cosa e ne pensi un'altra, come sanno bene gli studiosi, i quali, mentre vedono con gli occhi aperti le cose presenti, uttavia ne pensano altre di cui scrivono….

Avendo indagata la natura delle intellezioni in generale, distinguiamo ora l’intellezione degli universali da quella dei singolari. Questa è la loro differenza: l’intellezione di un nome universale concepisce un’immagine comune e confusa di molti (communem et confusam imaginem multorum), l’intellezione invece generata da un termine singolare ha per oggetto la forma propria e quasi singolare di una sola realtà, cioè quella che si riferisce ad una sola persona.

Perciò, quando sento la parola "uomo" mi sorge nell’animo una certa rappresentazione che si riferisce ai singoli uomini, in modo che è comune a tutti e propria di nessuno. Quando invece odo "Socrate", sorge nell’animo una forma che esprime la similitudine di una determinata persona. Perciò con questo vocabolo "Socrate", che mi introduce nell’animo la forma propria di uno solo, si certifica e deterimina una certa cosa, invece con la parola "uomo", la cui intellezione si orienta verso la forma comune di tutti, la stessa comunità genera confusione, così che non intendiamo una cosa determinata tra tutte. Onde giustamente si dice che la parola "uomo" non significa Socrate o un altro, perché nessuno in particolare è indicato in forza del nome "uomo", quantunque nomini i singoli. La parola "Socrate" invece, o qualsiasi altro termine singolare, non solo è capace di nominare, ma anche di determinare i soggetti a cui si applica.

Ma poiché abbiamo detto sopra che, secondo Boezio, ogni intellezione deve avere una realtà a cui si riferisce, bisogna vedere come ciò possa convenire alle intellezioni degli universali. Bisogna però notare che Boezio imposta la questione da un punto di vista sofistico, con cui vuol mostrare che l’intellezione degli universali non ha alcun valore. Niente di strano quindi che egli non sostenga questa tesi veramete, ed evitando il falso attesti le ragioni degli altri.

Possiamo chiamare realtà soggetta all’intellezione sia la vera sostanza della cosa, come quando l’intellezione è simultanea alla sensazione, sia la forma concepita di una qualsiasi cosa, quando essa è assente, sia poi questa forma, come abbiamo detto, comune o propria; dico comune quanto alla similitudine dei molti che essa ritiene, anche se tuttavia considerata in sé una cosa singola.

Così, per mostrare la natura di tutti i leoni, si può fare una pittura che rappresenti ciò che non è proprio di nessuno di loro, e poi, per distinguerne uno qualsiasi di essi, farne un’altra che denoti qualcosa di proprio a questo: come se si dipinga un leone zoppicante, o mutilato o ferito dalla freccia di Ercole. Come dunque si può dipingere una figura comune e una singolare, così si può concepire una figura comune e una propria.

Riguardo a questa forma, a cui si rivolge l’intellezione, non è assurdo chiedersi se il nome significhi anche questa; in favore di tali tesi concordano sia l’autorità che la ragione.

Nel primo libro delle Costruzioni, Prisciano, dopo avere dimostrato la comune imposizione degli universali agli individui, sembra collegare a questo un altro loro significato, quello della forma comune, quando dice: "alle forme speciali e generali delle cose, che sono costituite in modo intellegibile nella mente divina, prima di realizzarsi nei corpi, possono attribuirsi anche quelle proprietà per mezzo delle quali si distinguono i generi e le specie della natura delle cose".

In questo passo si parla infatti di Dio, quasi come di un artefice che, volendo comporre un’opera, concepisce prima nell’animo la forma esemplare dell’opera da comporre, su cui poi modellare l’opera; si dice poi che la forma si attua nel corpo, quando sul suo modello si compone la cosa vera.

Ora questa concezione comune si attribuisce bene a Dio, non all’uomo; poiché quelle opere, cioè le nature generali e speciali, sono opere di Dio, non di un artefice umano; come ad es. l’uomo, l’anima, la pietra sono opera di Dio, la casa o la spada, dell’uomo. Dunque casa e spada non sono opere della natura, come le altre, e i loro nomi non si riferiscono a sostanze, bensì ad accidenti, e perciò non sono né generi né specie ultime. E’ giusto quindi attribuire alla mente divina e non a quella umana tali concetti per astrazione, poiché gli uomini, che conoscono le cose solo attraverso i sensi, difficilmente o forse mai riescono a pervenire a questa pura e semplice intellezione, e la conoscenza sensibile degli accidenti impedisce loro di concepire puramente la natura delle cose. Dio, invece, a cui sono aperte tutte le cose che ha create, e che le conosce prima ancora che siano, distingue in esse i singoli stati, né gli è di impedimento il senso, poiché lui solo ha la sola vera intelligenza.

Perciò agli uomini spetta avere opinione più che intelligenza di quelle cose che non hanno toccato col senso, e questo ce lo insegna l’esperienza. Quando infatti pensiamo a una città, che non abbiamo veduta, quando poi vi giungiamo, la troviamo diversa da come l’avevamo immaginata. E così anche credo che abbiamo piuttosto opinione che intellezione di quelle forme intrinseche che non cadono sotto i sensi, come la razionalità, la mortalità, la paternità, lo star seduto.

Tutti i nomi comunque di tutte le realtà esistenti, per quanto è in essi, generano piuttosto intellezione che opinione, poiché colui che li ha trovati ha inteso imporli secondo certe nature o proprietà delle cose, anche se egli stesso non sia stato capace di scoprire bene la natura o la proprietà della cosa.

Prisciano poi chiama questi concetti comuni o generali o speciali, poiché ce li suggeriscono ogni volta i nomi generali e speciali. In rapporto a queste concezioni, egli afferma che gli stessi termini universali sono quasi come i nomi propri, poiché – sebbene essi abbiano un significato indeterminato -, per quanto riguarda le essenza designate subito orientano lo spirito di chi ascolta verso quel concetto comune, come i nomi propri orientano verso quella singola realtà che significano.

Lo stesso Porfirio, quando dice che alcune cose sono costituite di materia e di forma, ed altre a somiglianza della materia e della forma, sembra avere inteso parlare, quando dice "a somiglianza della materia e della forma" di questi concetti, come si dirà più ampiamente a suo tempo.

Anche Boezio sembra riferirsi a questo stesso concetto comune quando dice che il genere o la specie sono un concetto ricavato dalla similitudine di molti.

Alcuni pensano che anche Platone fosse di questo parere, che cioè chiamasse genere o specie quelle idee comuni che pone nel "pensiero" (quas in noy ponit). Che in questa questione Platone forse dissenta da Aristotele, lo ricorda Boezio, quando dice che Platone sostiene che i generi e le specie e consimili non soltanto sono pensati come universali, ma anche esistono e sussistono separati dai corpi, come se dicesse che quelle concezioni comuni che Platone pone separate dai corpi nel "pensiero", le considerasse come universali, forse non assumendo l’universale secondo la comune predicazione, come fa Aristotele, ma piuttosto secondo la comune similitudine di molti. Quella concezione infatti sembra in alcun modo potersi predicare di molti, come invece il nome, che si riferisce singolarmente ai molti.

Si può anche interpretare diversamente quello che Boezio attribuisce a Platone, cioè che gli universali sussistano fuori del sensibile, in modo che non vi sia dissenso tra il pensiero dei due filosofi. Quando infatti Aristotele dice che gli universali sussistono sempre nelle cose sensibili, lo afferma rispetto ad una sostanza "in atto", poiché, ad es., quella natura che è animale, che è designata con un nome universale e che, per questa ragione, in virtù di una trasposizione, si dice universale, non esiste mai in atto se non in una realtà sensibile.

Platone invece pensa che essa sussista in sé "naturalmente" (naturaliter), così da conservare il suo essere indipendentemente dalla realtà sensibile, e questo essere naturale giustifica l’uso di un nome universale. Quello che dunque Aristotele nega riguardo all’atto, Platone, studioso della fisica, la attribuisce ad una potenza naturale, e così non vi è più alcun dissenso tra loro.

Considerato il parere delle autorità, che sembrano tutte sostenere che i nomi universali designano le forme comuni concepite dall’intelletto, sembra che anche la ragione sia d’accordo. Concepirle infatti per mezzo dei nomi, cosa altro è se non significarle mediante questi nomi? Ma perché consideriamo queste forme distinte dall’intellezione, oltre alla realtà e all’intellezione ci si presenta come terzo il significato dei nomi. Benché questa tesi non sia suffragata da nessuna autorità, tuttavia non è contraria alla ragione.

Precisiamo ora quello che prima avevamo promesso di risolvere: se la comunità dei termini universali dipenda da una causa comune dell’imposizione del nome, o dalla concezione comune, o da tutte e due insieme.

Ora nulla si oppone a questa terza ipotesi, ma sembra avere maggior valore la causa comune, che si desume dalla natura delle cose"…

….Si deve risolvere anche quello che abbiamo ricordato sopra, cioè che l’intelligenza degli universali si realizza per astrazione e perché li chiamiamo soli, nudi, puri, ma non vani.

Ma prima parliamo dell’astrazione. Bisogna sapere che materia e forma esistono sempre assieme unite, tuttavia la ragione ha la capacità di considerare ora la materia per sé, ora la sola forma, ora tutte due insieme.

Le due prime operazioni si compiono per astrazione, poiché astraggono qualcosa da ciò che è unito, per considerarne a parte la natura. La terza operazione, invece, si compie per congiunzione. Ad es., la sostanza di quest’uomo è corpo, animale, uomo, ed è riverstita da infinite forme; ora, quando la considero nell’essenza materiale di sostanza, prescindendo da tutte le forme, ho un concetto per astrazione. Se poi ancora considero in essa la sola corporeità, che congiungo alla sostanza, anche questo concetto, nonostante sia per congiunzione rispetto al primo, che considerava solo la natura della sostanza, sorge ancora per astrazione, in quanto prescindo dalle forme differenti dalla corporeità, come l’animazione, la sensibilità, la razionalità, la bianchezza, delle quali appunto non mi curo.

Tali intellezioni per astrazione potevano forse apparire false o vane, perché apprendono la realtà diversamente da come sussiste. Infatti, considerando la materia o la forma separatamente, mentre nessuna di esse esiste separata, sembrano concepire la cosa diversamente da com’è, e quindi essere vuote.

Ma non è così. Se si pensa infatti una cosa diversamente da come essa è, nel senso di attribuirle una natura o proprietà che essa non ha, allora questa intellezione è senz’altro vuota. Ma non è questo, che accade nell’astrazione. Quando infatti considero in quest’uomo soltanto la natura della sostanza o del corpo, senza curarmi del fatto che è anche animale o uomo o grammatico, certamente non prendo in considerazione alcuna proprietà che non gli appartenga, solo che non mi interesso di tutte le proprietà che ha. E quando dico che l’attenzione si rivolge ad essa soltanto, in quano ha questa proprietà, quel "soltanto" si riferisce all’attenzione, non al modo di esistere, altrimenti il concetto sarebbe vuoto.

Tale reltà infatti non ha solo questa proprietà, ma è considerata soltanto dal punto di vista di questa proprietà che ha. E si dice tuttavia che è intesa diversamente (aliter) da quello che è, ma comunque non altra da quello che è (non alio quidem statu quam sit), come si è detto sopra, ma solo diversamente, poiché altro è il modo di essere pensata, altro quello di esistere.

Questa realtà infatti è considerata separatamente da un’altra (separatim), ma non separata (non separata), poiché in verità non esiste separata; e si percepisce la materia nella sua purezza e la forma nella sua semplicità, mentre né quella esiste nella sua purezza né questa nella sua semplicità, così che quella purezza e questa semplicità si riferiscono non al modo di essere pensata; si tratta cioè di modi di essere pensata, non di esistere.

Anche i sensi spesso colgono diversamente i corpi composti; se, per es., c’è una statua metà oro e metà argento, posso cogliere separatamente l’oro e l’argento pur mescolati, ora cioè scorgendo l’oro ora l’argento, cogliendoli separatamente ma non separati, infatti non sono separati, ma congiunti. Così l’intelletto per astrazione considera separatamente le realtà, ma non le pensa separate, altrimenti sarebbe vano…

Può tuttavia considerarsi valida anche l’intellezione che considera cose tra loro congiunte come divise, oppure cose divise come congiunte. Sia la congiunzione, infatti, che la divisione delle cose può essere intesa in due modi diversi. Diciamo, infatti, tra loro congiunte alcune cose in forza di una certa somiglianza, come questi due uomini per il fatto che sono uomini grammatici, altri invece per una certa opposizione e aggregazione, come la forma e la materia, il vino e l’acqua. Quelle cose che sono in tale modo congiunte l’intelletto le può considerare divise, e cose in tal modo divise, le può concepire congiunte.

Per questo Boezio attribuisce questa capacità al pensiero, di potere cioè razionalmente unire cose disgiunte e dividere cose unite, senza però, in ambedue i casi, eccedere i limiti della natura, ma solo percependo ciò ch è nella natura delle cose. Altrimenti non avremmo conoscenza razionale, ma opinione, cioè se il pensiero deviasse dallo "status" della realtà….

…Ora, dopo avere a lungo trattato della natura dell’astrazione, ritorniamo a parlare dell’intellezione degli universali, la quale è sempre necessario che si realizzi per astrazione. Quando infatti sento la parola "uomo" o "bianchezza", in forza del termine non penso a tute le nature o proprietà che ineriscono nelle cose in considerazione, ma ad es., attraverso la parola "uomo" ho soltanto il concetto di "animale–razionale–mortale", e non degli eventuali accidenti: concetto tuttavia indeterminato e indistinto.

Anche l’intellezione delle cose singolari si realizza per astrazione, come quando si dice: qusta sostanza, questo corpo, questo animale, quest’uomo, questa bianchezza, questo bianco. Infatti, attraverso l’espressione "questo uomo", considero soltanto la natura dell’uomo, ma riguardante un certo uomo singolo, invece attraverso il termine "uomo" considero quella stessa natura, ma semplicemente in sé e per sé, non in rapporto a qualcuno degli uomini.

Giustamente quindi l’intellezione degli universali si dice sola e nuda e pura; sola, rispetto ai sensi, poiché non coglie la realtà nella sua sensibilità; nuda, in forza della astrazione dalle forme o tutte o alcune; pura totalmente quanto alla distinzione poiché nessuna realtà, o che sia materia o forma, in essa è precisata, essendo una intellezione indeterminata, come abbiamo sopra detto….

Premesse tutte queste considerazioni, veniamo ora a risolvere le questioni poste da Porfirio intorno ai generi ed alle specie, e le possiamo sciogliere facilmente, avendo già chiarita la natura di tutti gli universali.

La prima questione era questa: se i generi o le specie esistano in sé, cioè significhino una certa vera esistenza, oppure siano posti nel solo intelletto etc., cioè siano posti in una conoscenza opinabile e vuota e senza realtà; come ad es., questi termini: chimera, ircocervo, che non producono valida conoscenza.

A questo dobbiamo rispondere che, in verità, attraverso la denominazione essi significano realtà veramente esistenti, quelle stesse cioè che significano i nomi singolari, e in nessun modo sono posti in una conoscenza opinabile e vuota; tuttavia, come abbiamo già dimostrato, sono in certo modo nell’intelletto solo e nudo e puro…

La seconda questione è questa: se, esistendo, sono corporei o incorporei, cioè, ammesso che significhino realtà esistenti, se significano realtà esistenti che sono corporee o incorporee… Come se colui che pone la questione dicesse: vedo che, delle cose esistenti, alcune si dicono coporee altre incorporee: a quale dei due tipi diciamo appartenere le realtà che sono significate dagli universali?

A cui si risponde: sono in certo modo corporee cioè distinte e determinate nella loro essenza, e incorporee quanto alla designazione del termine universale, poiché non le denomina distintamente o determinatamente, ma in modo comune, come sopra abbiamo abbastanza dimostrato. Per cui, anche i termini stessi universali si dicono corporei quanto alla natura delle cose, e incorporei quanto al modo della significazione, poiché, anche se indicano realtà che sono distinte e determinate, non le indicano in modo distinto e determinato.

La terza questione, se cioè sono posti nelle cose sensibili etc. deriva dall’avere concesso che sono incorporei, poiché l’incorpreo, una volta in certo modo ammesso che sia, si divide secondo che è nelle cose sensibili o no, come sopra abbiamo ricordato. E gli universali si dicono esistere nelle cose sensibili, cioè significare l’intrinseca sostanza esistente nella realtà sensibile, in forza delle forme esteriori, e mentre significano quella sostanza che "attualmente" sussiste nella realtà sensibile, tuttavia mostrano la stessa anche "naturalmente" separata dalla realtà sensibile, come abbiamo sopra precisato, seguendo Platone.

Onde Boezio dice che i generi e le specie sono conosciuti separati dai sensibili, ma che non esistono separati, cioè che le realtà dei generi e delle specie, quanto alla loro natura, sono colte razionalmente in sé oltre ogni aspetto corporeo, poiché possono veramente esistere in sé stesse, tolte le forme esteriori a causa delle quali diventano sensibili.

Concediamo infatti che tutti i generi e le specie esistono nelle cose sensibili, ma poiché – come sopra dicevamo – la loro intellezione è sempre "sola" indipendente dai sensi, in alcun modo sembrano esistere nelle cose sensibili. Per cui giustamente ci si domandava se mai possono essere nelle cose sensibili, e si rispondeva intorno ad alcuni che esistono (nelle cose sensibili), ma in modo tale che, come si è detto, possano anche sussistere "naturaliter" oltre la sensibilità…

….Et circa ea constantia. Poiché ci sembra in proposito emergere una quarta questione, come sopra abbiamo accennato, questa è la nostra soluzione, che cioè in nessun modo ammettiamo che siano universali i nomi a cui non corrisponda più una realtà, poiché in questo caso non sono più predicabili di molti ed inoltre non sono più comuni ad alcuna cosa il nome "rosa" non esistendo più alcuna rosa; nome tuttavia che è ancora concettualmente significativo, sebbene manchi di denotazione, altrimenti non avremmo la proposizione: "nessuna rosa è".

Giustamente quindi i quesiti si ponevano intorno ai termini universali e non intorno a quelli singolari, poiché non si dubitava del valore significativo dei termini singolari; infatti il modo della loro significazione ben si concordava con lo "status" delle cose. Come infatti esse sono in sé distinte, così sono dai termini particolari distintamente significate e la loro intellezione coglie una realtà determinata, il che non accade con i termini universali.

Inoltre gli universali, non potendo significare le cose nella loro concreta distinzione, sembravano anche non poter significare la loro conformità di natura, in quanto ciò in cui essi convengono non è una res (cum nulla sit res, in qua conveniunt), come abbiamo dimostrato sopra.

Essendo così grave il dubbio sugli universali, Porfirio delimitò il problema solo ad essi, escludendo i termini singolari, in quanto per sé sufficientemente chiari, sebbene occasionalmente talvolta tratti anche di essi, in rapporto agli altri.

C’è da notare inoltre che, sebbene la definizione di universale o del genere o della specie includa soltanto i termini (solas voces), spesso tuttavia questi nomi vengono applicati alle cose che essi significano, come quando si dice che la specie consta del genere e della differenza, cioè la res della specie deriva dalla res del genere. Quando infatti si spiega la natura dei termini secondo il loro significato, si trattta talvolta dei termini, talvolta delle cose, e frequentemente i nomi di questi si trasferiscono ad essa e viceversa…

E’ inoltre da osservare che il termine comune, essendo quasi una res individua nella sua essenza, è comune in forza della denominazione nella significazione di molti, e per questo è predicabile di molti non secondo la sua natura fisica, ma in forza della sua capacità significativa.

Tuttavia la molteplicità delle cose stesse è la causa originaria della universalità del nome, poiché come abbiamo ricordato sopra, è universale solo in quanto contiene più cose; tuttavia l’universalità che la realtà conferisce alla parola, la realtà non la possiede in se stessa.

Trad. B. Maioli