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3. Tipologia delle defezioni

Il 28 febbraio 1306 fr. Giordano da Pisa predica in SMN sul tema Quecumque dicunt vobis servate et facite, secundum opera vero eorum nolite facere (Mt. 23,3). Nel contesto del cattivo discepolo che ricalca i vizi del cattivo maestro, ammonisce i fiorentini a non indulgere a giudizi avventati sulla condotta dei prelati; né dei religiosi:

Anzi giudicano eziandio coloro i quali queste cose del mondo non hanno, i religiosi. Se vedranno alcuna cosellina di fuori non tutta così onesta o composta come si converrebbe, sì ’1 reputa che sia grande fallo e degno di male, colà ove molte volte non avrà se non peccato veniale. Or come possono essere peccatori, che ssi confessano ognendì? Or si trovassero degli altri òmini, che de’ cento l’uno fossero sanza peccato mortale! E perché alcuno n’avesse ne la religione, dee pensare che quando e’ v’ha correzione e disciplina, che de le due cose fia l’una: o egli s’amenderà, essendone gastigato e disciplinato, e s’egli non si amenderà, saranne cacciato. Dee pensare che la religione è come ’1 mare, che non può tenere grande tempo la puzza, che non la getti fuori immantenente (Quaresimale fiorentino, ed. C. Delcorno, Firenze 1974, 141-42).

Umberto da Romans sembra di diverso avviso, e rimprovera ai prelati eccessiva acquiescenza, somiglianti come sono ai borghesi di città inclini a soddisfare senza alcun freno i capricci dei figli, che alla fine rovinano sé e i genitori (Opera de vita regulari I, 584; cf. anche pp. 539-43, 578-84). E sempre in clima urbano, il cronista fr. Salimbene di Guido di Adamo OFM (1281-88) riferisce che i fiorentini non facevano gran conto delle defezioni dei frati, almeno dei frati Minori, visto che il loro temperamento li inclinava a stemperare l’umore antiecclesiastico nella beffa anziché arroventarlo nell’indignazione.

Cronica, ed. G. Scalia, Bari 1966, 117: «Quod Fiorentini sunt valde solatiosi homines. Unum vero pretereundum non est, quod Fiorentini non habent malum exemplum, si aliquis Ordinem fratrum Minorum egreditur, immo excusant eum dicentes: Miramur quod tantum ibi stetit, cum fratres Minores sint homines desperati, qui diversimode se affligunt». Cf. F. SUITNER, La poesia satirica e giocosa nell’età dei comuni, Padova 1983, 90: «Il tono è quello della scrollata di spalle».

E anche quando il Fiore (autorevolmente rivendicato a Dante Alighieri) importa a Firenze la virulenza antimendicante di Jean de Meun del Roman de la rose, Falsembiante veste «la roba del buon frate Alberto» (Fiore 88, 13) e trascorre coro taverna e alcova non perché abbia in proposito d’abbattere l’edificio conventuale ma per insediarvisi in quegli interstizi che la legalità della forma consegna impunemente all’ipocrisia dei fatti. Non si esporrà più alla sorte d’un Sigieri di Brabante o d’un Guglielmo di Sant’Amore (Fiore 92) ma incarnerà il vizio inerente all’istituzione conventuale, con questa compossibile e da questa coperto (88).

Egli è ben ver ched i’ son traditore (…)

ma i’ fo il fatto mio sanza romore (99, 9.12).

C’è molto di più e di diverso dalla satira antifratesca. Falsembiante, in figura diaboli, porta confusione tra “dentro” e “fuori”. Si contesta ormai all’ordine religioso d’esser capace di garantire testimonianza evangelica sul discrimine del dentro e fuori di sé. Prevarica il frate e prevarica il garante dell’istituzione; l’uno e l’altro fa il fatto suo sanza romore.

In effetti il severo quadro della legislazione canoníca in materia può difficilmente presumere di rispecchiare lo stato reale delle cose. Da una parte la prassi giuridica avallata dai decretalisti e dalla Glossa, che fa leva sull’ampia discrezionalità esegetica di talune nozioni (si pensi a quella di religio arctior), dall’altra gl’interventi d’istanze ecclesiastiche intermedie creano nuovi spazi di legalità e impreviste varietà di esiti tra il fitto intreccio di autorità esercitata sul campo da più istituzioni o prelati ecclesiastici tra loro contendenti, non senza il concorso talvolta della pressione consortile e delle stesse autorità comunali. È quanto s’intravede nella documentazione qui raccolta, sebbene la frammentarietà e casualità del residuo documentario raramente permetta di ricostruire l’intero iter d’un singolo caso e di trarre in luce tutti gli agenti che vi concorrono. Fr. Giovanni da Bondeno (Ferrara) OP - di cui fr. Salimbene ha ricordi piccanti - apostatò dopo dieci anni di vita conventuale, ma gli riuscì d’entrare tra i canonici di San Frediano di Lucca e successivamente d’ottenere il canonicato nella chiesa cattedrale di Ferrara».

«Iste fuit Iohannes de Bondeno Ferrariensi, qui x annis stetit in Ordine fratrum Predicatorum et postea apostatavit et intravit Ordinem canonicorum Sancti Frigdiani de Luca et cum eis fuit aliquibus annis; postea inde egressus factus est canonicus Ferariensis in matrice ecclesia» (Cronica, ed. G. Scalia, Bari 1966, 618).

Contro fr. Niccolò da Vercelli OP erano stati provati errori di fede (non si dice quali). Espulso dall’ordine per decisione del sottopriore e convento d’Alessandria, Niccolò si era rifugiato nel monastero cistercense di Lucedio, diocesi di Vercelli. Per sottrarsi agli inquisitori, che per autorità d’Innocenzo IV († 1254) avevano ingiunto all’abate di consegnare il colpevole, Níccolò valica le Alpi e trova rifugio in altro monastero cistercense. Il maestro dell’ordine Umberto da Romans espone il caso ad Alessandro IV. Costui il 27 luglio 1255 dà ordine ai prelati d’oltralpe di costringere, anche con censure ecclesiastiche se necessario, abati e monasteri cirstercensi dei loro territori a consegnare fr. Niccolò a fr. Ranieri da Piacenza OP inquisitore di Lombardia (ASV, Fondo Domenicani, pergam. n° 322: Anagni 27.VII.1255). I cistercensi d’oltralpe avranno mai riconsegnato fr. Niccolò all’inquisitore?

Dilectus filius frater H. magister ordinis fratrum Predicatorum nobis significare curavit quod cum fr. Nicolaus Vercellensis tunc eiusdem ordinis apud Alexandriam in multis esset circa fidem catholicam erroribus deprehensus, tandem errores ipsos fuit coram  .  .  suppriore ac conventu loci eiusdem sponte confessus, propter quod ab eodem ordine per dictum suppriorem eiectus, ad monasterium de Locedio cisterciensis ordinis vercellensis diocesis convolavit. Sed idem fr. N., inquisitorum heretice provitatis, qui de speciali mandato felicis recordationis Innocentii pape predecessoris nostri   .  .  abbatem et conventum eiudem monasterii ad exhibendum ipsum sibi cogere poterant, iudicium metuens ad aliud monasterium eiusdem ordinis ultra montes se dicitur transtulisset. Ne igitur ex pestifera ipsius fratris conversatione religiosis viris vel aliis heretice infectionis periculum generetur, dilectos filios universos, abbates et conventus ordinum cisterciensis, premonstratensis et aliorum ad quos littere nostre pervenerint rogandos attentius duximus et hortandos (...) iniungentes ut eundem fratrem N. si apud aliquos eorum fuerit, dilecto filio fr. Raynerio nel quibuslibet alii eiusdem ordinis Predicatorum inquisitoribus heretice pravitatis in Lombardia vel eorum singulis examinandum et iudicandum assignare procurent. Quocirca fraternitati vestre per apostolica scripta mandamus quatinus si dicti abbates et conventus preces nostras et quod eis iniungimus neglexerint adimplere, singuli vestrum eos... per censuram ecclesiasticam appellatione postposita compellatis... (ASV, Fondo Domenicani, pergam. n° 322),

Il più documentato caso di fr. Iacopo di Gino da Calenzano corre sul binario della più assoluta legalità. Eppure non rimuove del tutto il sospetto che questa validasse un esercizio compromissorio del potere ecclesiastico. La legalità assicurata all’individuo appare funzionale alla degradazione dell’istituzione. Ottenuta licenza dal provinciale Romano fr. Iacopo da Pistoia (28 giugno 1305) di passare ai benedettini di San Godenzo in Alpi (diocesi Fiesole), il 10 luglio 1305 fr. Iacopo da Calenzano rinnova la professione nelle mani dell’abate Piero. Se l’autorizzazione a passare ad altro ordine tace sulle motivazioni e vien incontro con avaro linguaggio cancelleresco all’«instantiam qua ordinem alium intrare petebat», nell’atto di professare tra i benedettini Iacopo è in cerca d’una pace superiore («querens maiorem pacem») e della salvezza della propria anima («pro salute sue anime»). Ma il giorno stesso della nuova professione, 10 luglio 1305, l’abate autorizza l’ormai dom Iacopo a vivere fuori monastero con ampio spazio d’autonomia e ad accettare benefici ecclesiastici. Iacopo non perde tempo. Il 13 febbraio 1306 sollecita benefici dal vescovo fiorentino Lottieri della Tosa. In autunno 1308 gli vien concesso il beneficio di Santa Maria tra le due Marine, nel piviere San Donato a Calenzano, diocesi di Firenze, certi come si è che parrocchia e suoi diritti «per ipsum dompnum Iacobum et suos conservabuntur et, dante Domino, augebuntur» (sotto la data 20.X.1308). Il notaio ser Giovanni di Gino da Calenzano, dunque fratello di Iacopo, o roga gli atti o vi compare in qualità di testimone. Non appena a Lottieri della Tosa succede sul finire del 1309 Antonio dell’Orso, Iacopo presenta il 17 febbraio 1310 al nuovo vescovo fiorentino il dossier documentario per metterlo al corrente del proprio stato giuridico e dei diritti acquisiti («ad docendum et ostendendum de iure suo»). Antonio, quando vescovo di Fiesole 1301-1309, nelle costituzioni diocesane del 1306 aveva dettato severe norme contro la pratica d’investire della rettoria e relativi benefici delle chiese diocesane i religiosi viventi fuori del chiostro.

R. Trexler, Synodal Law in Florence and Fiesole, 1306-1318, Città del Vaticano (Studi e Testi 268) 1971, 184-85. L’esibizione del dossier documentario di Iacopo da Calenzano, comprovante la legalità del suo stato e suoi diritti, risponde a quanto stabilito dalle medesime costituzioni fiesolane del 1306 (ib. pp. 211-12), che Antonio rinnoverà come vescovo fiorentino nelle costituzioni del 1310 (p. 276).

Illustriamo qualche caso fiorentino relativo ad altri ordini.

Il 7 marzo 1292 Leonardo, familiare del cardinal Matteo d’Acquasparta OFM, presenta lettera del cardinale, data in Roma il 3 marzo precedente, a fr. Ranieri dei Piccolomini da Siena OFM ministro di Firenze; in essa il cardinale ingiunge a fr. Ranieri di riaccogliere nell’osservanza dell’ordine dei Minori fr. Giovanni di mr Neri dei Pegolotti, che aveva receduto dall’ordine «propter debilitatem et infirmítatem proprii corporis», o d’accordargli in subordíne licenza di passare ad altra regola (ASF, Notar. antecos. 4111 (già C 102), f. 105r: 7.III.1291/2). La salute cagionevole, motivo ufficiale dell’inabilità a vivere in convento, non impedisce a fr. Giovanni di passare alla regola benedettina, regola «arctior» a giudizio del diritto ecclesiastico. Il 17 luglio 1294 «donnus Iohannes de Pegolottis» monaco di San Godenzo in Alpi e Bertino del fu mr Arrigo dei Pegolotti del popolo Santa Felicita, in qualità di procuratori del monastero benedettino, locano terre del medesimo monastero a Contessa, vedova di mr Neri dei Pegolotti, cioè madre di Giovanni (ASF, Notar. antecos. 4111, f. 148r: Firenze 17.VII.1294).

Testamento di mr Lotteringo del fu Orlandino dei Pegolotti, 9.V.1258; vi compaiono Rinaldo del fu Pegolotto, Ranieri del fu Guidalotto, Lotteringo e Chiaro del fu Ubertino di Pegolotto (Fineschi 147-48; Dossier 193-95). Lotteringo [d’Ubertino] dei Pegolotti giudice (ASF, Notar. antecos. 11252, f. 45v: 24.VII.1276, dove compare anche «d. Contessa uxor Neri de Pegolottis»; Notar. antecos. 997, f. 26r: 27.II.1276/7). Neri dei Pegolotti del sesto d’Oltramo giura (22.II.1280) come ghibellino la pace patrocinata dal card. Latino Malabranca (La pace 236).

Fr. Paolo degli Abati OFM aveva abbandonato l’ordine intomo al 1302; un libro di suo possesso passa a fr. Bonanno con riserva di restituzione se fr. Paolo tornasse all’osservanza (Ch.T. Davis, The early collection of books of S. Croce in Florence, «Proceedings of the American Philosophical Society» 107 (1963) 402b).

Fr. Giovanni del fu ser Barzetto da Volterra OFM era stato ammesso tra i monaci camaldolesi. Il 4 aprile 1314 il vescovo fiorentino Antonio dell’Orso, «conservator privilegiorum ordinis fratrum Minorum», convoca Romualdo abate dei camaldolesi fiorentini, procuratore del priore generale Accorso, perché renda ragione del caso. Romualdo dichiara che non è intenzione di Accorso di rivendicare diritti su Giovanni, e che se questi aveva professato nell’ordine camaldolese, tale professione è da ritenersi invalida perché contraria al privilegio accordato da Alessandro IV (1254-61) ai frati Minori circa i professi del medesimo ordine; che di tale privilegio il priore generale Accorso era venuto a conoscenza soltanto molto tempo dopo la recezione di fr. Giovanni, e che costui pertanto «tamquam professus ordinis fratrum Minorum ad ipsos fratres et ordinem legitime revocetur et redire cogatur» (ASF, Notar. antecos. 5212, ff. 135r-136r: 4.IV.1314).

Placido del fu mr Ranieri di Boccatonda, monaco vallombrosano per quindici anni, aveva disertato il monastero da lungo tempo. Il 28 febbraio 1280 chiede d’esser riaccolto nell’ordine. L’abate di San Bartolomeo a Ripoli, Francesco, a nome dell’abate generale Valentino, gli rende l’abito vallombrosano, «celebratis ibidem canonice omníbus que ad tale officium pertinent». Subito dopo, Placido fa donazione all’ordine di tutti i suoi beni «que possidebat generaliter et habebat et que fuerunt d. Rainerii Bocchatonde olim patris sui». Iacopa, vedova di Donato di Boccatonda (verosimilmente fratello di mr Ranieri e dunque zio di Placido), contesta siffatta donazione e rivendica a sé i beni a titolo di dote e alimenti (ASF, Riformagioni 28.II.1279). La lite era stata portata al banco dei giudici del capitano e del podestà di Firenze. L’8 giugno 1281 l’abate generale di Vallombrosa Valentino e i suoi monaci, «volentes pro bono pacis... super lite et questione predicta transigere», dànno mandato a Bandino converso d’accedere alle richieste di Iacopa, sebbene si riconoscano il buon diritto sulle terre con case donate all’ordine da Placido.

ASF, Riformagioni 28.11.1279: «Cum dompnus Placidus monachus monasterii et ordinis Vallisumbrose, qui seculariter vivens Boccatonda dicebatur, recognovisse se non in statu salvandorum sed istigante diabolo ab ipso ordine longo tempore deviatum in anime sue periculum permanere, asserens se... habitum absumpsisse et professionem fecisse in monasterio supradicto Vallisumbrose et stetisse monacum et abbatem per annos quidecim et amplius in ordine supradicto..., petiit sibi dari et restitui habitum ordinis supradicti Vallisumbrose, promittens et dicens se velie redire ad religionem predictam». Nota di mano coeva aggiunta in calce, marg. destro, della pergamena: «die xxi augusti. Bandinus sindicus monasterii Vallisumbrose produxit hoc instrumentum nomine dicti monasterii ad probandum defens(ionem) cause quam habet cum d. Iacoba uxore olim Donati et Spilglato eius procuratore». In base al doc. successivo, il 21 agosto va qui inteso del 1280.

ASF, Riformagioni 8.VI.1281: «d. Iacopa uxor condam Donati Baccatonde» rivendicava terre con case site presso l’abbazia di Ripoli; «quas terras dompnus Placidus, filius et heres condam d. Raneri Boccatonde, monasterio Vallisumbrose dedicavit, cum in predicto monasterio devovit professione regulariter, licet eadem d. Iacopa dicat predictas terras pro dote et donatione sua ad se pertinere et pro suis alimentis in possessione fuisse dictarum terrarum». Il podestà fiorentino, davanti al cui giudice la causa era stata discussa, era «d. Petri Stephany tunc Florentie potestatis» ( ib.); podestà nel 1280 (Pieri, Cronica 43).

Il capitolo generale dei Vallombrosani 1258 proibisce recezíone di qualsiasi apostata da altro ordine; quello del 1272 ribadisce la proibizione, regola i casi pendenti, definisce gli apostati: «Appostatas autem dicimus in hoc casu omnes religiosos, qui primam professionem et primun obedientie votum in Vallimbrosano ordine non fecerunt»; quello del 1282, presieduto dall’abate Valentino, riconferma le disposizioni del 1272 (Acta capitulorum generalium Congregationis Vallis Umbrosae, a c. di N.R. Vasaturo, Roma 1985, 93, 100-01, 113).

E gettiamo uno sguardo sui domenicani della provincia Romana.

caso "fr. Iacopo da Foligno detto il Tignoso"

Capitolo provinciale Todi 1301, convocato il 14 settembre: «Fratres Iacobum de Fulgineo dictum Tiniosum carceratum Ananie, Bartholinum Thudertinum carceratum Perusii..., sententiamus eos eiiciendos ab ordine sicut incorrigibiles» (MOPH XX, 140/24-29).

Luogo d’origine, coincidenza cronologica, carcerazíone 1301 in Anagni (dove papa Bonifacio VIII risedette a lungo, specie nei mesi estivi), mi fanno credere che il “fr. Iacopo priore di Santa Sabina” senz’ulteriori specificazioni antroponimiche, a fianco dei Colonnesi contro Bonifacio VIII, ricettato in Santa Croce a Sassovivo (diocesi di Foligno), incarcerato da Bonifacio, altri non sia che fr. Iacopo Tignoso da Foligno espulso dal CP Todi 1301. Fortunosa ricomposizione di frammenti sparsi ricostruisce cornice significativa della drammatica fine di fra Iacopo detto il Tignoso.

Nella contesa tra Bonifacio VIII e i cardinali Colonna, fr. Iacopo priore del convento Santa Sabina in Roma si schiera con Giacomo e Pietro Colonna. In prima linea, se è messaggero dei due cardinali presso il re di Francia Filippo il Bello. Sulla via del ritorno, viene catturato in Lione dagli emissari papali e messo ai ceppi. Muore in carcere ed è sepolto fuori terra consacrata.

Atti del processo (1311) contro Bonifacio VIII, deposizione del card. Pietro Colonna: «Precipue autem misse fuerunt [scil. littere Columpnensium] dicto regi Francie per religiosum virum et hominem magne litterature, fratrem Iacobum de ordine Predícatorum, priorem Sancte Sabine de Urbe, qui pervenit ad regem, prout nobis assertum fuit, et benigne per eum fuit receptus, secrete tamen, ut dicitur. Et dum rediret a rege, in Lugduno per insidias et mandatum Bonifacii vel eius auctoritate captus fuit, et in compedibus ferreis et catenis artatus in duro carcere et ibidem crudeliter vita functus et cum cathenis et compedibus ferreis extra cimiterium sepultus» (L. Mohler, Die Kardinäle Jakob und Peter Colonna. Ein Beitrag zur Geschichte des Zeitalters Bonifaz’ VIII, Paderborn 1914, 259).

Verosimilmente proprio quando latore al re Filippo dei manífesti antibonifaciani di Palestrina, maggio e giugno 1297, sulla via per la Francia fr. Iacopo aveva evitato le rotte occidentali controllate dagli armigeri papali ed era stato ospitato in Sant’Angelo di Camerino, priorato benedettino dipendente dall’abbazia Santa Croce a Sassovivo presso Foligno, col consenso dell’abate Angelo da Montefalco. In un esposto contro l’abate Angelo di qualche anno dopo, probabilmente prima di ottobre 1303, il monaco Benedetto accusa l’abate di «ghibellinismo» perché fautore dei cardinali Colonna e d’aver ricettato fr. Iacopo OP apostata.

«Item quod quidam apostata de ordine Predicatorum nomine Iacobus, qui fuit dereptus de mandato Romane Ecclesie ex eo quod steterat Penestre cum íllis de Columpna, stetit maxime [sic] tempore in ecclesia Sancti Angeli de Camerino, ipso abbate sciente, cui et suo monasterio pleno iure subiecta». «Item, R. qui dicebatur prior Sancti Angeli de Camerino, ad dictum monasterium pertinentis, retinuit quendam [quidam cod.] fratrem Iacobum in ipsa ecclesia, qui stetit cum illis de Columpna Penestre, in rebellione Ecclesie erant et in captivitate de mandato Ecclesie, in ipso Cammerino, monachis scientibus et non contradicentibus»: F. Bartoloni, Una denunzia in materia di Inquisizione tra la fine del secolo XIII e l’inizio del XIV, «Bullettino dell’istituto storico italiano per il Medio Evo» 66 (1954) 71, 75.

S. NESSI, Biografia critica di Iacopone da Todi, «Il Santo» 46 (2006) 55-102, specie pp. 81-87 contestazione antibonifaciana. AA.VV., OSPITARE, CURARE, SOVVENIRE, RECLUDERE. Ospitali nella storia di Foligno, a cura di Fabio Bettoni, Foligno (Associaz. Orfini Numeister) 2011, pp. 529 (abbazia Santa Croce a Sassovivo).

 ■ fr. Pietro d’Atri

Implicato nel medesimo conflitto tra papa Bonifacio e i Colonna, per posizioni d’ordine dottrinale, è anche fr. Pietro d’Atri OP, che prova i rigori del carcere papale:

«... quia idem Bonifacius diversos magistros et doctores theologie hoc determinantes [scil. utrum esset papa] capi fecit et mori in carcere et omnes ob istius veritatis prolatione minis carcerum et tormentorum et diversis aliis terroribus detinebat, sicut fratrem Gentium de ordine Minorum, fratrem Petrum de Adria de ordine Predicatorum et quendam alium magistrum in theologia de ordine Cistercensium, quem in carcere mori fecit» (Mohler, Die Kardinäle 260).

«Adria, civitas et diocesis adriensis» è Atri, provincia di Teramo (RD Aprutium, Città del Vat. (Studi e testi 69) 1936, 377a-b); Adrianus era detto il convento domenicano di Atri (era ancora domus nel 1283, era già convento formale nel 1288: MOPH XX, 65/13; 84/1.7). Un «fr. Petrus Palmerii de Adria» assegnato al convento dell’Aquila nel 1292 (MOPH XX, 108/7). Un «fr. Petrus de Adria OP» nominato vescovo di Mamistra (Armenia); sulla strada per la sede vescovile muore in Napoli prima di luglio 1320 (HC I, 324; R. Loenertz, La société des Frères Pérégrinants, Roma 1937, 187). Si noti che dei frati implicati nel dibattito sulla legittimità del papato bonifaciano e incarcerati, soltanto dell’ultimo («quem» non «quos») si dice che morisse in carcere.

Ott. 2010: Luciano Cinelli OP mi passa fotocopie di recenti studi sul convento San Domenico di Atri; purtroppo senza titolo del volume, luogo e anno di pubblicazione. Tra le mie cartelle, voce "Atri". Vi si cita (p. 389a): M.A. ADORANTE, Le chiese di  San Domenico e Santa Chiara in Atri, «Opus» 1 (1988) 95-118.

http://www.poderesandomenicoatri.it/

Non confondere con fr. Pietro d’Andria («de Andria»), pr. Bari: AFP 32 (1962) 319-20; G. Cappelluti, Fra Pietro di Andria e i segretari di S. Tommaso, MD 6 (1975) 151-65. Gli omografi «de Adria» e «de Andria» possono aver generato tradizioni contaminate in talune testimonianze.

Il capitolo provinciale di Perugia settembre 1297, proprio quando l’affronto tra papa e Colonnesí si è tramutato in azione militare, fa eco ai termini politici della crisi ai vertici della gerarchia ecclesiastica entro cui l’appello all’ubbidienza ecclesiale riveste gli specifici contenuti del momento (MOPH XX, 126-27). A ridosso di quello generale Venezia 1297, che diffida i frati dal contestare Bonifacio VIII e ingiunge loro di riconoscerlo e predicarlo vero papa (MOPH III, 284).

«Item, cum ex ambassiatis secularium sepius turbationes oriantur et scandala, districte iniungimus tam prioribus quam aliis fratribus quod tales ambassiatas non recipiant (...). Item, cum ex statu et quiete tranquilla sacrosante Romane ecclesie ordinis nostri status et presertim nostre provincie in sua pace dependeat, precipimus in virtute obedientie fratribus universis ne quis contra summum pontificem seu etiam ordinationem illius verbo, scripto vel facto, occulte seu publice audeat aliquid attentare, nec contra acta generalis capituli illis qualitercumque favere qui contra sanctissimun dominum nostrum summum pontificem se erexerint. Et super hiis exequendis volumus quod prior provincialis invigilet diligenter» (MOPH XX, 126-27). CG Venezia 1297: «... discricte precipimus fratribus universis in virtute obedientie ne quis illis qui contra dominum nostrum summum pontificem dominum Bonifacium et sanctam Romanam ecclesiam se erexerunt audeat occulte vel manifeste impendere consilium, auxilium vel favorem, mandantes nichilominus et districte iniungentes quod in predicacionibus publicis, et alias cum fuerit oportunum, predicent, doceant et constanter asserant dominum Bonifacium esse verum papam, successorem Petri et vicarium Ihesu Christi» (MOPH III, 284/8-17).

 ■ fr. Bartolomeo Doni da Rieti

«Item die 25 eiusdem [= 25.VIII.1389] declaravit, sententiavit et determinavit fratrem Bartholomaeum Doni de Reate numquam apostatam, nec umquam habitum ordinis temere dimisisse, licet de licentia praecedentis magistri ordinis transierit ad ordinem Cisterciensem; addens quod constitutio de apostatis, in ultimo capitulo primae distinctionis, nullo modo tangit eum nec est contra eum» (MOPH XIX, 95 § 328). Il 25.VIII.1389 il maestro dell’ordine domenicano, Raimondo delle Vigne da Capua, delibera: fra Bartolomeo Doni (= figlio di Dono?) da Rieti non ha mai apostato dall'ordine né ha mai abbandonato illegamente l'abito domenicano, sebbene a suo tempo sia passato all'ordine dei Cistercensi per autorizzazione del precedente maestro generale; Bartolomeo pertanto non ricade in nessun modo nelle disposizioni delle costituzioni OP, I 20 De apostatis.

Semplice constatazione d’impertinenza giuridica? Il caso, sollevato nell’area d’obbedienza romana dello scisma in corso (1378 ss), trascinava con sé altra materia: il governo stesso di tutto l'ordine, diviso in capitoli generali d'obbedienza avignonese (MOPH III, 1-91: 1380-1407) e quelli d'obbedienza romana 1380 ss ( cf. ib. III, 92-157: 1388-1417). Il caso, dunque, di fra Bartolomeo veniva verosimilmente così argomentato: la lincentia di passare ad altra regola è canonicamente invalida perché concessa da Elia Raymond († Avignone 31.XII.1389), precedente maestro dell’ordine 1367-80 («licet de licentia praecedentis magistri ordinis»), poi d’obbedienza avignonese; Bartolomeo pertanto è costituzionalmente apostata ab ordine.

La sentenza 25.VIII.1389 di Raimondo (maestro dell’ordine d’obbedienza romana 1380-99) riconosce invece la validità della licenza a uso ottenuta da Bartolomeo. Perché concessa avanti lo scisma? perché la licenza effettivamente richiesta da parte di Bartolomeo andava garantita anche contro irregolarità altrui o d’altra natura? Più probabile la seconda ipotesi, se non vogliamo ritenere che il caso pendesse tanto a lungo e approdasse al giudizio di maestro Raimondo a nove anni dalla sua carica. Nel 1389, in ogni modo, Bartolomeo era già rientrato nel suo ordine d'origine.

Fra Bartolomeo Doni da Rieti = medesimo frate ricorrente sotto le varianti antroponimiche "fra Meo o fra Bartolomeo da Rieti" (MOPH XIX, 248b, 232a "Bartholomaes de Reate")? MOPH XIX, 82 § 221 (24.IX.1388), 98 § 357 (22.IV.1390), 101 § 395 (1.IX.1390), 102-03 § 418 (27.XI.1390, grazie papali), 107 § 464 (21.XI.1392), 108 § 473 e § 475 (5.I.1393, 17.I.1393: concessioni di solito date a chi è in fin di vita!). A primo giudizio e in base a queste sole testimonianze, nulla vieta che si tratti di un'unica e identica persona.

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