I.6)  L’artigianato

Il commercio nel senso classico era però sostituito da una forma particolare di artigianato, che si esplicava attraverso una produzione fatta essenzialmente su commissione del cliente. Così, mentre in alcuni paesi vicini si producevano, ad esempio, utensili da cucina in legno di faggio che venivano poi portati a vendere in giro (specie nelle fiere), gli artigiani di Luco non lavoravano per … l’esportazione. Ma producevano moltissime cose.

I falegnami erano in  grado di soddisfare qualsiasi esigenza dei paesani e qualcuno d’essi era anche un bravo ebanista. I fabbri ferrai producevano attrezzi agricoli e minuterie varie, cancellate, scale, ecc. I ramai  producevano le classiche conche e tutti i recipienti di rame per la cucina (ricordo bene il loro ritmico battere del martello sulla lastra di rame per incurvarla gradualmente sino alla forma del recipiente). L’impagliatore di sedie, il cestaio, il materassaio, il meccanico da biciclette erano dell’artigianato più minuto.

Molto interessante era l’attività del facocchio o carradore: egli era in grado di costruire qualsiasi tipo di carro agricolo e cioè di carro da trasporto privo di balestre; essenzialmente il carretto a due stanghe (fra le quali veniva attaccato l’animale da trazione, in rari casi aiutato da una seconda bestia attaccata a bilancino a lato di una stanga) e il carro pesante dotato di una grossa stanga centrale in capo alla quale era aggiogata una coppia di buoi. Io mi divertivo molto a veder lavorare il facocchio quando montava attorno alle grandi ruote di legno il cerchione di ferro: questo veniva prima fatto arroventare su un circolo di fuochi (per farne espandere un poco il diametro) e poi rapidissimamente con enormi tenaglie calzato attorno alla ruota e immediatamente innaffiato con abbondante acqua per farlo restringere, in un festoso sfrigolio di vapore.

Numerosi erano i sarti, a vari livelli di professionalità. Diversi di essi si trasferivano a Roma temporaneamente o definitivamente. Fra questi ultimi posso ricordare – per gli anni 30 – il sig. Bianchi con atelier e insegna a Via Nazionale in un piano alto dell’edificio prospiciente il Palazzo delle Esposizioni e il cav. Luigino Rigazzi che aveva casa e atelier a Via Condotti angolo Via Bocca di Leone dirimpetto al Palazzo Torlonia, con insegna che occupava la ringhiera del balcone del piano nobile. Fra i tanti altri minori non posso non ricordare colui che poi fu il mio sarto, il sig. Gaetano Di Donato con casa e bottega in Via della Purificazione alle spalle del Teatro Sistina; la sua ubicazione ne faceva il punto di raccolta degli amici paesani per le serate di fine settimana nella zona di Piazza di Spagna. In quegli anni non si comprava, specialmente a Luco, l’abito confezionato. Tutto passava quindi per le botteghe dei sarti; i quali, nei livelli professionali medio-bassi, erano regolarmente chiamati anche al difficile lavoro consistente nel “rivoltare” un vestito e soprattutto un cappotto già usato per riportarlo dopo anni a nuova vita: a questo fine erano apprezzate le stoffe double face. Ma nei paesi era del tutto normale vedere in giro dei poveretti e specie ragazzotti e bambini con vistose pezze applicate ai gomiti di giacchettelle e al retro dei calzoni, a copertura delle zone più lise.  Una persona con le pezze al sedere: era questa una espressione veramente realistica per indicare uno che non se la passava bene.

Le sartorie femminili erano anch’esse i passaggi obbligati per l’abbigliamento delle donne, ai vari livelli. L’abito da sposa, l’abito della signora  o signorina benestante, l’abito festivo o da circostanza della paesana comune erano confezionati dalle sarte più importanti, dopo laboriosissime scelte sui figurini (riviste di moda a periodicità stagionale). Gli abiti correnti da casa o da lavoro erano  fatti da molte donne che avevano imparato i primi rudimenti del mestiere lavorando gratis nei laboratori delle sarte e che provvedevano anche ai vestitini dei bimbi maschi e femmine. Le sartorie erano così dei vivai di nuove sartine e delle scuole di formazione minimale per la donna comune, non solo per l’apprendimento del cucito, ma anche per una certa esperienza di socializzazione. Nella mia fanciullezza io, unico maschio in una famiglia con sei sorelle che avevano la sartoria più prestigiosa dell’epoca, sono vissuto in mezzo a nugoli di ragazze, di  continuo rinnovati, che tenevano sempre animata la casa ed erano particolarmente impegnate nelle notti fra il sabato e la domenica per ultimare gli abiti delle spose e relative parenti.

Mia madre ha continuato ad indossare sempre il costume tradizionale costituito da un corpetto più o meno decorato, da un’ampia gonna lunga sino alle caviglie e da uno zinale legato alla vita e pendente davanti; un grande fazzoletto acconciamente ripiegato copriva la testa; una pesante sciarpa con abbondante frangia difendeva dai rigori dell’inverno, il tutto in colori tutt’altro che sgargianti. Ella non usava e non possedeva più i costumi, della stessa foggia, ma di stoffe ricche e riccamente decorate, che aveva usato in gioventù nelle occasioni di festa.

Quanto alle calzature, esistevano al paese calzolai e ciabattini. I primi confezionavano scarpe nuove, particolarmente robuste e durevoli, partendo da tomaie di vacchetta normalmente acquistate in commercio, ma anche scarpini di vitellino, per uomini e per donne. Le scarpe da lavoro degli uomini avevano una manutenzione a base di grasso di maiale (a questo uso era destinato il sesso maschile del maiale, detto pinciarchio). Mio padre in gioventù si era dedicato anche alla calzoleria: sentivo raccontare di un famoso paio di scarpine da signora che egli aveva creato e confezionato con grande impegno. Già negli anni 20 esisteva però un negozio di scarpe di produzione industriale, acquistate dalle signore più moderne. I ciabattini provvedevano alla riparazione della scarpe consumate e alla confezione di prodotti minori (ciabatte, pantofole, ecc.). Non ricordo che si producessero da noi le cioce che erano invece di uso corrente nella zona a noi tanto vicina della Valle Roveto, contigua e quasi continuazione della Ciociaria.

I.7)  I servizi

Il settore dei servizi comprendeva diversi barbieri, che erano frequentati specialmente di domenica dai contadini che andavano a farsi radere durissime barbe di settimane: un ragazzo insaponava per minuti e minuti quelle ispide guance prima che il rasoio del barbiere potesse intervenire. Nei giorni quieti infrasettimanali il salone del barbiere era frequentato da amici e fannulloni che si esercitavano alla chitarra, immancabile dotazione del locale.

Un servizio per le bestie era quello fornito dal maniscalco, che ferrava gli zoccoli dei cavalli o rinnovava gli zoccoli dopo averli scavati per contenerne la crescita: il nuovo ferro veniva inchiodato energicamente mentre la zampa era tenuta tra le ginocchia dell’operatore, al cui ordine “alza pié” il cavallo di solito obbediva  pacificamente.

Servizio fondamentale era quello dei forni. Sino agli anni 20 nessuno a Luco vendeva il pane; verso la fine degli anni 30 cominciò a provarci un  negozio, che vendeva comunque solo pane casereccio. Nel paese c’erano almeno tre forni che servivano tutte le famiglie. La struttura del forno era assai rudimentale, ma efficientissima. Un vano a pianta rotonda,  con un diametro di due metri circa, e la volta a cupola alta al centro pure due metri circa munita di apertura per il fumo, veniva portato alla temperatura necessaria con il fuoco di frasche secche; dopodiché l’ambiente veniva preparato accantonando la brace e pulendo il ripiano con uno straccio bagnato. Quindi la fornaia (era sempre una donna) con una pala di legno disponeva le forme di impasti, che erano circolari o allungate: le prime erano pagnotte e le seconde cacchie. La cottura avveniva sempre per conto dei privati, su prenotazione. La mattina presto, mentre il forno era in preparazione, la fornaia mandava ad avvertire le massaie prenotate per quel turno perché avviassero l’impasto e la sua levitazione, con un preciso calcolo dell’anticipo occorrente. L’attesa della cottura permetteva alle massaie di pettegolare allegramente sulle ultime novità. Il pane era normalmente di farina di grano con una certa dose di patate, che ne riduceva l’indurimento consentendo di conservarlo per una settimana. Il lievito era costituito da un pugno di impasto dell’infornata precedente e veniva conservato in una apposita ciotola al caldo; di solito le famiglie se lo scambiavano fra loro. Negli inverni rigidi la lievitazione avveniva solo con l’aiuto di bracieri posti sotto la madia. Questo classico mobile di legno (un grande cassone su quattro piedi con un coperchio a cerniera) era usato per ammassare l’impasto e poi per conservare il pane per tutta la settimana. Di tanto in tanto si faceva anche il pane infrascato e cioè con l’aggiunta di un po’ di farina di mais. Naturalmente il forno pubblico era utilizzato anche per la cottura di biscotti e ciambelle (di dimensioni spropositate) o di carni (es. agnello con patate).

Una cottura davvero sui generis  praticata allora e da tempo scomparsa era quella che avveniva nelle calcare e cioè nelle fornaci da calce. Lontano dal paese sulla cosiddetta via dei Pozzi operavano due di queste fornaci: erano delle semplici vaste fosse circolari che venivano riempite di blocchi di buona roccia calcarea locale e ricoperte poi da uno strato di terra tanto da farne un bel tumulo; sotto i blocchi di roccia era stata disposta e accesa molta legna soprattutto di grosse frasche, che aveva una combustione lenta e aveva un ridotto sfogatoio come terminale del percorso interno del fuoco. Nel volgere di qualche giorno la cottura completata produceva la calce viva; questa veniva poi collocata entro una fossa rettangolare con abbondante acqua che la faceva sfrigolare e bollire fino a farne calce spenta da costruzione, una specie di crema bianchissima correntemente usata nelle opere murarie.

Il mulino pubblico anch’esso macinava il grano per conto dei paesani. Era un grande mulino elettrico, appartenente alla antica famiglia De Angelis che era anche concessionaria della  erogazione della energia elettrica a Luco e in comuni vicini. A questo mulino portavano il grano anche da Trasacco e altri centri minori. Un continuo rumore sordo pervadeva la zona per alcune decine di metri intorno, nell’intera giornata. A determinate scadenze, il mugnaio o molinaro smontava quelle enormi macine rotonde di pietra durissima e con uno scalpello stava tutta la notte a reincidervi i solchi consumati, con un ritmo regolare di colpi che facevano una rassicurante compagnia ai vicini insonni.

Servizio stagionale era quello fornito dalle macchine trebbiatrici, pure esse a disposizione dei privati. Ogni anno, al raccolto del grano, in grandi aie ai margini del paese venivano collocate le apparecchiature trebbiatrici da almeno due diversi imprenditori. Negli anni ‘20 le macchine erano  ancora azionate a vapore. Del complesso faceva quindi parte innanzitutto una grande vaporiera con tanto di alte ruote, somigliante a quelle usate per la trazione dei treni, la cui caldaia alimentata a carbone fossile poteva causare spettacolosi incendi, per fortuna assai rari data l’attenta sorveglianza e la disponibilità di riserve d’acqua. La macchina trebbiatrice vera e propria era collegata alla vaporiera da una enorme e lunghissima cinghia di trasmissione che, nella rotazione senza soste, sembrava ondeggiare paurosamente quasi a voler rapire e trascinare con sé qualche incauto astante. In cima alla trebbiatrice troneggiava un nerboruto imboccatore che con movimenti ritmici incessanti introduceva nelle fauci avide della macchina ansante i manipoli appena un po’ sveltamente sciorinati, mentre un grande braccio meccanico con movimento a stantuffo spingeva la massa delle spighe all’interno. In basso, da un lato sortiva il grano e dal lato opposto la paglia in balle ben pressate e serrate da un lucente filo di ferro zincato, che un ragazzo aveva preparato a parte ritagliandolo nelle giuste misure su un apposito cavalletto da un grande rotolo. Intanto, un via vai di carri portava all’aia i manipoli da accatastare con arte in grandi biche (casarce) in attesa del turno di lavorazione e caricava i sacchi di grano o le balle di paglia da portare via.

Il grano veniva dalle famiglie conservato nelle cantine in un apposito arcone di legno, alto un paio di metri, con un coperchio di sopra e  una piccola apertura in basso chiusa da una porticina a saliscendi, da cui si prelevava alla bisogna il grano da portare al mulino. A me piaceva infilarmi di nascosto nell’arcone per immergermi nel grano e sentire il suo profumo di freschezza.

Altro tipo di servizio era quello fornito – ai falegnami, ma non solo – dalla segheria, impiantata e gestita da Filippo Rigazzi. Aveva una serie di macchinari elettrici: una sega costituita da un nastro d’acciaio dentato che scorreva ad anello verticalmente; altra  sega costituita da un gran disco d’acciaio dentato; una enorme pialla; un tornio e qualche altra apparecchiatura minore. Il grande locale era ingombro di tronchi e tavoloni appoggiati alle pareti ed era tappezzato di abbondante segatura che veniva liberamente prelevata da chiunque ne avesse bisogno. I laceranti attacchi delle macchine, in genere di breve durata, si sentivano da lontano senza che dessero particolare fastidio. Da lontano qualche volta si sentiva l’urlo raccapricciante di Filippo per il .. solito incidente; alla fine della sua vita operosa gli erano rimaste ben poche dita, ma nessuno gli aveva mai sentito pronunciare una imprecazione.

I.8)  I trasporti

Quanto ai trasporti, il servizio pubblico per i viaggiatori era espletato dalla Ditta Micangeli, con una corriera (il postale) sulla linea Avezzano, Luco, Trasacco, Collelongo, Villavallelonga. La corriera passava a Luco alle 8 del mattino diretta ad Avezzano e ripartiva da Avezzano alle 3 del pomeriggio: una sola corsa al giorno, quasi sempre affollata.

Chi per ragioni di orario non poteva usufruire della corriera poteva ricorrere ai servizi individuali forniti da uno o due chauffeurs (non prima degli anni 30) o da alcuni conducenti di calesse; questi dovevano però essere prenotati possibilmente il giorno prima, perché i conducenti svolgevano normalmente altre attività. Unica automobile privata era quella di mio zio, il medico Candeloro.

Da tempo non era più usata la classica carrozza da viaggio signorile, ma io ricordo di aver visto da bambino l’ultimo residuo del passato nel landò che veniva utilizzato dagli sposi nei matrimoni più eleganti. Al modello dell’antica carrozza signorile si ispirava invece il carro funebre, molto ornato  e tirato da un cavallo con tanto di pennacchio; Ermete, il vespillone in costume settecentesco con tricorno, lo guidava con aria grave all’andata verso il cimitero, ma poi eccitava il cavallo in un festoso galoppo al ritorno, per andare a spendere subito all’osteria un po’ del guadagno realizzato, alla salute dell’anima del defunto.

Per gli spostamenti locali ci si poteva anche affidare all’..autostop, chiedendo un passaggio a carri o carretti incontrati per strada, ma non sempre la sorte era propizia, specialmente nelle peggiori giornate invernali  quando comunque la circolazione era assai ridotta. Capitava così di dover fare il percorso a piedi, come capitò a me con la neve nei primi anni 40 arrivando da Roma in treno per una vacanza natalizia con tanto di valigia.  Il mezzo di locomozione individuale era ovviamente la bicicletta, con la quale era facile arrivare ad Avezzano. Ma anche la bicicletta non era alla portata di tutti e comunque con essa andavano sfidate le intemperie e, normalmente, la polvere d’estate e il fango d’inverno; perché la carrozzabile era cilindrata, ma non asfaltata e i cerchioni di ferro dei veicoli a trazione animale ne mangiavano la superficie creando profondi solchi sino alla prossima ricilindratura primaverile con brecciame. D’estate i poveri ciclisti erano afflitti, al passaggio per fortuna raro di una automobile, da un fittissimo polverone che li costringeva a fermarsi.

Il trasporto merci per conto terzi era esercitato da diversi carrettieri di mestiere, che disponevano di diversi tipi di veicoli, dalla vignarola (grande, ma leggero legno a due ruote per trasporto misto di persone e cose), alla trainella (carretto medio molto versatile), al traìno (grande carro trainato da cavalli da tiro, ma più generalmente da una coppia di buoi). Fino agli anni ‘20 non ricordo che ci fosse a Luco un camion.

I.9) I pubblici esercizi

Nel campo dei pubblici esercizi si trovano a Luco, negli anni 20, affittacamere, trattorie, osterie, caffè.

Due affittacamere: il primo, Battaglione, immediatamente sotto la piazza centrale, segnalato anche nell’Annuario Generale del Touring Club, aveva non più di tre camere a disposizione  degli ospiti occasionali; l’altro, Marietta, con una o due camere ospitava soprattutto commessi viaggiatori. Erano camere che facevano parte dell’abitazione della famiglia del gestore, con i servizi igienici in comune. Nelle camere c’era il solito mobiletto di legno o di metallo con il bacile, la brocca, uno specchietto e l’asciugamano. Chi arrivava in paese per la prima volta poteva chiedere a qualsiasi passante dove trovare una camera e sarebbe stato subito indirizzato a uno dei due suddetti esercizi.

Una trattoria, per una decina di coperti o poco più, era al centro del paese, senza nessuna insegna. Vi consumava i pasti un mio vecchio zio in pensione rimasto vedovo: cucina ovviamente casalinga. Più tardi, negli anni 30 un’altra trattoria aprì a Piazza Angizia. Questi locali venivano correntemente usati per cenette fra amici, ad esempio cacciatori che avevano catturato lepri.

Le osterie, più d’una, con lunghi orari di apertura, vendevano vino da asporto, ma erano essenzialmente dei ritrovi per sbicchierate, giochi di carte o di morra, canti popolari e canti di guerra. Erano affollate, sino a divenire antri fumosi, specialmente il sabato e la domenica sera. E in quelle sere regolarmente qualcuno dei clienti usciva dall’osteria  ubriaco, tanto più ubriaco quanto più misera era la sua condizione economico-sociale; sulla povera moglie l’ubriachezza veniva scaricata violentemente per scontare la colpa della miseria. Uno dei divertimenti nelle serate d’osteria era la passatella: il vino pagato dai perdenti dei giochi veniva gestito da un padrone  e da un sotto nominati a sorte i quali, soddisfatta la propria sete, invitavano a proprio beneplacito chi potesse partecipare alla bevuta; chi veniva con malizia lasciato olmo (senza bere) subiva un’onta che poteva dar luogo ad alterchi anche furibondi. Vendita occasionale e temporanea di vino era praticata da chi dalle proprie vigne aveva ricavato un prodotto eccedente le sue esigenze di consumo; costui appendeva una frasca davanti al locale destinato allo spaccio, che così diveniva una osteria sino ad esaurimento delle scorte. Nelle osterie passava la lupinara ad offrire i suoi gustosi legumi, che si consumavano aspersi da un pizzico di sale tra un bicchiere e l’altro del vino locale, il quale è sempre stato rosso o piuttosto cerasuolo.

Il caffè era un esercizio che faceva concorrenza all’osteria con una clientela rappresentata dalle nuove generazioni. Esso, più che vino, dispensava birra e altre bevande più moderne: vermuth (molto in voga come aperitivo), cognac e liquori vari per lo più dolci, bibite  come aranciata, gassosa (nella classica bottiglietta tappata dalla pallina di vetro) e altre bibite a base di essenze. Il caffè aveva anche un settore dolciumi: caramelle, cioccolatini, torroncini, mentine, ecc. Il caffè vero e proprio era la specialità di un locale frequentato solo da persone anziane: la Mastarella, una quieta donnetta molto modesta, teneva un gran recipiente sempre in caldo con il caffè alla turca, che nelle tazzine veniva corretto con una buona dose di mistrà.

I.10)  L’autoproduzione familiare

Indipendentemente dall’industria, dal commercio o dai servizi, l’economia delle famiglie è in buona parte sostenuta dalla autoproduzione. La famiglia non è soltanto una consumatrice di beni, ma anche una azienda capace di produrre alcuni beni di prima necessità.

Intanto, a Luco è assai diffusa tra gli abitanti la proprietà agraria, ovviamente molto spezzettata. La normale famiglia o è proprietaria o è affittuaria di terreni agricoli oppure è coltivatrice a mezzadria di terreni altrui; spesso la stessa famiglia ha diverse di queste caratteristiche insieme. Sicché, nella maggior parte dei casi, i prodotti agricoli di base (grano, granturco, patate, legumi) sono di produzione diretta.

La famiglia-tipo inoltre alleva animali da cortile (pollame, conigli) e soprattutto il maiale, importante riserva alimentare per gran parte dell’anno. Il maialino da allevare viene acquistato presso fornitori forestieri e viene fatto crescere e ingrassare con le risorse di casa (patate di scarto, crusca, avanzi vari, ghiande abbondantemente reperibili in campagna). Sino agli anni 30 il maiale migliore era il più grasso; la qualità si misurava dallo spessore del lardo; successivamente si alleveranno maiali di razze magre (i perugini) per il diminuito bisogno di grassi animali. La macellazione avviene tra fine dicembre e gennaio, ad opera di un esperto da prenotare in tempo debito. Il maiale, trascinato all’aperto fuori del suo abitacolo (la strelletta), capisce subito la tragicità del momento e reagisce con acutissimi grugniti disperati; disteso su un basso pancone con la forza di diverse braccia, viene scannato con un coltellaccio alla gola; il sangue viene raccolto per farne il sanguinaccio,  che è un salsicciotto contenente un denso impasto dolcificato con zibibbo e cioccolato. L’acqua bollente versata in abbondanza sulla pelle consente la pulizia dell’animale e la rapida rasatura delle setole (sì da avere cotiche ben lisce). L’apertura anteriore della bestia libera l’intestino e la vescica; le budella vengono subito pulite per insaccarvi poi salsicce e salami; la vescica, svuotata e lavata, viene lasciata provvisoriamente ad asciugare per essere poi gonfiata a bocca fino a diventare un grosso pallone che sarà riempito di strutto liquido, poi rassodato e conservato appeso. La bestia squartata viene appesa per le zampe anteriori a una specie di giogo – il gambiere o jammère – e si procede al distacco del lardo e al taglio dei vari pezzi di carne: prosciutti e spalle sono disposti ad asciugare in una cassa sotto abbondante salatura; le costate costituiscono i tagli più prelibati, da consumare presto, e siccome eccedono le esigenze familiari, vengono distribuite anche a parenti e amici che a loro volta ne restituiranno con la macellazione dei loro maiali. Il  tritacarne lavorerà a pieno ritmo per le salsicce e i salami. In un pentolone si scioglie lo strutto dai più vari pezzi di grasso, lasciando un residuo di frìzzoli che saranno poi prelibati ingredienti di focacce calde. Un sacchetto di cotone nel quale vengono pressati i ritagli di pezzi vari non altrimenti utilizzabili (testa, zampe, muscoletti, ecc) sarà messo a cuocere per dare poi uno sformato di coppa. Insomma, la macellazione del maiale  è una serie di operazioni frenetiche cui partecipa tutta la famiglia con altri aiuti esterni in una gara di allegria, con abboffate di carne fresca gustosissima. Prosciutti, salami, salsicce, lardo, guanciale, strutto, ben conservati, saranno utilizzati dalla famiglia per gran parte dell’anno.

Anche il vino per molte famiglie è una risorsa propria, grazie alle diverse vigne che sfruttano i terreni sassosi pedemontani. Salvo rare annate particolarmente propizie, il vino locale non è di gran qualità perché la zona è poco soleggiata, a parte il fatto che non si conosce una vera arte enologica. Il vino, generalmente di un rosato vivo (cerasuolo), va consumato nei pochi mesi prima dell’estate, e cioè prima che si deteriori. Naturalmente si produce anche l’aceto per gli usi di casa e il mosto cotto impiegato per dolcetti vari. Nei primi giorni si consuma l’acquata, una bevanda fresca di bassissima gradazione ottenuta mettendo in acqua le vinacce in modo da cavarne gli ultimi residui di umore. Vendemmia e pigiatura a piedi nudi in apposite vasche di legno sono fra i momenti festosi dell’annata, in cui è impegnata tutta la famiglia con la collaborazione di parenti e amici. Un sottoprodotto  della vinificazione è il tartaro che gradualmente incrosta l’interno delle botti e che periodicamente viene distaccato a secco per essere ceduto, tramite intermediari, ad industrie chimiche.

Oltre a produrre risorse alimentari l’azienda famiglia provvede anche ad altre necessità proprie: ad esempio, in casa si confezionano oggetti di uso comune, dai capi di abbigliamento più semplici (specie per i bambini) alle pantofole, dalla cucitura di capi di biancheria e da letto al ricamo di lenzuola o tovaglie o tende, alle riparazioni varie: ogni donna sa mettere qualche punto per le necessità di famiglia e fa di tutto (anche la ritintura di stoffe) prima di ricorrere all’esterno. La preparazione di sfoglie di pasta (sagnette all’uovo o sagne di sola acqua e farina) e di dolci vari è cosa di ordinarissima amministrazione. E’ diffusa poi la tendenza, per il giovanotto di casa, di provarsi in ogni mestiere per le piccole riparazioni casalinghe, o quanto meno la disponibilità a soccorrersi reciprocamente fra amici ognuno con la propria capacità, esperienza e attrezzatura.

I.11)  I divertimenti

Accanto alle attività economiche e al lavoro, ci sono sempre anche le attività ludiche a riequilibrare la vita di tutti i giorni o, per i bambini, a plasmare la personalità in vista degli impegni da affrontare nella vita. L’uomo è sempre uguale, ma il mutare dei tempi muta le possibilità e le forme di svago, essenzialmente in ragione del mutare dell’economia. Negli anni che stiamo ricordando, le condizioni economiche non lasciavano molte risorse materiali al divertimento. Da ciò la necessità di ricorrere il più possibile alle risorse mentali.

In particolare, il bambino di una normale famiglia raramente poteva godere di un giocattolo acquistato in commercio e, nel caso, si trattava di oggetti di commovente semplicità: per i maschietti, un cavalluccio di latta di 10-15 centimetri di altezza piantato su una piattaforma di legno con quattro rotelline e uno spago da tirare per farlo camminare fra l’invidia dei compagni; per le femminucce, una bamboletta di stoffa con il visetto di celluloide e capelli di stoppa.Un giocattolino per maschietti molto comune, che si trovava per pochi soldi in commercio, ma che poteva anche essere fabbricato col tornio di un falegname e un bel chiodo, era la tròttola, con la quale si potevano organizzare sfide sulla durata del moto vorticoso. La autoproduzione suppliva abbondantemente a queste carenze, specialmente per i maschietti. Dalla fionda, ricavata usando la divaricazione di un rametto d’albero e una fettuccia di elastico, alla cerbottana realizzata svuotando l’anima di un pezzo di ramo di sambuco e pigiandovi dentro un batuffolo di stoppa con un bastoncino sottile in senso opposto alla direzione di crescita del ramo; dalle tante creazioni con il fil di ferro (specialmente cavallucci, ma anche biciclettine, ecc.) a una specie di semovente fatto con un  rocchetto di legno da filo da cucire, intaccato a dentellatura intorno alle due estremità rotonde sporgenti, con un anello di elastico passato  nel foro centrale e fissato ad una delle due uscite da una traversina e un po’ di cera e, all’uscita opposta, uno stecco infilato all’elastico che serviva a ritorcere lo stesso per caricarlo come una molla sin quando, messo a terra e lasciato libero, lo sciogliersi della carica sullo stecco appoggiato a terra faceva muovere il rocchetto per un tratto di spazio con grande gioia del costruttore. La palla per giocare il calcio era un ammasso di pezze accortamente cucite, che resisteva per un bel po’ alle pedate. Le bambine si facevano di pezza la bambola, con il viso di cotone chiaro recante il disegno di occhi naso e bocca e circondato da una ricca capigliatura di fili di lana. La fantasia creatrice era pressoché inesauribile nell’utilizzare le materie prime disponibili: stecche di legno, filo di ferro, spago, stracci, perfino gli steli del grano maturo dai quali, praticando un acconcio taglio trasversale, si ricavava un piffero con una incerta nota musicale. Due bastoni di diversa lunghezza, appuntiti alle estremità, erano gli strumenti per giocare a nizza, un esercizio di forza e destrezza molto impegnativo sul piano agonistico. Senza dire che i .. giocattoli più semplici erano i sassi, con i quali si potevano fare gare di tiro (a una lampadina della illuminazione pubblica, a un nido di uccelli, a un gatto) o sassaiole fra bande rivali. Per le bambine i giochi più comuni erano: la campana  (uno schema disegnato a gesso sul marciapiede, da percorrere a saltelli su un solo piede senza calpestare le linee), il salto della corda (ritmico, facendosi passare sotto i piedi la corda girata a volano dalla stessa saltatrice o da un paio di compagne), le brecce (cinque o sei ciottolini lanciati insieme in aria e raccolti in volo con una sola mano, ogni volta uno di meno sino al termine).

A volte ci si impegnava in imprese complesse che richiedevano abilità e  pazienza; ricordo ragazzi sui dodici anni che costruirono una automobilina di legno di circa un metro di lunghezza, comprensiva di ruote con assali e con tanto di sterzo che faceva girare abbastanza le ruote anteriori e tanto di portiere laterali cortinate di tela di sacco; dopo giorni e giorni di lavoro, di errori e correzioni, una volta messa su strada la vettura, fui io di sei o sette anni a poterci entrare dentro, con varie contorsioni, per guidarla; la vettura comunque camminò (spinta dai miei piedi a terra) per tutta una giornata mutando direzione a comando, finché si bloccò e impuntò inesorabilmente per finire di  lì a qualche giorno in un bel falò.

Io ho ricevuto, da bambino, qualche cavalluccio di latta, ma ricordo soltanto un regalo straordinario, segno di grande generosità di mio padre: era un serpente di gomma, con la pelle di un bel disegno verde, lungo una ottantina di centimetri a leggero zig-zag, che si poteva gonfiare dalla coda. Ho invece giocato  con un bellissimo teatrino di marionette di un mio caro compagno, Gino Rigazzi, che lo metteva a mia disposizione perché io ero pronto ad inventare recite; lo installavamo nella mia cantina ed ammettevamo agli spettacoli i bambini vicini dietro pagamento di un modico prezzo in .. bottoni o altri equivalenti mezzi di gioco.

Il gioco dei grandi più che passatempo era competizione, variamente accanita. La maggior parte del tempo libero era dedicato alle carte – normalmente le napoletane – con i classici giochi della scopa, della briscola e del tressette (poco lo scopone); praticamente sconosciute le carte da poker. Gioco comune era anche quello delle bocce, che però era praticato non in veri e propri bocciodromi, del tutto sconosciuti, ma su un qualsiasi terreno disponibile, con gli ovvi imprevisti che la boccia lanciata ad accostare il boccino poteva incontrare nelle asperità del terreno, il che aveva anche lati divertenti. In osteria era abbastanza praticata la morra, con gridi concitati e martellanti dei contendenti, in un clima che facilmente poteva scaldare gli animi; di solito erano tornei rapidi, in cui il vincitore di un incontro a due passava immediatamente al contendente successivo.

Caratteristico delle nostre zone era il gioco cosiddetto della rùcica o rùzzola. A Luco esso si svolgeva sulla stradina montana che dal Convento dei Cappuccini scende al paese, un paio di chilometri, e che all’epoca era stretta fra muriccioli e siepi e aveva il fondo battuto alla meglio. Le gare più importanti si facevano con forme di formaggio pecorino molto stagionato; correntemente si poteva giocare con rùzzole di legno. La circonferenza della rùzzola veniva arrotolata strettamente da uno spago, detto zagaglia, il cui capo esterno era tenuto saldamente dal giocatore nella stessa mano che doveva lanciare il disco. La veemenza del lancio era rafforzata dallo strappo della zagaglia, una vera frustata. I lanci della gara iniziavano in alto dal Convento; vinceva chi arrivava con la rùzzola all’ingresso del paese con il minor numero di lanci. Dato il tipo della pista, la rùzzola usciva facilmente dal percorso con schizzi impressionanti, il che imponeva di riprendere il lancio successivo dal punto della uscita di strada. Molti ragazzini e giovinastri affollavano il percorso della gara, riparati dietro massi o muretti o siepi, in attesa che - come accadeva spesso – la forma di formaggio urtando con violenza contro un ostacolo duro si spaccasse disperdendo in giro i pezzi destinati a essere preda del primo sopraggiunto.

Occasione di divertimento era sempre la neve, per grandi e ragazzi. Le belle nevicate di allora ci fornivano abbondante materia prima per un lungo periodo. La neve fresca era quella ideale da pressare sveltamente in palle lanciate sui passanti, sui compagni e soprattutto sulle ragazze. Appena un po’ rassodata, si prestava per modellare pupazzi di ogni dimensione; in questi si cimentavano anche i grandi, qualcuno con una certa arte, in allegra competizione; i pupazzi restavano esposti , rispettati da tutti, fino al loro scioglimento. Il ghiaccio in strada scatenava le gare di scivolarella, specialmente in percorsi in discesa come il Montanaro, la comoda strada  che scende con due svolte dalla piazza centrale al sottostante viale Duca degli Abruzzi: tutti possedevano scarponi chiodati adatti alla bisogna.

 precedente successiva