Capitolo VI
 L’Accademia Navale
(
luglio-sett. 1943)

VI.1)  Arrivo a Brioni [luglio 1943]

L’Accademia Navale con i corsi per Ufficiali di carriera nelle varie specialità della Marina Militare era stata trasferita per motivi di sicurezza da Livorno a Venezia.

I corsi dell’Accademia per Ufficiali di complemento del Corpo di Stato Maggiore furono trasferiti a Brioni, un piccolo gruppo di isole (Brioni Maggiore, Brioni Minore e alcuni scogli) che si trovano a breve distanza da Fasana nei pressi di Pola.

Brioni è un ambiente di eccezionale valore naturalistico, sia per la vegetazione che per la fauna. Già i Romani vi avevano costruito ville, terme e templi di cui sono tuttora visibili importanti resti. Alla fine dell’800 le isole furono acquistate dal famoso batteriologo Robert Koch che ne fece un parco lussureggiante e molto curato immettendovi selvaggina come cervi e caprioli e numerose piante subtropicali. La costruzione di raffinate ville  molto disperse nel parco e su calette segrete, ma soprattutto di un complesso alberghiero di classe vi attirò l’aristocrazia dell’impero austroungarico e poi personalità di tutta Europa. Uno degli ultimi frequentatori era stato Guglielmo Marconi (5).

L’isola manca completamente di acqua, che vi veniva portata giornalmente con un apposito grande battello-cisterna.

A Brioni Maggiore, in funzione difensiva del porto militare di Pola, esisteva ancora il Forte Tegetthoff, intitolato all’ammiraglio austriaco vincitore della famosa battaglia navale di Lissa (1866) sfavorevole all’Italia.

Preso in carico dal Comando Deposito di Pola, in mattinata insieme con diversi altri allievi fui portato col legno a Brioni traversando il Canale di Fasana.

Dal molo di sbarco si vedevano intorno al grande piazzale centrale i tre alberghi Nettuno I, Nettuno II e Nettuno III, il Carmen (grande padiglione delle feste) e l’edificio delle sale-ristoranti. C’erano già molti allievi arrivati nei giorni precedenti. Fummo portati subito a pranzo e poi alla assegnazione delle camere. Io capitai in una camera del Nettuno II arredata per tre allievi, con un grande guardaroba, due piccoli scrittoi, un ampio bagno e una terrazza-balcone sul mare. La cura delle camere era affidata a ragazze del posto che noi di regola non vedevamo, salvo eccezioni. La distribuzione del corredo ci permise di metterci subito in divisa da lavoro: calzoni bianchi, corpetto bianco, maglione blu, berrettino bianco alla cinese. La divisa vera e propria aveva, oltre a scarpe nere lucidissime, il pantalone blu, il corpetto bianco, il camisaccio bianco, il solino azzurro e il classico berretto da marinaio con la scritta ACCADEMIA NAVALE. Completava il tutto il pastrano blu impermeabile con cintura.

VI.2)  Vita di Accademia

Gli allievi presenti a Brioni, in numero di circa 750,  erano distribuiti in una ventina di Sezioni e in tre specialità: le più numerose erano le Sezioni RC (Rotta e Comunicazioni); abbastanza numerose anche le Sezioni A (Artiglieria); io ero in una delle due Sezioni T (Torpèdini) e avevo il numero T126: ero cioè il numero 26 della prima Sezione Torpedini.

Gli allievi delle Sezioni T venivano preparati ad operare come ufficiali addetti ai siluri nelle unità maggiori, oppure come ufficiali tuttofare nei sommergibili e siluranti. La preparazione, oltre alla parte specifica dedicata alle torpedini, comprendeva anche la rotta (astronomia nautica, navigazione astronomica, navigazione piana, comunicazioni e segnaletica), costruzioni navali (struttura dei natanti) e arti marinaresche.

Comandante dell’Accademia a Brioni era il Capitano di Vascello Enrico Sìmola, comandante in 2a il Capitano di Corvetta Antonio Giachin. Il corpo insegnante era composto da Ufficiali superiori  (Capitani di Corvetta, Capitani di Fregata). Diversi Ufficiali inferiori (Tenenti di Vascello, Sottotenenti di Vascello, ma non dei Guardiamarina) erano addetti al comando delle Sezioni o come istruttori in diversi settori.

Fra gli insegnanti ricordo in particolare il Comandante Napp, docente di Torpèdini, resosi famoso perché aveva guidato una formazione di sommergibili italiani dislocati nei mari dell’Africa Orientale,  in un fortunoso viaggio di rientro in Italia circumnavigando l’Africa e violando lo Stretto di Gibilterra. Ricordo anche il Comandante Sagramoso insegnante di navigazione astronomica, molto paziente con le nostre difficoltà di apprendimento. Di un anziano Ufficiale superiore di Ingegneria Navale non ricordo il nome, ma il ruolo paterno e illuminato che svolse fra noi nei momenti difficili.

Fra gli Ufficiali istruttori, ricordo bene il Signor Balzano, giovanissimo, segnato nel sistema nervoso dall’aver subito in una sola giornata nel Mediterraneo ben tre naufragi (affondato e raccolto e di nuovo altre due volte), il Signor Viglietti distinto e efficiente, il Signor Pancani con grande aplomb, il Signor Salina severissimo nelle punizioni.

E c’erano anche diversi sottufficiali (Capo, Sottocapo), fra i quali il nostromo che ci insegnava  le piccole arti marinaresche.

Pochi giorni dopo l’arrivo,  fummo tutti allineati a torso nudo per la famosa iniezione (anti ché?) eseguita da una enorme siringa con un ago grossolano infilato nel petto. Molti compagni tremavano e gemevano nell’attesa; io fui molto coraggioso (non avevo mai subito una iniezione fino allora) anche sotto l’aggressione, che non si poteva certo chiamare col termine eufemistico di “puntura”. Compiuto il sacrificio mi allontanai dalla fila e, uscendo in una saletta d’attesa annessa alla infermeria, feci in tempo a cadere come un sasso su una poltroncina che mi trovai davanti. Mi girava la testa e mi scoppiò subito un febbrone, più o meno come ad altri, i quali si fecero ricoverare. Io reagii in modo appunto febbrile: appena potei alzarmi uscii e presi a camminare come un pazzo senza sapere dove; avrò fatto alla fine un paio d’ore di marcia per l’isola, ma al rientrare  avevo smaltito la febbre e la pazzia. Nei giorni successivi avrei dovuto subire altre due iniezioni più semplici, ma, non ricordo come, riuscii ad evitarle.

La giornata aveva un ritmo serrato, senza tregua. Le lezioni erano intervallate da brevissime soste. Quando non erano lezioni in aula, erano esercitazioni. Tutto era programmato e concatenato con un rigore estremo. All’inizio del corso dovemmo fare qualche lezione di rapido riaggiornamento in matematica.

Alcune materie erano effettivamente ostiche, come l’astronomia nautica. Il collega Carletto Widmayer era chiamato spesso dall’insegnante a rappresentare, con l’orientamento delle braccia, l’angolo al polo, che gli rimaneva comunque motivo di confusione. I calcoli interminabili (tutti mentali) per arrivare dalle misurazioni col sestante alla determinazione del punto nave si perdevano puntualmente per strada con esiti fuorvianti: alla fine delle operazioni, invece di trovarci a Brioni, i calcoli ci davano Grosseto o Pizzighettone; poco male quando ci si ritrovava in Nuova Zelanda: voleva dire che avevamo sbagliato solo un segno “più” invece di un “meno” rovesciando il punto agli antipodi. Fu piacevole per me la volta che, dopo soli 40 minuti di calcoli, mi trovai a Lussinpiccolo: non ero mai arrivato così vicino. Comunque, non ricordo più niente delle Tavole F e di altre tabelle-prontuari che usavamo alla bisogna.

Il siluro, questo enorme bestione, fu un seguito di sorprese nelle sue diverse sezioni una più complicata dell’altra: dalla testata con detonatore e carica esplosiva, al serbatoio dell’aria compressa  utilizzata come propulsore, al motore, al regolatore di velocità, al giroscopio che mantiene stabilità di direzione, ai regolatori di profondità, al meccanismo che al termine della corsa  senza incontrare il bersaglio comandava l’inabissamento del tutto, alle eliche e alle pinne direzionali orizzontali e verticali. Ma l’incredibile dell’uso del siluro è l’intervento sui vari regolatori (velocità, profondità, direzione) che deve essere fatto in brevissimi istanti prima del lancio secondo la situazione del momento, tenendo conto della posizione e direzione del proprio natante e della posizione, distanza, direzione, velocità e categoria del natante da colpire.

La materia costruzioni navali era insieme noiosa e divertente: noiosa per la infinità dei termini di marineria da imparare, divertente per questa terminologia che va dalla mezzeria ai paramezzali, dal dormiente allo scocciare a tante simpatiche espressioni che ho dimenticate.

Divertenti erano invece le nozioni di marineria impartiteci dal sottufficiale nostromo, ad esempio il numero incredibile di nodi, dal nodo di Savoia al nodo di ciuccio, dal piede di pollo alla gassa  d’amante, dal nodo parlato allo scorsoio e al nodo piano e a tanti altri, veri rompicapi quando ci provavamo noi.

Di quelle settimane ricordo soprattutto la ricerca di minuti liberi per scrivere una letterina a casa. Ci si riusciva solo dopo la tromba del silenzio, sullo scrittoio davanti al letto, rubando minuti preziosi al sonno. Il quale sonno era una merce sempre più rara perché, dopo giornate vissute di corsa, arrivata finalmente la notte, ti  poteva capitare:

- di essere chiamato al servizio di guardia notturno, che non era un servizio formale, perché si temevano attacchi di partigiani sloveni presenti in zona; si trattava di turni di due ore in postazioni intorno al complesso alberghiero e di veglia al corpo di guardia per le restanti ore della notte;

- di essere svegliato all’improvviso per vedersi consegnare un sestante, recarsi al buio sino al Forte Tegetthoff, salire sino alla vedetta, individuare un certo astro e fare le misurazioni della sua altezza sull’orizzonte, annotare i dati, che dovevano servire il giorno dopo per gli esercizi di calcolo del punto nave;

- di essere svegliati dalle sirene di allarme per il passaggio di aerei nemici, sempre più frequenti: in quel caso bisognava uscire dall’albergo e andare di corsa a una vasta galleria scavata appositamente nei pressi; gli allarmi avevano sempre una durata eccessiva rispetto ai pericoli effettivi;

- di doversi recare alla piscina per scontare qualche notte di prigione comminata dal signor Salina.

L’unico momento veramente distensivo era quello dei pasti. Alle nostre tavolate da dieci (quattro ai due lati lunghi e uno alle due estremità) arrivavano pasti che qualche settimana prima non ci saremmo sognati. La cucina era tipica di un buon albergo. Il pasto tipo era costituito da un primo, variato e sempre ottimo (forse anche per l’appetito), un entremets gustoso, pietanza con contorno portata sempre su un  piatto di servizio perché noi stessi ci servissimo, dolce, frutta, vino, caffè.

La sala da pranzo, immensa, conteneva una ottantina di tavole rettangolari  per dieci coperti. A tavola servivano camerieri civili quasi tutti livornesi e quindi bravi commercianti: pronti a fornirci a richiesta cose altrimenti introvabili; a fine pasto tiravano fuori confezioni di cioccolato autarchico e altri generi mangiatorii, richiestissimi da giovani sempre affamati.

Vicino al piazzale c’era uno spaccio ove si poteva comprare cancelleria, sigarette, stecche di cioccolato autarchico ecc., ma nei brevissimi intervalli liberi della giornata non si faceva in tempo a mettersi in fila e già il tempo disponibile era esaurito.

Dietro gli alberghi c’era una grande piscina coperta con numerose cabine attorno. La scarsezza d’acqua l’aveva messa fuori uso. L’ampio fondo era usato per scontarci le frequenti punizioni di prigione (due notti, tre notti) comminate dagli Ufficiali sulla parola: la sera si andava in camera, si prendeva sulle spalle il materasso e si andava a dormire in piscina. Nel caso di punizioni di rigore, si passava la notte chiusi nelle cabine; il tutto sempre di notte, perché di giorno si doveva lavorare. Punizione corrente, sempre sulla parola, con esecuzione immediata, era costituita da tot giri di bitta, una corsa ripetuta tot volte tra due delle grosse bitte di ferro infisse ai bordi del molo per l’attracco dei natanti, corsa che facevamo il più celermente possibile per tornare ai movimenti liberi. Dopo eseguita ogni pena, ci si presentava all’Ufficiale che l’aveva comminata per dargli conferma della espiazione. Le punizioni di rigore venivano registrate e lette pubblicamente nell’adunanza giornaliera.

Al mio tavolo io avevo a una estremità un certo Pappalardo, pugliese, che aveva sempre da ridire su tutto, all’altra estremità Cesare Rubini, poi divenuto famoso come campione di pallanuoto e di pallacanestro e ora Presidente onorario dell’Associazione mondiale degli Allenatori di Basket, sempre affamato: il piatto di servizio della pietanza iniziava il giro una volta da Pappalardo e una volta da Rubini; nel primo caso, noi facevamo in modo che a tutti toccasse una normale porzione; nell’altro caso Rubini mangiava il doppio, noialtri tutti il normale e Pappalardo restava all’asciutto.

A turno una volta alla settimana alcune Sezioni andavano in franchigia prendendo al molo il legno (battello) che ci portava a Pola: erano le sole ore di piena libertà, mi pare un paio d’ore che noi non sapevamo neanche sfruttare bene. Dopo il passaggio a una gelateria, si andava su e giù sino all’ora del reimbarco.

Ai primi di agosto arrivò in visita da Venezia il Comandante Generale dell’Accademia Amm. Bacci di Capaci, che ci passò in rivista e assisté al nostro giuramento. Fu una gran festa; era la prima volta che vedevamo un Ammiraglio; suo figlio Giulio sarà poi mio collega alla SIAE e verrà a rilevarmi in un incarico a Parigi.

Con l’andare del tempo e con gli effetti delle restrizioni di guerra si è rarefatto il traffico del battello che rifornisce d’acqua l’isola. Cominciamo a risentirne gravemente: non solo non funziona la piscina, ma comincia a essere insufficiente l’alimentazione delle camere negli alberghi. Un bel giorno ci arriva l’ordine di non usare più il water in camera. Nel frattempo il Comandante Napp, pieno di spirito pratico, ha fatto costruire non lontano dal piazzale un monumentale catafalco di legno, proteso sul mare, che sostituirà i gabinetti delle camere e degli altri ambienti. Ci adattiamo allegramente alla novità, battezzandola subito: si dice “vado al Napp”. Nel catafalco ci sono anche docce, che useremo con parsimonia.

Utilizziamo le bellissime calette rocciose per i bagni a mare. A quelli come me che non sanno nuotare vengono impartite lezioni molto sommarie; un giorno mi hanno scaraventato in mare da una barchetta che sostava su una fila di massi di cemento disordinatamente sommersi: mi son fatto un bel po’ di male a un malleolo.

VI.3)  La fine del Fascismo

Quattro giorni dopo la mia partenza da Roma, la capitale subì il bombardamento [19.VII.1943] del quartiere San Lorenzo. Fu uno shock non soltanto per i romani. Le immagini del papa Pio XII fra le rovine furono più impressionanti dello sbarco alleato in Sicilia, di cui non si avevano immagini. Poco dopo, il 25 luglio [1943], il Gran Consiglio del Fascismo esautorava Mussolini, subito arrestato per ordine del Re.

Questi avvenimenti turbarono chi aveva la famiglia a Roma, ma non sconvolsero la vita della Accademia, che proprio in quei giorni avviava il programma del IX Corso P.N.  A parte il fatto che la Marina Militare era l’arma meno compromessa col regime (la sensazione di questa specie di distacco dalla politica aveva attratto me e con me gran parte dei miei compagni allievi), in effetti i giovani universitari, quali eravamo tutti noi accademisti, avevano compreso da un pezzo che si stava avvicinando la fine del ventennio. I disastri militari umiliavano l’Italia, bistrattata ora anche dall’alleato germanico, e noi sentivamo l’impulso di fare qualcosa per riscattare l’onore del nostro paese. La fine del regime ci trovò quindi già preparati e non influì minimamente sull’ambiente della Marina, che anzi sembrava quasi sollevata da una presenza indigesta.

Io ero però preoccupato dal fatto di essere lontano dai miei proprio in questa fase così delicata, di essere assente mentre la situazione precipitava e stavano maturando finalmente grosse novità. Il non poter seguire i fatti là dove si svolgevano, il non potervi avere alcuna parte, era per me una menomazione sentita con una certa amarezza. D’altra parte, il trovarmi proprio là dove avevo scelto di andare per sfuggire ai rischi di coinvolgimento nel passato mi dava qualche conforto.

Cominciammo a capirci fra alcuni compagni e si delinearono i primi rapporti di amicizia. Trovai nella mia Sezione qualche collega con cui legarmi: c’era Gianni Pisaneschi, toscano, morto poi giovanissimo; c’era Enzo Cutelli milanese; c’era soprattutto Pietro Antonelli (pronipote del cardinale Giacomo Antonelli segretario di stato di Pio IX), giovane atletico, brillante, di solida preparazione.

Eravamo assetati di notizie, ma non avevamo bastanti giornali a Brioni e soprattutto non avevamo il tempo di acquistarli e tanto meno di leggerli. Il corpo degli Ufficiali del resto curava di evitare che la politica turbasse lo svolgimento dei programmi e quindi non ci aiutava a soddisfare la nostra sete di notizie.

Un crescente nervosismo si diffuse nell’ambiente perché l’Istria sembrava pullulare di partigiani antiitaliani. La nostra sorveglianza notturna si fece più attenta, ma con qualche conseguenza buffa: una notte una delle nostre sentinelle sparò a un’ombra che si moveva nel buio di un boschetto vicino e fu ferita a una coscia, per fortuna leggermente, una delle nostre cameriere che si era appartata con uno dei nostri camerieri; un’altra notte uno sparo analogo fece una vittima: era un magnifico cervo, che una volta frollato finì in cucina con la sua carne scura e saporita.

VI.4)  L’armistizio

Il nostro corso continuava con regolarità: dovevamo completare l’istruzione teorica in Accademia in tre mesi, sino a metà ottobre; poi saremmo stati destinati alle unità operative per un rapido addestramento pratico già col grado di guardiamarina.

Il mercoledì 8 settembre [1943], secondo il consueto turno settimanale, toccò alla mia Sezione di andare a Pola in libera uscita nel pomeriggio: gironzolammo come al solito, ma diversi minuti prima dell’orario io ero già di nuovo a bordo del legno per rientrare a Brioni. Ero seduto al ponte più alto leggendo un giornale che finalmente avevo potuto acquistare in città. Fui disturbato da un insolito chiasso che infine mi fece distogliere dalla lettura. Guardando a terra  mi accorsi che molte persone stavano correndo come impazzite e gridavano qualcosa. In un baleno fui a terra e finalmente capii che si urlava “L’armistizio! L’armistizio! E’ finita la guerra!” Era stato appena letto alla radio l’annuncio datone dal Capo del Governo Maresciallo Badoglio. Tutti erano esaltati dalla idea che anni e anni di guerra, di sacrifici, di distruzioni, di morte erano finalmente terminati; chi piangeva, chi rideva; il lungomare era un brulicare di gente che cresceva di minuto in minuto. In preda alla emozione, risalii subito sul battello: non vedevo l’ora di rientrare a Brioni. Nel frattempo, dall’alto  del ponte  dove ero risalito vidi con un certo turbamento  una immagine che  mi è rimasta fortemente impressa nella memoria: in mezzo alla folla esaltata, due militari tedeschi su un calessino passavano calmi senza essere in alcun modo distratti dallo spettacolo circostante. Questa immagine mi fece riflettere subito sulla frattura, ora evidenziata così palesemente, fra il comportamento degli italiani immediatamente pronti alla smobilitazione e il comportamento dei tedeschi che mantenevano la normale efficienza della loro organizzazione militare.

A Brioni fu una serata di discussioni vivacissime, con una immediata divisione di pareri sulla questione più importante che riguardava specificamente i militari e in specie noi allievi. Le parole di Badoglio erano state ascoltate in Accademia anche perché ripetute più di una volta. La  infelice espressione sibillina che gettò l’Italia nel disordine era oggetto di accalorate analisi fra gli allievi, con l’intervento anche di qualche ufficiale inferiore: buona parte dei disputanti era convinta che tutto fosse finito, che caduta l’Italia tutto il fronte sud sarebbe crollato e quindi anche la Germania sarebbe stata costretta a seguire l’esempio italiano; noi dovevamo soltanto aspettare di essere mandati a casa. Secondo l’opinione opposta le parole di Badoglio dovevano essere intese nel senso che gli italiani, finite le ostilità con gli Alleati anglo-americani, dovessero essere pronti a battersi contro chiunque - evidentemente i tedeschi – credesse di attaccarli. Qualcuno, ma assai timidamente, fece questione di fedeltà all’alleanza dell’Asse. Ma la generalità era soltanto desiderosa di tornare a casa. Il Comando di Brioni dell’Accademia non intervenne in queste discussioni;  rimanemmo perciò ansiosi di conoscere le decisioni superiori.

La mattina successiva il Comandante Sìmola si recò a Venezia presso il Comando Generale dell’Accademia per esaminare la situazione e prendere la decisioni del caso. Da noi tutte le attività riguardanti i corsi si erano fermate; continuammo con le nostre discussioni, ma in  modo più pacato.

Io passai parte della mattinata a scrivere una lunga lettera ai miei, lettera datata 9.IX.43 che però non potei spedire: l’ho ancora e porta il timbro di controllo dello STALAG XVIII C, il campo di concentramento tedesco dove mi fu sequestrata all’arrivo per essermi riconsegnata un anno dopo come dirò a suo tempo: la lettera voleva tranquillizzare i miei familiari e in particolare le famigliole di Maria ad Avezzano e di Elvezia a Roma circa i possibili sviluppi della situazione, ma per quanto mi riguardava faceva intravvedere la possibilità che io rimanessi “molto tempo in giro”. Dalla lettera risulta che in quel momento io disponevo ancora di 250 lire, residuo della liquidazione incassata lasciando il lavoro.

A tarda sera il Comandante Sìmola rientrava da Venezia portando grosse novità, che però conoscemmo solo il giorno successivo.

La mattina del 10 settembre [1943] arrivò, insieme con le notizie, il transatlantico Vulcania, che portava dipinta sulle fiancate una grande croce rossa. Il Vulcania era da due o tre giorni arrivato in Italia proveniente dall’Africa Orientale ove, d’intesa con gli Inglesi, era andato a rilevare i civili italiani, donne, bambini, vecchi, che erano rimasti in loco dopo la resa e l’internamento in prigionia delle truppe italiane. La nave aveva fatto tutto il periplo dell’Africa sia all’andata che al ritorno in un viaggio durato molte settimane con varie peripezie. Ora era stata destinata a prendere a bordo tutta l’Accademia di Brioni, uomini e materiali e dotazioni logistiche, per essere trasferita a Sud ove nel frattempo stava fuggendo il Re Vittorio Emanuele. Tutti noi, oltre settecento allievi, fummo mobilitati per effettuare in giornata il carico completo di tonnellate e tonnellate di materiali vari su piccoli natanti che raggiungevano la nave ancorata in rada. Fu una giornata difficile da descrivere: un esercito di formiche in movimento continuo,  portando materiali in tutte le maniere, a braccia, sulle spalle, in due o tre di noi, su carriole, continuamente incitati perché le operazioni si concludessero in serata. Naturalmente dovemmo preparare in fretta anche i nostri bagagli personali risolvendo rapidamente alla meglio i problemi riguardanti la capienza delle nostre valigie per  una dotazione che nel frattempo si era arricchita delle divise.

Come Dio volle, al tramonto avevamo terminato e salimmo tutti a bordo pronti alla partenza.

Affranti dalla fatica, impolverati, accaldati, trovammo posto nelle tante cabine a disposizione solo per depositarvi i nostri bagagli personali, quindi uscimmo per consumare  la cena  distribuita alla meglio nei corridoi: in quella occasione io sperimentai la capacità di un giovane di ingozzarsi senza limiti quando ha fame e non ha la certezza di poter sempre disporre nell’avvenire del cibo necessario: debbo aver mangiato più del doppio della cena completa che pure era abbondante. A quel punto, avevo bisogno di aria: la nottata era calda e per digerire la cena e smaltire la stanchezza pensai di stendermi a terra in coperta. Mi trovai a poppavia in prossimità del pozzo delle catene. A qualche metro da me un ufficiale della nave (era personale della Marina mercantile) dava degli ordini. Io guardavo le stelle in uno stato di sopore felice e ascoltavo questi ordini di cui non capivo gran che: cominciai a incuriosirmi quando l’ufficiale alzò il tono della voce con ordini sempre più concitati e stranamente assurdi per quello che io mi aspettavo. La nave si muoveva. Mi alzai in piedi e feci in tempo a vedere che, invece di avviarsi verso il largo, l’enorme massa del transatlantico stava dirigendosi a tutta forza verso l’isola: allibito, incredulo, nel giro di un minuto sentii due o tre pesanti sobbalzi finché la nave si arrestò, seduta. Era stata volutamente gettata ad arenarsi sugli scogli della costa.

VI.5)  In attesa dei tedeschi

Non ricordo se ho dormito quella notte. Ritrovai i miei compagni nella cabina ove avevamo lasciato il bagaglio: con me c’erano gli amici Pietro Antonelli ed Enzo Cutelli. Costituimmo da allora un sodalizio a tre che poi andrà avanti per giorni. Ci premeva di capire che cosa era accaduto e perché. Ci volle un bel po’ per raccogliere le tante notizie che circolavano rapidamente e per coordinarle fra loro. Capimmo infine che l’equipaggio mercantile della nave, tornato finalmente in Italia in prossimità della base (Trieste?) dopo tante peripezie, non aveva alcuna voglia di rimettersi in viaggio per tornare al Sud, tanto più in circostanze come questa piene di incognite. In una discussione animatissima tra il Comando della nave e il Comando dell’Accademia (si erano sentite dall’esterno urla concitate e pare che si sia messa mano anche alle pistole), la contrarietà dell’equipaggio ad obbedire agli ordini militari aveva trovato un insperato appoggio nel disaccordo tra il nostro Comandante in 1a Sìmola e il Comandante in 2a Giachin. Sìmola intendeva obbedire agli ordini di Venezia; Giachin si dichiarava fedele alle alleanze e quindi contrario ad abbandonare i Tedeschi. Una certa debolezza di Sìmola a cospetto della concordanza degli altri fu decisiva per la decisione adottata dal Comando della nave, che si giustificò poi accampando pericoli di attacchi di sommergibili tedeschi. Sìmola rimase poi chiuso a lungo nella sua cabina, mentre Giachin il giorno dopo percorreva in lungo e in largo la coperta  imbracciando una mitraglietta per sorvegliare che nessuno fuggisse.

La giornata dell’11 settembre [1943] l’abbiamo passata a bordo nel fermento delle discussioni sulle possibili prospettive. Qualcuno aveva convinto elementi dell’equipaggio – desiderosi anche essi, come sappiamo, di tornarsene a casa – a mettere in mare una scialuppa: il Comandante Giachin attentissimo vide la manovra e intervenne tempestivamente con una raffica della sua mitraglietta. Fu chiaro che egli aspettava l’arrivo di forze tedesche che venissero a prendere possesso militare della nave e intanto doveva presidiarla con la collaborazione degli ufficiali civili, i quali comunque controllavano il funzionamento di tutti gli apparati.

Nella impossibilità di fare qualcosa per lasciare la nave, il nostro trio si organizzò per passare al meglio le ore di attesa. Con Antonelli e Cutelli cominciammo l’esplorazione sistematica del transatlantico prendendo parte all’andirivieni generale, eccitati come gli altri nello scoprire i tanti ambienti diversi che ci si rivelavano dappertutto: cabine, cabine, cabine, corridoi, scalette, scaloni, sale da pranzo, salone delle feste, bar, sala cinema, cappella, depositi, serbatoi, sala macchine, centrali elettriche, cucine, cambuse, belvedere, scialuppe, boccaporti, sartiame, sala comando, sala timonieri. Sembrava nello stesso tempo una città e uno stabilimento industriale: nella sala macchine, vasta e altissima, sempre ansimante, si potevano vedere l’enorme albero di acciaio al quale erano innestate le eliche, labirinti di tubature di ogni genere, macchinari misteriosi e la vita pulsante con marinai sempre in movimento.

Girando qua e là, verso ora di pranzo passammo davanti alla cucina dei sottufficiali; dalle porte spalancate si vedevano due cuochi che manovravano con sveltezza padelle per cuocere omelettes; ci fermammo a guardare: i cuochi si divertirono a farci vedere saltare le omelettes nella padella per poi comporle ordinatamente una sull’altra in una pila calda e fumante; ci sfidarono a raccogliere omelettes lanciate in aria da loro; accettammo la sfida e seduta stante mangiammo un paio di omelettes ciascuno. Visto il nostro appetito, i cuochi si commossero e ci gettarono enormi tocchi di parmigiano. Con quello ci recammo dove veniva distribuito il pasto. Consumammo tutto senza problemi. Riprendendo il vagabondaggio, incontrammo un marinaio che stava uscendo da una cambusa; alla nostra curiosità rispose offrendosi di venderci qualcosa della dispensa: entrati in cambusa scegliemmo una latta di sette chili di marmellata di fichi di produzione sud-africana e un gran pacco di gallette, concordando facilmente il prezzo. Apprezzammo molto la marmellata di fichi che era per noi una novità, ma rischiammo poi qualche complicazione intestinale.

Insomma cercammo di sfruttare questa provvisoria condizione di attesa per fare un po’ di bella vita, specie sulle sdraio in coperta.

Ci ritraemmo amareggiati dal bailamme che regnava nei vari locali della nave, soprattutto dopo aver visto alcuni allievi che avevano ritagliato col temperino e asportato grossi riquadri della pregiata pelle di rivestimento dei divani nel salone di prima classe.

VI.6)  La resa ai tedeschi

Nel pomeriggio avanzato del giorno 11 comparvero in prossimità della nave due lance con militari germanici armati di mitragliatrici pesanti, i quali con un megafono ci invitarono a scendere a terra per discutere della nostra sorte. Visto che col Vulcania arenato non saremmo andati da nessuna parte, non potemmo fare altro che attenerci all’invito tedesco.

E così passammo tutta la notte, sino ad alba inoltrata, a fare a ritroso le operazioni del giorno prima. Anche se con meno fretta e con meno fatica, scaricammo tutto il materiale che prima avevamo portato su, aiutati un poco dalle attrezzature di bordo. Nel ritornare a terra su un piccolo peschereccio, nel gruppo di allievi che era con me scoppiò una lite a proposito del rapporto coi tedeschi; uno degli allievi, terrorizzato al pensiero di ciò che poteva attenderci, arrivò a emettere urla in un crescendo di eccitazione isterica. Allora il signor Pancani, un ufficiale che era a bordo con noi e che aveva assistito alla scena stupito ma in silenzio, d’improvviso sferrò un formidabile uppercut al giovane isterico, il quale istantaneamente si calmò senza fiatare.

La mattinata del 12 la passammo ad affrontare i tedeschi i quali ci presentarono tre proposte alternative: 1) collaborare militarmente con la Germania; 2) collaborare nel lavoro civile; 3) qualora non avessimo assunto nessun impegno di collaborazione, saremmo stati appena possibile mandati a casa. La quasi totalità di noi firmò ovviamente per la terza opzione.

Terminata questa trattativa, i tedeschi si ritirarono lasciando nell’isola un esiguo controllo. Così rimanemmo sino al pomeriggio del 20 settembre [1943]. Nel frattempo, il 17 settembre, il Vulcania fu disincagliato dai tedeschi e tornò a Venezia con un carico di militari (V. La Marina dall’8 settembre 1943 alla fine del conflitto, Ufficio Storico della Marina Militare, Roma, 1971, pag.  69).

Nessuno di noi aveva creduto alla promessa di essere mandati a casa. Nei giorni successivi fu un continuo dibattere sul da farsi. Il Comandante Sìmola si affannava a cercare dai tedeschi del piccolo presidio impegni concreti e immediati a lasciarci liberi, anche per capire meglio le loro intenzioni. Fra noi si discuteva della possibilità di organizzare una qualche resistenza armata alla cattura, dato che l’Accademia avrebbe dovuto disporre ancora di un po’ di armi e munizioni. Ma l’efficientissimo Comandante Giachin ebbe tempo e modo di impedire ogni tentativo, consegnando ai tedeschi non solo quelle poche armi, ma anche le riserve di viveri. Soltanto a due o tre allievi riuscì la fuga da Brioni: Alessandro Borghese, Orazio Sanjust di Teulada e forse un altro si impadronirono di un idrovolante che era ancorato da tempo in una caletta dal lato opposto dell’isola. Uno di loro aveva il brevetto da pilota. Prepararono l’operazione in gran segreto per qualche giorno. Chiesero a Pietro Antonelli, loro amico, di partecipare all’impresa. Pietro, che faceva parte ormai del sodalizio con me e con Enzo Cutelli e che con noi viveva i tanti espedienti messi in atto per andare avanti giorno dopo giorno  e che con noi si godeva  un regime di piccole avventure e di eccitante partecipazione alla sorte comune, non aderì all’invito, ma rese possibile la loro impresa prestandosi a trasportare sulle sue spalle (lui solo poteva farlo) un barile di carburante che essi avevano già individuato in un deposito dell’isola. Al ritorno da questo trasporto notturno, seppi da Pietro che egli era il campione italiano di pugilato dilettanti della categoria dei medio-massimi: strano hobby per un giovane aristocratico di ottima preparazione umanistica.

L’apparente trascuratezza dei tedeschi nel sorvegliarci e i loro stessi discorsi potevano indurre a credere che effettivamente si aspettasse un momento propizio a riportarci in continente e utilizzare un ricostituito sistema di comunicazioni ferroviarie per farci arrivare a casa. Ripresero le discussioni fra di noi sulle alternative tra tentare la fuga e attendere la sorte. Ma io e i miei due compagni finimmo per comportarci come se dovessimo profittare di una occasione straordinaria per fare una vita da vacanzieri e goderci la meravigliosa isola di Brioni.


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