Capitolo IX
Il lavoro in cantiere
(1943-1944)

IX.1)  Il cantiere di Hochried

Il mio gruppo è stato assegnato alla TIWAG (Tiroler Wasserkraftwerke Aktien Gesellschaft), importante società idroelettrica del Tirolo, la quale sta realizzando una centrale elettrica nei pressi di Zell am Ziller captando l’acqua dal Gerlos, un affluente del fiume Ziller, mediante una lunga galleria.

Per questo la TIWAG ha impiantato diversi cantieri: 1) quello base ai piedi della montagna, dove noi siamo stati caricati sull’Aufzug, dove arriverà l’acqua in caduta a forte pressione e dove si troverà la centrale con le relative turbine; 2) a Hochried, punto di arrivo in alto dell’Aufzug, dove si trova il grande cantiere all’imbocco della galleria; 3) a Gerlosberg (noi diremo più semplicemente “Gerlos”), punto intermedio del percorso della galleria; 4) a Gmund, punto di partenza della galleria dove sarà captata l’acqua del fiume Gerlos.

Zell am Ziller è una graziosa cittadina, capoluogo della Zillertal, la lunga valle percorsa dal fiume Ziller in provincia di Innsbruck, che parte dal fiume Inn e con varie diramazioni risale fino al confine italiano sotto la Vetta d’Italia, alle spalle della Valle Aurina.

Hochried  è una località di mezza montagna sul versante destro della Zillertal  in corrispondenza di Zell am Ziller.

Il cantiere di Hochried si distribuisce su vari livelli nel pendio della montagna e consiste innanzitutto di un vasto piazzale, punto di arrivo dell’Aufzug, circondato da magazzini vari e dall’imbocco della galleria, di diverse baracche per alloggi collettivi di lavoratori civili di varia provenienza (tedeschi, cechi, ungheresi, croati, anche due bergamaschi), di una baracca per prigionieri russi, di una baracca per internati italiani, di una baracca con alloggi familiari di lavoratori tedeschi, di una baracca per gli uffici amministrativi e tecnici dell’impresa, di una grande Cantina per i lavoratori civili.

Dal piazzale di Hochried parte una ferrovia a scartamento ridotto che fiancheggiando la montagna arriva al cantiere di Gerlosberg, al quale i lavoratori arrivano giornalmente a piedi da Hochried.

La nostra baracca, situata nel punto più alto, in posizione panoramica godibile dalla antistante balconata, è composta di vari locali: due camerate con 12 castelli ciascuna e, in mezzo, una stufa, comunicanti fra loro  con, all’ingresso, un bidone per le necessità fisiche notturne; un locale per la mensa con tavoli grezzi disposti intorno su tre lati; alcuni locali minori occupati dai sorveglianti militati tedeschi che sono un caporalmaggiore (da noi poi chiamato il “caporalaccio”), un caporale (detto da noi il “medio massimo”) e due soldati.

Dietro la baracca, a pochi metri in mezzo alla foresta, c’è  una baracchetta che funge da un lato da lavatoio con alcuni rubinetti di acqua corrente e dall’altro da latrina con la solita fossa affiancata dal solito tronco d’abete.

Un cantiere su una montagna alpina in mezzo a prati verdissimi e abetaie è, di per sé, un dono della fortuna che smentisce le minacce fatteci quando rifiutavamo di accettare le offerte di lavoro. La generalità degli internati italiani è stata destinata a lavorare in stabilimenti, nelle città soggette a bombardamenti aerei. Noi nei mesi prossimi vedremo passare sulle nostre teste migliaia e migliaia di bombardieri inglesi e americani diretti a nord.

IX.2)  I compagni di Zell am Ziller

Come ho detto, noi eravamo in 48, con una compatta componente di compagni provenienti dall’Accademia Navale. Con me ci sono: Luciano Balducci, Achille Bassan, Ranieri Cocchi, Dante Cohen, Elio Dassù, Oreste del Buono, Valdemaro Dionisi, Arturo Dolcetta, Domenico Donato, Orazio Fabbrini,  Massimo Fontana, Francesco Giorgini, Marcello Lang, Walter Martina, Leonardo Martinengo, Giacomo Pantano, Mario Simoni, Enrico Vecchio, Carlo Widmayer.

Ho detto Carlo Widmayer, ma ufficialmente egli si chiamava Massimo Tavanti. Quando c’è stata la divisione in due gruppi al termine dell’ultimo viaggio di trasferimento in treno, divisione concretatasi con la chiamata di due distinte liste di numeri di matricola, Carlo risultava staccato dal nostro gruppo nel quale aveva tutti i suoi amici, mentre al nostro risultava aggregato Massimo Tavanti che aveva i suoi amici nell’altro. Fulmineamente decisero d’accordo di scambiarsi la catenella con la targhetta del numero di matricola e tutto si sistemò. Solo che Carlo ci mise un po’ di tempo ad abituarsi a rispondere istantaneamente quando veniva chiamato all’appello il nome di Tavanti; per un po’, i tedeschi lo considerarono un tipo un tantino distratto.

Ho fatto un elenco dei miei compagni di Zell am Ziller a distanza di sessanta anni. Sono perciò tutt’altro che sicuro di non aver dimenticato nessuno degli ex allievi di Marina.

Ricordo qualche nome degli altri componenti il gruppo. Innanzitutto c’era Capo D’Acierno, un anziano e autorevole sottufficiale di Marina del massimo livello, che era stato con noi in Accademia e che è rimasto fino all’ultimo l’unico internato sempre perfettamente in ordine con la divisa come se fosse a bordo di un incrociatore; i tedeschi lo esentarono dal lavoro, ma gli dettero l’incarico di curare la nostra disciplina, l’ordine e la pulizia della baracca e la pulizia personale, incarico che egli assolverà sempre volentieri per il buon nome della Marina italiana. C’era anche Capo Mattioni, un timido e delicato sottufficiale che faceva parte della Banda della Marina come clarinetto e non si capiva come fosse finito fra noi. C’era un sergente dell’Esercito, il milanese Corbetta, un po’ presuntuoso. C’era Fàvaro, un soldato veneto; c’erano tre o quattro soldati italiani di etnia slovena, che parlavano mezzo triestino e mezzo sloveno; c’era un grosso e molle soldato napoletano, sempre tranquillo, aspetto semplicione ma cervello fino, che si sapeva sempre silenziosamente organizzare con molto senso pratico.

Valdemaro Dionisi, che all’epoca non aveva un aspetto molto sano, fu dai tedeschi destinato al lavoro in baracca: pulizia, stufa, svuotamento e lavaggio del bidone, ecc.

IX.3)  Il primo giorno

Il primo giorno di vita a Hochried cominciò assai tardi perché il giorno prima eravamo andati a letto a notte molto inoltrata. Ci sistemammo nel nuovo ambiente con qualche spostamento di camerata e di castello per ricostituire i piccoli clan.

Ricevemmo l’ordine severissimo di non chiudere a chiave i nostri bagagli, che dovevano sempre essere ispezionabili dai tedeschi. I bagagli (valigie, borse, pacchi) erano sistemati in alto, appoggiati su traverse di legno che facevano parte dell’armatura del tetto.

Arrivò l’ora del pranzo. Era un giovedì e trovammo una porzione di carne di vitello a fettine in una salsa rosa nella quale nuotavano dei nudeln (specie di spaghetti di grano tenero). Pensammo che fosse un pensiero molto gentile di benvenuto. Sempre ricordando le minacce ricevute, ci congratulammo con noi per aver resistito fino all’ultimo nel grande Lager. Poi sapemmo che quella pietanza di carne era ricorrente nel giovedì a mezzo giorno. E ci piacque ancora di più.

Nel pomeriggio ci allinearono tutti nel piazzale, uno a fianco all’altro, in attesa di una ispezione. Sono infatti venuti alcuni uomini a passarci in rivista. Il primo ci ha osservati con molta attenzione soppesando le nostre qualità e ci ha tastato i muscoli delle braccia; infine ha fatto un segnale a me e ad altri tre perché ci mettessimo da una parte. Un altro paio di uomini hanno fatto cernite analoghe. L’ultimo ha schierato dalla sua parte tutti coloro che erano rimasti. Ed erano la grande maggioranza. Prima di sciogliere l’adunata ci è stato detto che al mattino successivo, alle 7, ci saremmo dovuti trovare nello stesso posto ed ognuno di noi avrebbe dovuto seguire la persona che lo aveva scelto.

Mi sembrava di essere in un branco di schiavi offerti in vendita sul mercato, che gli aspiranti compratori cercavano di valutare attentamente per l’impiego cui sarebbero stati destinati.

Nello stesso giorno conoscemmo i componenti il piccolo distaccamento militare cui eravamo affidati.

Il Caporalaccio aveva l’aria folle e forse qualche anomalia psichica. Aveva sempre l’espressione ingrugnata e amava farci delle violente concioni tenendoci tutti immobili sull’attenti. I suoi discorsi somigliavano a quelli di Hitler. Spesso si adirava, anche per un nonnulla, e allora si accostava urlando a uno della fila, magari non personalmente imputabile dei motivi della sua ira, snudava il pugnale dalla lucida lama a punta e lo agitava sotto il naso o sotto gli occhi del malcapitato, il quale doveva restare assolutamente immobile per non aggravare questo supplizio. Le concioni duravano minuti e minuti e dovevano farci sentire dei vermi. Uno dei motivi che lo eccitavano di più era un nostro eventuale disordine nella tenuta da lavoro. Si aveva sempre il terrore che un bel momento perdesse il controllo di sé e spingesse quel pugnale sul volto del suppliziato. Era chiaro che la Wehrmacht non poteva utilizzarlo nei suoi reparti e lo aveva scaricato sugli internati italiani.

Il Caporale (Medio massimo) era un giovanottone con un fisico da pugile, che lui curava con esercizi e ginnastica:  non avevamo molto da lamentarci di lui, anche se era abbastanza duro. Dei due soldati, uno, il più anziano, era odioso, stupido e vigliacco; era sempre pronto ad infierire col calcio del fucile su qualcuno di noi con una scusa qualsiasi. Era lui che si accaniva, a calci e pestate col fucile, sul povero Leonardo Martinengo quando, nei primi mesi, durante le adunate mattutine, cadeva a terra scosso da crisi di epilessia. Noi dovevamo assistere impotenti a questo pestaggio inumano, al termine del quale un paio di noi prima di partire per il lavoro raccoglievamo Leonardo stremato e sbavante per trasportarlo in baracca (a dire il vero, ci è venuto qualche volta anche il sospetto che Leonardo fingesse abilmente quegli attacchi per evitare il lavoro magari a costo di tanti maltrattamenti; ma non siamo mai riusciti ad accertarlo).  Il secondo soldato non ci ha mai fatto del male, anche facendo il suo dovere; era viennese e si sentiva in lui lo spirito della sua città; alla prima occasione veniva a scherzare con noi, ostentatamente di nascosto dai suoi.

I soldati serravano le camerate a una certa ora della sera, dopo che avevamo cenato ed eravamo passati tutti al lavatoio per lavare la gamella.

I pasti ci venivano portati con dei bidoncini thermos; arrivavano nel locale mensa  e uno di noi a turno distribuiva le porzioni in gamelle che prendeva e riportava a ciascuno. Il lavaggio delle gamelle era una delle cose più antipatiche perché più difficili. 

IX.4)  Il lavoro in cantiere

Il secondo giorno  al mattino ci presentiamo in piazzale ai nostri arruolatori; dal mio ci presentiamo in quattro: io e Walter Martina, mio compagno bresciano, e due soldati sloveni di cui non riesco a ricordare il nome. L’uomo ci prende in consegna, ci guida a un magazzino, ci affida una lampada a carburo, ci insegna a caricarla di carburo e acqua  e ad accenderla, rinuncia ad imporci una specie di elmetto perché noi preferiamo tenere il nostro berretto da marinaio; ci conduce così all’imbocco della galleria. Entrando dentro, scopro un mondo per me del tutto nuovo.

Siamo nella parte terminale della galleria, laddove l’acqua, dopo il lungo percorso dentro la montagna, sarà immessa nell’enorme condotta esterna che la porterà a precipitare sulle turbine della centrale; una specie di grande sala che si sta terminando di scavare nella roccia  viva per portarla alla dimensione definitiva.

Un rumore infernale di mitraglia è prodotto dalle perforatrici  ad aria compressa che, spinte dalle braccia e dal petto dei minatori, bucano con le lunghe aste di acciaio la parete di roccia formando un profondo foro circolare e diritto. Nel foro completato vengono introdotti i candelotti di dinamite e al grido “Feuer!” tutti si allontanano. L’esplosione della dinamite demolisce  un pezzo di parete facendo crollare massi e pietrame. Qualcuno con una pesante mazza spezza i massi troppo grandi. Una coppia di manovali rapidamente carica massi e pietre su un ripiano di legno posto a un metro di altezza, altra coppia passa  quel materiale su un altro ripiano più in alto. Lì ci sono io con Walter, al livello del binario che porta al piazzale esterno; noi due dobbiamo caricare il materiale sui vagoncini ribaltabili (Kippwagon) che una piccola locomotiva a nafta porterà rapidamente fuori a vuotare per riportarli immediatamente dentro a ricaricare. Essendo noi due la coppia terminale, dobbiamo portare lo stesso ritmo di carico delle due altre coppie più in basso. Il materiale più minuto viene raccolto con una grossa e robusta pala concava; i massi più pesanti vanno caricati a mano. C’è la fatica da sostenere per portarli da terra al bordo del vagoncino; ma c’è soprattutto la presa con le mani: le rocce appena divelte sono irregolari e taglienti nelle sporgenze; le mie mani nei primi giorni sono troppo delicate per afferrarle. Sento dolore e mi procuro piccole lesioni. Ma in definitiva mi sorprende che la pelle delle mani regga abbastanza anche se tutta arrossata. Debbo stare bene attento a maneggiare le pietre. Respiro nelle pause per lo scoppio delle mine e per l’andirivieni dei vagoncini.

Il buffo è che Walter è stato arruolato per questo lavoro perché ha la figura massiccia; invece egli è abbastanza flaccido e protesta subito per la durezza del lavoro: nessuno lo ascolta; a me toccherà di fare anche un po’ della parte sua.

Resta il fatto che l’ambiente della galleria è per me affascinante. Non avrei mai immaginato appena poco tempo fa che avrei finito per appartenere a una squadra di minatori veri. Nella nostra squadra lavorano i due bergamaschi, uomini del mestiere, che non sembrano teneri con noi e qualche volta protestano in tedesco per il materiale divelto dalle mine che si accumula nel fondo perché lo smaltimento va a rilento. Ma quando ci troviamo insieme all’uscita mi dicono qualcosa, in un dialetto incomprensibile, che ha l’aria di essere quasi affettuoso.

Io comunque sono fiero della mia capacità di far fronte alla situazione, pur senza esperienza, e tanto più sarò fiero quando, dopo una decina di giorni, avrò fatto anche un po’ di calli alle mani.

Rientrando per pranzo in baracca trovo i miei compagni affranti dalla fatica e infreddoliti. Sono saliti più su nella montagna e sono stati messi a scavare fossi, ognuno un suo tratto, in un terreno durissimo. Sono disperati. Mi fanno davvero pena pensando che io sono stato al riparo dal freddo e che non dovevo scavare ma solo raccogliere materiale già scavato da altri. E’ un calvario per i miei compagni che invidiano la mia sorte. Hanno tanto da raccontare della severità dei soldati che li  accompagnano e sorvegliano sul posto di lavoro e della cattiveria dei  capi squadra civili che si comportano come aguzzini.

Speriamo che finisca presto.

IX.5)  La vita nel cantiere

L’ambiente del cantiere lo conosceremo di domenica, al quarto giorno, quando avremo tutta la giornata libera.

Il vecchio soldataccio ci apre la porta della baracca sempre di mala grazia. Il Caporalaccio ci aduna per fare le sue prediche  sempre arrabbiate di cui noi comprendiamo solo il tono generale.

Ma è facile capire dalla mimica che lui ci tiene molto non solo all’ordine e alla disciplina in generale, ma in particolare alla pulizia dell’ambiente e a quella personale. Chiede se qualcuno parla il tedesco: si fa avanti Francesco Giorgini che dovrà fare i salti mortali per riferirci passabilmente i suoi discorsi. Il capo ci fa distribuire un grossolano sapone da toletta, una Zahnpulver (polvere dentifricia) e una dotazione di soda per lavare la biancheria. Il nostro collega Valdemaro ha ricevuto il frettazzo per lavare il pavimento di legno dei locali della baracca.

L’acqua scaldata in grossi secchi messi la domenica mattina sulle stufe della baracca ci riporta verso l’abitudine all’igiene personale. In effetti, il periodo del Lager ci aveva resi tutti un po’ barboni. Ora dobbiamo riprendere quota e la severità del Caporalaccio e l’impegno di Capo D’Acierno ci riconducono man mano alla normalità. I tedeschi sono contrari alle nostre barbe come indici di trascuratezza; cominciano con il chiederne l’eliminazione e finiscono per imporla d’autorità. Così, le domeniche al mattino le impieghiamo per le operazioni di toletta, compresa la rasatura, e per il lavaggio della biancheria che viene immersa nei secchi di zinco con acqua calda e soda caustica: la mia biancheria dopo due o tre lavaggi non è più bianca, ma di una uniforme tinta grigio chiaro.

A proposito dei pasti, andiamo di sorpresa in sorpresa. Constatiamo innanzitutto che i pasti forniti a noi sono esattamente gli stessi forniti a tutti i lavoratori civili del cantiere compreso l’ingegnere tedesco. Essi arrivano in bidoni thermos con l’Aufzug dal cantiere base che è ai piedi della montagna. All’ora convenuta una nostra corvée scende all’arrivo dell’Aufzug a ritirare i nostri bidoni. Altri più numerosi bidoni sono destinati alla cantina dove vanno a mangiare i civili; alcuni sono caricati sul trenino a scartamento ridotto per essere portati alla mensa del piccolo cantiere di Gerlos.  C’è un menu settimanale che viene rigorosamente rispettato e che varia solo a distanza di mesi per motivi stagionali. Poco a poco veniamo a conoscere gran parte della cucina austriaca.  Di sera c’è a giorno fisso crema di piselli secchi, oppure un semolino cotto in acqua e latte e, una volta diventato cremoso, cosparso di burro fuso e cannella. Di venerdì c’è sempre una gran fetta di una semplice torta bagnata con sciroppo di frutta. Di giovedì a pranzo c’è carne di vitello in salsa rosa e nudeln. Al pranzo di domenica, per buona parte dell’anno c’è un favoloso Kaiserschmarren, una specie di frittatone strapazzato molto sodo e sostanzioso innaffiato di un particolare sciroppo. Ci sono naturalmente i Knödel, quelli comuni allo speck e quelli al fegato. Ma in primo luogo ci sono le patate, in purea o geröstete (arrosto), i bratwurste e i wurstel con crauti.

Insomma, anche se la quantità è sempre al di sotto del nostro appetito di ventenni, per qualità il cibo è sempre  appetitoso e gradevole  Durante tutta la settimana abbiamo la nostra razione di pane di segala, ma la domenica c’è pane bianco di una qualità che a noi sembra raffinata, secondo la tradizione viennese.

Non possiamo non sentirci dei privilegiati, pensando ai connazionali che stanno vivendo la grave penuria alimentare delle città italiane.

Abbiamo persino diritto a una razione di sigarette: mensilmente ci vengono distribuite 45 sigarette  a testa, una e mezza al giorno, che sono pochissime per chi fuma, ma costituiscono una preziosa risorsa per chi ha la fortuna di non fumare e quindi può vendersele.

Le sigarette sono moneta corrente non solo fra prigionieri. Molti prezzi, al di fuori dei negozi naturalmente, sono stabiliti in sigarette: nelle città un chilo di pane si paga 6 sigarette, da noi in montagna bastano 5 sigarette. Ho sentito che una mucca vale 2.000 sigarette.

Il mio amico Marcello Lang, sempre affamato anche qui a Hochried, più allucinato che mai sognando una mangiata senza limiti, per sua fortuna non fuma. Ma un bel giorno prova una delle sue sigarette e si accorge che il fumo gli attenua la sensazione della fame; in quattro e quattr’otto prende il vizio del fumo e arriverà anche a vendersi un po’ del suo pane per acquistare qualche sigaretta.

Il pomeriggio della domenica lo passiamo nella balconata a guardare il panorama, il cantiere, gli abitanti delle baracche e specialmente i russi con i quali comincia qualche scambio di messaggi facilmente intelligibili fra due nazionalità che mi sembra abbiano qualcosa in comune.

La baracca dei russi sta di fianco alla nostra, appena un po’ più giù. Il loro cibo è completamente diverso dal nostro e ha un odore lievemente nauseante: è solo una brodaglia, sempre la stessa, e a me pare che sia fatta mettendo a bollire lische di stoccafisso: ci deve essere qualche utile sostanza nelle lische che viene così estratta a beneficio dei nostri fratelli russi, i quali all’aspetto sono tutti stranamente gonfi.  Un loro compagno  ha la funzione  di Dolmetscher (interprete), ma si comporta piuttosto come un Kapò.

IX.6)  Cambio lavoro

Dopo poche settimane il lavoro in galleria termina per me, perché il compito dei minatori per l’ampliamento del grande ambiente iniziale è stato concluso.

Da un giorno all’altro passo quindi,  dalla squadra dei minatori che lavorano giorno e notte in turni di otto ore, alla squadra che comprende la quasi totalità dei miei compagni e lavora all’aperto. So che i miei nuovi capi sono pressappoco dei negrieri e vado rassegnato al sacrificio.

La squadra deve lavorare allo scavo di una rete di fossi per l’interramento di condutture di acqua captata da una sorgente più in alto.

La mattina tutti in fila imbocchiamo un sentiero che sale fra gli abeti incontrando ogni tanto un prato verde, qualche piccola baita e, dominante un prato più ampio, una grande casa di abitazione tutta in legno. Si continua a salire, con i capi squadra davanti e i due soldati di dietro, finché si arriva a una zona un po’ a prato e un po’ sassosa nella quale si trovano tratti di piccoli scavi: a fianco a una minuscola capannetta sono appoggiati gli strumenti di lavoro, pale e picconi; i miei compagni vanno a prendere i loro strumenti. Uno dei due capi conduce anche me e in italiano mi dice “pala” e poi mi indica un piccone perché io prenda i miei attrezzi; quindi mi conduce in un punto intermedio di una linea già disseminata di miei compagni i quali mi stanno a guardare. Il capo mi assegna un tratto, tre o quattro metri, che debbo scavare per un mezzo metro di larghezza e poco più di mezzo metro di profondità; quindi si mette da parte a guardarmi, fumando una sigaretta. Prendo il piccone e comincio a tastare il terreno davanti a quella presenza fastidiosa. La terra è abbastanza molle in superficie, ma trovo subito sotto un sasso grandicello. Giocando con la punta del piccone libero il sasso, lo prendo con le mani e lo appoggio da un lato; così posso lavorare un po’ con la pala, che essendo a punta è utile anche per scavare la terra molle. Finisco per familiarizzare con questo lavoro e vado avanti, sempre con il capo che mi osserva; la sua presenza non mi dà modo di fare pause di riposo, sicché a metà mattinata ho potuto finalmente completare lo scavo. Il capo, che intanto ha fumato altre sigarette, mi fa cenno di seguirlo e mi porta in testa alla fila dei miei compagni assegnandomi un altro tratto analogo da scavare. Ho preso tempo camminando con calma, ma mi debbo rimettere al lavoro. Finalmente il capo si allontana e io respiro, ma dopo cinque minuti torna accompagnato dall’altro capo squadra e chiacchierando mi si mettono davanti tutti e due. Non c’è verso di poter prendere fiato. A fine mattinata ho terminato il secondo tratto: fischia l’adunata e ci mettiamo in fila per tornare in baracca. I miei compagni mi accolgono con occhiatacce e mugugni. Quando siamo in baracca senza più i capi scoppiano in proteste e insulti: in sostanza mi rimproverano di .. rovinare il mercato; ho lavorato troppo e adesso chissà che cosa pretendono da loro i capi; con un tratto di tre metri loro ci passano una giornata intera se non di più; per colpa mia ora non sarà più possibile.

A questo punto sono io a protestare. “Mi avete sempre detto che stavate facendo i lavori forzati, che vi spingevano alla fatica con le punte dei bastoni e col calcio dei fucili, che era un lavoro insostenibile e che io invece ero un privilegiato in galleria! Ho avuto addosso i capi tutto il tempo! Che dovevo fare?”.

Alla fine facciamo pace perché siamo veramente amici: e mi illustrano i modi di far finta di lavorare e di affaticarsi intorno a un sasso che non si riesce a smuovere. E mi parlano dei due capi, Bühno (Benedetto) e Kasimir che in fondo non sono cattivi; debbono far finta di esserlo perché ci sono i soldati che sorvegliano.

IX.7)  Arriva l’inverno – La giornata dei tubi

Piuttosto c’è il freddo. Da un pezzo ci sono delle passate di nevischio e quando non c’è neve si fa sentire un vento gelido. Noi non siamo attrezzati per il freddo: siamo alpini vestiti da marinai. Unica difesa il pastrano, stretto alla vita magari con lo spago. Il pastrano è utile per la pioggia e un po’ per il vento, ma non per il freddo vero. Al berretto da marinaio abbiamo tolto la struttura rigida interna per farlo scendere fino agli orecchi. Il guaio è con i piedi: le scarpe sono ancora quelle da marinaio ridotte abbastanza male col lavoro e con il terreno di montagna; le calze bucate e lacere danno più fastidio che conforto.

La rete di distribuzione dell’acqua deve raggiungere il più gran numero di abitazioni della zona. Perciò la nostra squadra si allontana sempre più dal cantiere. Nei molti andirivieni veniamo a contatto con le famiglie dei montanari, che sono attualmente composte di donne e vecchietti. A volte la squadra si deve sdoppiare per iniziare il lavoro in una nuova zona  mentre è ancora da terminare l’altro. A me e al mio compagno Walter è assegnato il compito di preparazione delle mine quando si incontrano massi da far saltare; ci capita spesso di lavorare isolati. Sicché non è raro che si faccia poi ritorno in baracca alla spicciolata senza militari e senza capi. E allora scatta l’irresistibile tentazione di entrare in contatto con la gente, per chiedere qualcosa da mangiare o con la scusa di chiedere qualcosa da mangiare. Ormai siamo conosciuti dalla gente del posto. Se bussiamo alla porta di una di queste case isolate, la donna che ci viene ad aprire ci dice subito di attendere un momento; va in cucina e torna con un gran pezzo del loro pane rustico (fatto in casa, un pane scuro pesantissimo) e una gran ciotola di latte acido (la bevanda che usano normalmente a tavola). L’incauto postulante che ha fatto la faccia del morto di fame comincia a masticare il pane e a fare frequenti sorsi del latte, mentre la donna parla in un incomprensibile dialetto tirolese; con qualche difficoltà termina di ingozzare il tutto, il che dovrebbe servirgli di lezione, ma non è così: alla prossima casa prova di nuovo sperando in una sorte migliore, ma si ritrova col solito pane e il solito latte acido. Mette in tasca il pane, ma il latte deve proprio sorbirlo tutto. Ho pensato dopo che questo doveva essere un loro modo di farci passare il vizio. Il vizio ci è passato più che altro perché non ci è mai capitato di veder apparire a quelle porte una bionda desiderabile. Comunque, il pane portato in baracca trova ottima accoglienza fra i compagni.

Stiamo entrando in pieno inverno e capita sempre più facilmente di dover lavorare sotto una nevicata. Ma quando nevica la temperatura è più sopportabile. Solo una sera dovemmo anticipare il rientro perché d’improvviso arrivò la tormenta. Chi non l’ha conosciuta non può immaginarla. La neve gelida vola all’impazzata, come aghi di ghiaccio, e si ammucchia rapidamente sul sentiero per spostarsi poco dopo trascinata dal vento. Si vede male intorno ed è difficile mantenere il cammino sul sentiero il cui andamento scompare sotto l’ammassarsi repentino e disordinato della neve. Una vera lancinante sofferenza la sento nella fronte: ho cercato di coprire tutto il possibile, ma un gelo tagliente si impadronisce delle tempie come una morsa. Puoi solo cercare di affrettare il passo. Nessuno parla perché non conviene aprire la bocca; ci guardiamo smarriti e spaventati. Quando finalmente arriviamo in baracca, occorrono diversi minuti prima che le trafitture alle tempie svaniscano, ma intanto ti viene il timore che sia accaduto qualcosa di irrimediabile all’interno dell’osso frontale.

La neve sarà poi la regina assoluta di una giornata che chiameremo “il giorno dei tubi”. Terminato il programma di scavo della rete dei fossi, un bel giorno, sotto una nevicata più fitta del solito, dobbiamo condurre una operazione eccezionalmente dura. Un centinaio di tubi  sono accatastati sul piazzale: sono tubi di 4 o 5 centimetri di diametro, lunghi non meno di quattro metri, che debbono essere portati da noi fino al livello più alto della nostra zona di lavoro, alla sorgente. I tubi sono incollati fra loro dal ghiaccio, si fa fatica a staccarli. Ne prendiamo uno a testa  che appoggiamo in equilibrio su una spalla e cominciamo la marcia in salita. Non capiamo perché dobbiamo salire per una scorciatoia che ovviamente è più ripida del normale sentiero e passa in mezzo alla foresta. La neve abbondante non facilita la salita; le gambe affondano nella spessa coltre bianca e ogni passo è una sfida per la stabilità. Mentre facciamo difficili progressi nella salita, il tubo poco governabile urta contro alberi e arbusti. Questi urti li sentiamo nella mano stretta attorno al tubo il quale dà uno strappo secco alle dita. Abbiamo infilato dei guanti di grossa stoffa avuti in dotazione tempo prima, ma essi servono solo per trattenere il ghiaccio intorno alla mano. I tentativi di cambio di mano si risolvono spesso in torture supplementari. Ma soprattutto è assai difficile avanzare in salita  in mezzo alla neve così alta. In previsione delle difficoltà della giornata tutti i militari sono mobilitati intorno a noi e non si limitano a urlare improperi, ma ci danno spintoni e anche qualche botta col calcio del fucile. Il nostro sfinimento ha raggiunto il limite. Io naturalmente sono assai stanco come gli altri, ma molti stanno peggio di me. Mi succede anche che, nell’alzare una gamba  per avanzare in salita superando l’altezza della neve, mi si è scucito il cavallo dei pantaloni, sicché sento la neve che mi entra tra le mutande.

Come Dio vuole, con un impegno che è durato molto più di quanto prevedessero i tedeschi, terminiamo due viaggi di  salita e scendiamo chi prima chi dopo per tornare in baracca. Come un drappello superstite di una sanguinosa battaglia,  tra gemiti e imprecazioni ci ritroviamo in ritardo alla mensa, dove per fortuna è già arrivato il bidone del pranzo. Il Caporalaccio stavolta si è caricato più del solito; si piazza in mezzo alla mensa e attacca una filippica delle più violente contro la nostra infingardaggine. Ordina la distribuzione del pasto, ma i compagni che dovrebbero essere di turno non si alzano perché non ce la fanno. Allora mi decido io e comincio a fare su e giù con le gamelle tra il bidone, dove il povero Capo D‘Acierno mortificato distribuisce le porzioni, e i tavoli con i compagni ammutoliti. Il Caporalaccio continua con le invettive e le minacce, ma si interrompe un istante perché ha visto, mentre io mi chinavo, la scucitura dei miei pantaloni. Come se questa fosse causata dalla mia trascuratezza, scoppia in un grido più acuto, mi arriva addosso, mi molla un ceffone secco e violento e … finalmente si allontana. I miei compagni mi sono visibilmente grati di avere io fatto da parafulmine per tutti.

Nel pomeriggio la nevicata si è calmata, il freddo è un po’ diminuito,  la violenza dei militari si è già sfogata, il tragitto per completare il trasporto dei tubi è uno solo. Con pazienza e con la comprensione dei due capi squadra il lavoro, ripreso con forte ritardo, viene terminato prolungando di poco il solito orario serale.

IX.8)  La vita in baracca

La stagione invernale ci fa passare in baracca tutto il tempo disponibile, intorno alla stufa.

Io ho preso a seguire un regolare corso di lingua tedesca. Con la mia brava grammatica Otto-Sauer studio ogni sera una lezione, salvo impedimenti. Ho preso la cosa sul serio, ma non riesco a convincere nessuno dei miei amici a tenermi compagnia. D’altronde, da solo vado più spedito nella lettura e negli esercizi. Di giorno poi ho modo di praticare con Capo Bühno, al quale piace molto che io voglia scambiare qualche parola con lui. Stiamo diventando amici e molto più in là egli mi parlerà del suo socialismo che lo ha condotto a venire a vivere quassù con noi. Lo studio e la pratica di quei mesi si riveleranno molto utili per le mie vicende del prossimo anno.

Arturo Dolcetta studente di ingegneria con buon possesso dell’inglese e qualche masticatura di tedesco viene preso dall’ingegnere del cantiere nel suo studio per collaborare con lui nel disegno degli stati di avanzamento della galleria da riprodurre in eliocianografia. Siccome l’ingegnere passa molto tempo in giro nel cantiere e in ditta, Arturo ha modo di ascoltare all’apparecchio dello studio i notiziari di Radio Londra sulle operazioni di guerra; queste purtroppo non sono affatto esaltanti per noi che ci eravamo illusi in una rapida fine del conflitto.

Le conversazioni intorno alla stufa vengono talvolta rallegrate da qualche patata elemosinata presso i contadini e arrostita sulla piastra per essere poi suddivisa in più porzioni in una agape fraterna.  Impariamo a far asciugare con cura la buccia delle patate per farne un surrogato del tabacco; ci sembra che ne valga la pena; del resto, patata e tabacco sono ambedue solanacee.

Un giorno, in pieno inverno, mi arriva una incredibile sorpresa. Mi viene consegnata una valigetta che io col batticuore riconosco essere la valigetta di un grammofonino portatile di casa mia, che io stesso avevo massacrato rendendolo inservibile. I miei l’hanno adoperata per mandarmi un pacco, il primo che arriva al mio gruppo dall’Italia. Saprò poi che un giovanissimo soldato austriaco che ha passato delle settimane a Luco in un distaccamento di retrovia del fronte di Cassino, avendo saputo che un giovane del paese era prigioniero in Austria e dovendo lui andare in licenza a Vienna, si era offerto ai miei per portarmi qualcosa. Il pacco è arrivato al campo base di Markt Pongau e da lì mi è stato regolarmente recapitato a Hochried. E’ stata una festa generale. Fra l’altro c’era un grosso involto di foglie di tabacco biondo macedonia, che sono andate a ruba. Delle varie buonissime cose del pacco ricordo in particolare una confezione di una bella saponetta con involucro inglese, che mi pareva troppo preziosa per sprecarla  nella mia toletta da prigioniero; ma mi sono deciso ad adoperarla per lavare della biancheria finora trattata sempre con soda caustica. Strana saponetta: strofinavo strofinavo, ma non veniva assolutamente nessuna schiuma. Ripescato l’involucro, l’ho fatto leggere a qualcuno degli amici anglofoni ed ho saputo che era  un raffinatissimo formaggio inglese a lunga conservazione. Una rapida raschiatura per far dimenticare il contatto con la biancheria sporca e il formaggio ha trovato la sua giusta destinazione, anche se con mia scarsa soddisfazione.

La domenica mattina la dedichiamo alle pulizie: ci si lava un po’ meglio, ci si fa la barba, proviamo a liberarci dai pidocchi, che è difficile estirpare del tutto. Più impegnativa è la caccia alle cimici, che infestato i giacigli e tutto il complesso dei castelli infilandosi in qualunque interstizio o buco o fessura e depositandovi le uova; di giorno non si vedono, di notte l’armata esce alla conquista dei nostri poveri corpi; noi le combattiamo col lanciafiamme, .. cioè con la fiamma delle lampade a carburo passata su tutte le fessure: è una attività di contenimento, non certo di eliminazione.

Nei pomeriggi di domenica provavamo a fare un po’ di musica. Francesco Giorgini suonava facendo vibrare con la bocca un pettine con qualche effetto, Marcello Lang e io cantavamo. Marcello conosceva tutto un repertorio di canzoni americane e inglesi adottate poi in parte dal nostro complessino, che è stato eternato in uno dei disegni di Oreste del Buono.

Delle nostre esecuzioni ci dovemmo però vergognare quando in occasione di una festività dell’Unione Sovietica (forse la ricorrenza della Rivoluzione d’Ottobre cadente in Novembre), i prigionieri russi al completo si schierarono davanti alla loro baracca e ci regalarono un concerto corale di impressionante livello – specie negli armonici – che in Italia sarebbe stato degno di un coro professionale. Non avevamo sentito prima preparativi o prove. L’insieme delle voci era puramente casuale. Da allora capii che noi italiani siamo davvero negati per il canto corale.

Non ricordo niente di speciale per la ricorrenza del Natale [1943], che passò mestamente col pensiero rivolto alle nostre famiglie. Ci fu soltanto distribuita una bottiglietta di birra locale, una birra di guerra che svaporava rapidamente.  E pensare che proprio nella Zillertal, in un paesino a pochi chilometri da noi, era nato il canto natalizio Stille Nacht! Heilige Nacht!

Un episodio che mi fece molto male accadde all’incirca nel febbraio-marzo del 1944. Ho detto che avevamo una razione di 45 sigarette al mese. Era impossibile farle durare tutto un  mese, ma cercavamo di amministrarle con parsimonia. Erano le austriache Regie. In Italia avevamo conosciuto le R.6, bionde leggere. Lì ci distribuivano le R.2,1/2, sempre piuttosto leggere. Il mio caro amico che ho ricordato per l’episodio dell’ostia di pane al Lager, patito più di altri per il fumo,  pensò di affidarmi la sua razione, che io tenevo in valigia con le mie sigarette, perché gliene consegnassi una ogni sera quando prendevo anche la mia.  La sera di una domenica venne a chiedermi una seconda sigaretta (era normale) mentre io stavo discutendo qualcosa con altri amici nel locale della mensa. Su suggerimento di un amico, gli dissi di andare lui stesso a prendere la sua sigaretta nella mia valigia. Quindi egli venne a fumarsela accanto a noi. Dopo qualche giorno, prendendo le mie, mi parve che ne mancassero cinque. Conta e riconta con una certa rabbia, rovistando tutta la valigia, non trovai le sigarette mancanti, tanto da concludere coi miei compagni che evidentemente mi ero sbagliato nel tenere il conto. Il giorno dopo, il mio amico mi prese da parte, fuori baracca, per confessarmi piangendo che era stato lui a prendere le cinque sigarette. Era disperato. Non riuscii a calmarlo. Il suo animo evidentemente molto debole crollò del tutto. Accadde a brevissima distanza che venissero a cercare da noi due internati disposti a trasferirsi a lavorare in una fabbrica di città. Stavamo rifiutando decisamente quando il mio amico, facendomi un cenno d’intesa, si fece avanti ed accettò il trasferimento, insieme ad un soldato, perché non poteva più vivere in mezzo a noi. Da allora non l’ho più visto. Mi pare che nella sua vita civile si sia poi trasferito per motivi professionali in un paese africano. Lo vedo ancora quando, mentre avevi una sigaretta in mano, ti guardava implorando timidamente una boccata di fumo: “Mi dai un tiro?”.

All’inizio della primavera viene a farci visita un sergente tedesco che è il diretto superiore del nostro caporalaccio. Siamo sorpresi dalla raffinatezza e dal garbo dell’uomo, che forse è venuto soprattutto per ispezionare il suo sottoposto. Qualche scambio di parole  ci dà il coraggio di esporgli un nostro desiderio: vorremmo acquistare una fisarmonica da affidare a Francesco Giorgini per i nostri pomeriggi domenicali. Egli accetta volentieri l’idea e ci promette che se ne occuperà personalmente; dobbiamo soltanto mettere insieme la somma necessaria. Ci rendiamo conto che i marchi-lager che ci vengono versati mensilmente dalla TIWAG e che non abbiamo mai saputo come utilizzare possono essere tradotti in marchi normali. Si fa presto a mettere insieme fra tutti noi la somma necessaria e dopo un mese circa arriva una fisarmonica fiammante di marca italiana che dà tutto un altro tono ai nostri trattenimenti musicali e attira molto anche l’interesse dei russi.

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