Sono circa le dieci del mattino, di un radioso mattino di maggio [1945], quando facciamo i primi passi in discesa. Non possiamo non pensare alle impressioni che hanno sempre avuto le genti germaniche quando si affacciano sul “bel Paese”. La contrapposizione tra il ghiaccio grigio che abbiamo lasciato ora alle nostre spalle e il luccichio sfavillante della neve che copre la parte più alta del versante italiano è troppo netta. E accentua la gioia del ritorno in patria.
I nostri compagni di salita si trattengono fra le rocce. Francesco e io, dopo uno spuntino a base di wurst, ultimo elemento germanico della giornata, cominciamo a scendere il breve tratto ancora libero dalla neve e quindi affrontiamo l’ampia, liscia, libera discesa nevosa che ci si presenta davanti. Pensiamo di camminare obliquamente sulla neve intatta per scendere a zig-zag quel migliaio di metri di dislivello tutto bianco prima di arrivare al verde dei prati e delle abetaie che si vede di sotto. Ma ci bastano non più di dieci passi per dover cambiare programma. La neve compatta ancora abbastanza alta ha la parte superficiale, pochi centimetri di spessore, sciolta dal sole di queste prime ore. Sicchè i nostri passi fanno scivolare questo strato molle sullo strato duro sottostante. Noi cadiamo sulla neve molle e ci moviamo con essa in discesa, dapprima spaventati per la impossibilità di fare neanche un passo, poi divertiti quando ci accorgiamo che ci basta stare seduti per scendere a nostro piacere governando il movimento con il freno dei talloni. Qualche manovra è necessaria, ma facile, quando ci avviciniamo a massi isolati intorno ai quali la neve si è sciolta completamente. Ci urliamo la nostra gioia per questa stupenda inedita discesa, che arriva alla fine su un duro terreno erboso e sassoso.
Ora bisogna tornare a camminare. Il terreno è ancora in forte pendenza e non si può andare a casaccio. Cerchiamo in via orizzontale qualche traccia di sentiero. Infatti, ne troviamo uno che si dirige lentamente verso il basso alla nostra sinistra. Io vado avanti. Il sentiero, segnato lievemente sul terreno, non dà una assoluta sicurezza, tanto più che a un certo punto sparisce sotto una colata di neve dura che riempie, come un piccolo ghiacciaio, una piega ombrosa del terreno in forte pendenza. Mi fermo a studiare la zona e vedo che il sentiero riaffiora al di là della colata di neve, ovviamente più in basso. Prendo a camminare sulla neve dura in direzione inclinata. Debbo pestare bene ogni passo per creare una allocazione al piede prima di appoggiarmici. Dopo un po’ però mi accorgo che andando avanti così uscirei più in alto del sentiero. Debbo correggere la direzione dei miei passi verso il basso. Ma la modifica di direzione non è facile: un lieve sbilanciamento mi fa cadere sulla neve dura e scivolare pancia a terra. Non posso fermarmi data la pendenza della colata di neve. Per fortuna, agitando le braccia trovo un arbusto ai limiti della neve a cui mi appiglio per disperazione. Riesco a fermarmi. Con precauzione esco dalla neve, mi metto bene in piedi, guardo intorno .. e mi si gela il sangue. Se fossi scivolato per altri cinque o sei metri sarei poi precipitato, alla fine imprevedibile della colata, in un vuoto di cui non vedo il limite di sotto. Prego Francesco di stare fermo ad aspettare indicazioni. Faccio qualche passo esitante e vedo il precipizio che sta sotto di noi. Cerco di rassicurare Francesco perché stia calmo, ma lui ha già iniziato la traversata della colata di neve. Gli raccomando di stare molto attento e di seguire i miei passi e di continuare diritto dove io invece ho modificato la direzione. Ma lui, arrivato allo stesso punto, scivola come me verso il basso. Vedo con terrore che sta andando verso il precipizio, ma, miracolo, segue le mie tracce di scivolata e mi si avvicina in modo che io posso afferrare il suo braccio e fermarne la corsa. Non sarà facile farlo uscire dalla neve, dato il mio stato di agitazione. Alla fine, si mette in piedi, ci allontaniamo piano piano dalla zona e ci buttiamo a terra perché non riusciamo più a camminare. Le gambe ci tremeranno violentemente per un pezzo. Quando riprendiamo a camminare, l’erba secca e poi gli aghi secchi di abete tendono a farci scivolare di nuovo mantenendoci in uno stato di instabilità e di tensione, ma ormai possiamo cadere a terra senza più pericolo di precipizi. Questo è stato uno dei due momenti di vero terrore della mia vita; l’altro era stato l’incontro col Caporalaccio nella notte sotto il lampione dell’Aufzug a Hochried.
Ci mettiamo tempo a scendere lentamente la montagna fino al piano della Valle Aurina. Abbiamo visto scendendo che a sinistra c’è un paesino: il primo paese italiano! A un anziano contadino che lavora al suo campo chiediamo come si chiama quel paese. Il contadino non ci capisce e risponde qualcosa in un pessimo tedesco. Ci rendiamo conto così che siamo in Alto Adige o, più precisamente, nel Sudtirolo.
Troviamo la strada maestra della Valle Aurina e ci avviamo di buon passo verso Campo Tures, il capoluogo. E’ una valle assai tranquilla che risale sino alla Vetta d’Italia (m. 2912) e al Picco dei Tre Signori (m. 3498), percorsa da un fiumicello calmo e limpido. La strada è solitaria. In questo ambiente di pace, una modesta macchina dal colore militare tedesco che risale lentamente la valle si ferma incontrandoci. L’autista ci chiede qualche indicazione. Diciamo che non siamo del posto. Scambio di poche frasi con un giovane ufficiale che siede di dietro: noi diciamo che andiamo verso Campo Tures; lui dice che è piuttosto distante per andarci a piedi; lui ci porterà volentieri solo se abbiamo la pazienza di aspettare non più di un’ora, per consentirgli di pescare nel fiumicello. Accettiamo. Ci si va a fermare a qualche passo, a bordo del fiume. Il giovane, che è un ufficiale medico dell’esercito tedesco, si piazza con la sua canna mentre l’autista e anche noi ci mettiamo a rovesciare pietre per trovare vermi. Non si pesca nulla. Ci mettiamo presto tutti in macchina e si fa una tranquilla conversazione sulle bellezze della zona di cui il giovane tedesco è entusiasta. Noi pensiamo che non è poi tanto strano di vedere un ufficiale tedesco ancora in servizio, dato che si tratta di un medico. Cortesi saluti all’arrivo a Campo Tures, dove la macchina ci lascia davanti alla stazione ferroviaria.
C’è la tabella degli orari di un trenino che va da Campo Tures a Brunico, ma essa è solo un ricordo di tempi normali. Troviamo il Capo Stazione, un italiano meridionale, felice di parlare con due italiani, il quale ci dice che il trenino partirà da qui se e quando sarà arrivato da Brunico, forse domani. Ci sono alberghi o locande? Non c’è nulla e non funziona nulla. Il Capo Stazione mette a nostra disposizione la piccola sala d’aspetto di prima classe, chiusa a chiave e pochissimo usata anche in tempi normali, che ha alcune comode poltrone di pelle. Ci offre anche qualcosa da mangiare: una buona frittata preparata dalla moglie. Così ce ne andiamo a dormire, stanchi di una giornata nella quale abbiamo valicato le Alpi. Il Capo Stazione ci dà la chiave della sala d’aspetto, che gli restituiremo domattina. Alle ultime battute hanno assistito due giovani donne italiane che, quando restiamo soli, ci chiedono di essere ospitate nella saletta. Crediamo che vogliano offrirsi e facciamo capire che siamo a pezzi e vogliamo dormire. Anche loro sono stanche e vogliono solo un posto tranquillo dove passare la notte. Ci raccontano che stanno scappando dall’Italia dove rischiano di essere linciate perché sono state con i tedeschi. Le facciamo entrare: ci è troppo facile fare paragoni tra le ragazze anche troppo emancipate che abbiamo conosciute in Austria e che ci hanno aiutati in un periodo difficile e queste italiane che hanno fatto commercio di sé riducendosi allo squallido degrado che leggiamo loro in viso.
La mattina dopo ringraziamo calorosamente il Capo Stazione, il quale ci mette sul treno che è arrivato e che fra non molto ripartirà per Brunico. Cosa strana: non c’è un biglietto da pagare. In questi giorni in tutta Italia i treni funzionano quando e come possono e le Ferrovie dello Stato non osano chiedere il pagamento del biglietto dato che non possono garantire il servizio: neanche che un treno, una volta partito, arrivi poi a destinazione. Ma i ferrovieri sono talmente permeati dall’idea del loro dovere, che sembrano davvero lavorare per il pubblico e non per guadagnare uno stipendio.
Noi giungiamo regolarmente a Brunico, la prima vera cittadina del nostro viaggio, molto animata. Ma c’è qualcosa di strano. Vediamo i primi militari americani, con la loro divisa chiara di stoffa leggera, così diversa dai pesanti panni di lana delle divise militari europee. Vanno in giro come se stessero in vacanza, disarmati. Accanto a loro vediamo coppie di soldati tedeschi in servizio di ronda, con aria molto professionale. La presenza dei militari americani ci conferma che la guerra anche qui è terminata, ma sembra che gli unici armati siano i tedeschi.
Diciamo in giro che siamo italiani che rientrano dalla prigionia. Ci dicono che ci deve essere da qualche parte un posto di ristoro per noi, forse allestito dai partigiani, ma nessuno ci sa dire dov’è. Qualcuno infine ci indica di lontano un grande palazzo pubblico, al cui ingresso vediamo un militare americano, questo sì armato, di guardia. Ci accostiamo a lui; non sappiamo come dirgli che cerchiamo un posto di ristoro. Finiamo per dirgli “Noi partigiani!”. Appena sentita questa parola, l’americano mette in bocca un fischietto, guardando verso l’interno dell’ingresso e noi facciamo in tempo a capire che ha chiamato il corpo di guardia. Schizziamo via immediatamente per scantonare al primo incrocio in mezzo alla folla. Arrivati al sicuro con un bel fiatone, ci chiediamo cosa avrà capito l’americano. Infine, a due passanti che sentiamo parlare fra loro in italiano raccontiamo la scena per cercare di capire. E ci spiegano che proprio ieri gli americani hanno imprigionato diversi italiani perché ci sono stati degli eccidi commessi da sedicenti “partigiani” che certamente non erano tali e che hanno compiuto vendette private. Abbiamo quindi rischiato di finire in galera o quanto meno di essere fermati per interrogatori e controlli.
Troviamo poi davvero un posto di ristoro, che finora ha ristorato ben pochi italiani di passaggio. Non solo ci danno da mangiare e bere a sufficienza, ma ci accompagnano a una grande caserma dove sono allineati una decina di grandi camion sui quali stanno montando militari tedeschi che si sono arresi e che debbono essere trasportati a un punto di concentramento a Verona. Parlano con uno degli autisti, italiano, per farci salire sul camion insieme con i soldati tedeschi. E con loro facciamo un lunghissimo ma veloce viaggio all’aria aperta, in mezzo a questi crucchi intristiti. E’ una fatica per noi reprimere l’entusiasmo per questa bella zona d’Italia che attraversiamo andando a casa, noi soli stretti stretti in mezzo alla loro mestizia. Anche per questo, faccio buona parte del viaggio aggrappato al di sopra della cabina di guida, a godermi il vento e il panorama.
Scesi dal camion a Verona, siamo lasciati subito liberi su indicazione del camionista. E troviamo una città veramente italiana, pullulante di gente nelle piazze e nelle strade centrali, un po’ confusa, ma bellissima.
Dobbiamo sgranchirci e anche tirarci su. Entriamo in un bar per prendere un tonificante. Vado alla cassa e chiedo “Due cognac”. La cassiera: “Diciotto lire”. Io dico “Due bicchierini”, per significare “non due bottiglie”. E la cassiera “Diciotto lire”. E’ il mio primo impatto con la svalutazione della moneta. All’Università avevo sentito parlare della svalutazione secolare della moneta. Per anni e anni una sigaretta Macedonia era costata sempre 20 centesimi, un normale pranzo in trattoria circa 10 lire. Ora, pago e ripenso alle valutazioni fatte sulle mie 1400 lire. La mia è la reazione istintiva di tutti i reduci, che hanno lasciato una Italia quasi arcaica nella stabilità dei prezzi e trovano un clima economico nuovo con prezzi in continua lievitazione.
Ripartiamo subito. D’ora in poi dovremo affidarci alla casualità dei mezzi di fortuna. Ci si mette per strada e si cammina con la speranza di incontrare mezzi che facciano lunghe percorrenze.
Fortunatamente, dopo un tratto relativamente breve di strada a piedi, si ferma alla nostra richiesta un camion guidato da un marinaio in divisa. Il camion non è della Marina ed è anzi una vecchia carretta con pianale e basse fiancate ribaltabili. Senonché, del pianale sono rimaste soltanto due assi lungo i bordi di destra e di sinistra, con un pauroso vuoto nel mezzo. Quando ce ne rendiamo conto, rinunciamo al passaggio che ci viene offerto, tanto più che questo marinaio ci sembra un po’ strano. Ma lui, al quale avevamo detto subito che anche noi siamo marinai, ci tiene tanto a portarci fino a Rimini e tanto insiste che ci convince proprio per la lunghezza del percorso offertoci. Saliamo, ci sediamo sui bordi tenendo i piedi su quel poco di pianale, con il bagaglio fra le gambe. Abbiamo raccomandato di non correre troppo, ma la nostra posizione è comunque pericolosa. Ci sediamo allora sulle assi del pianale tenendo i piedi penzoloni nel vuoto centrale e aggrappandoci bene ai bordi. Pare che vada meglio. A questo punto il marinaio si lancia al massimo della velocità consentita dal mezzo: tra sobbalzi per il fondo stradale non perfetto e spinte centrifughe a ogni curva, passiamo il tempo a urlare al marinaio, il quale invece si sta divertendo maledettamente con la nostra paura.
Nel frattempo, con Francesco abbiamo discusso del programma di viaggio. Io debbo andare a Roma; lui deve andare a casa sua a Senigallia. Per andare a Roma io debbo farmi lasciare a Modena o a Bologna e cercare da lì altri mezzi. Per lui, il camion che lo porta a Rimini arriva quasi a destinazione. Egli mi ripete la proposta, già fattami in questi giorni, di andare con lui a Senigallia e di farmi rimettere in sesto e in ordine prima di presentarmi ai miei. L’accettazione dell’invito prolunga la mia attesa di ritorno a casa, ma ha i suoi lati positivi. D’altra parte, i miei non sanno nulla del mio ritorno e quindi non si pone un problema di ritardo. Alla fine accetto, naturalmente con la riserva che l’invito dovrà farlo, se lo ritiene, la sua famiglia. Restiamo insieme fino al termine della folle corsa del marinaio, che dopo tanti patemi ci lascia appunto a Rimini, come aveva promesso.
Non ricordo assolutamente di aver dormito da qualche parte tra Campo Tures e Rimini. Il viaggio perciò è stato effettivamente rapido. Ciò è stato possibile per le due lunghe tratte, la prima da Brunico a Verona e l’altra dal Veneto sino a Rimini, effettuate con due soli mezzi senza soste.
Benché notte alta, proviamo a continuare il viaggio a piedi, se non altro per sgranchirci le gambe. Ma non è possibile camminare al buio. Cerchiamo un posto dove fermarci, infilandoci in una traversa. Troviamo un cascinale tutto al buio e senza un cane. Dietro c’è un pagliaio, sul quale stendiamo le nostre povere ossa tra lo starnazzare di un pollaio che abbiamo risvegliato.
Al mattino ci pensano i galli a svegliarci molto presto. Manca poco per arrivare a Senigallia. La via Adriatica è molto battuta: non ci è difficile trovare due o tre passaggi per arrivare a Senigallia in mattinata. E’ il 18 o il 19 maggio.
L’arrivo a sorpresa di Francesco, il loro Checco, è una tale festa per la famiglia Giorgini, che dapprincipio non si accorgono di me. E’ lui che, dopo frenetici e interminabili baci con la mamma e con la sorella, mi indica come il suo compagno di Accademia e di prigionia che deve proseguire per Roma, a meno che la famiglia non lo ospiti per il tempo di rimettersi in ordine. Figuratevi le due donne! Sono di nuovo abbracci anche per me, che debbo sentirmi come un altro figlio. Fra poco rientrano a casa anche il padre e il fratello. Il padre, il comm. Giorgini, è il direttore della filiale di Senigallia del Banco di Roma: una figura di notabile pienotto e autorevole, sufficientemente cordiale con me. La mamma, una dolce signora di mezza età, diplomata in violoncello, mi dedica subito un grande affetto. Il fratello, più giovane di Checco, studentino, è emozionato e non sa da dove cominciare per fare domande. La sorella, Gabriella, la più giovane, è una brunetta dai capelli nerissimi, due occhi molto belli; arrossisce facilmente quando mi parla; preferisce starmi a guardare.
La famiglia ci dedica tutta la casa per una completa rigenerazione igienica. Tutti aspettano, per mettersi a tavola, che noi ci siamo fatti il bagno, lo shampoo, la barba, le unghie, ecc. Il papà veramente avrebbe fretta perché dovrebbe tornare in ufficio, ma poi telefona a qualcuno per dare delle istruzioni e per dire che oggi ha ben altro che l’ufficio per la testa; e aspetta anche lui per il pranzo. Checco si profuma e si riveste con un suo abito estivo. Io per il momento starò in pigiama, salvo a vedere dopo come farmi vestire. Intanto, fanno lavare tutto il mio vestiario.
La concitazione dei discorsi è un po’ comica; come si fa a raccontare qualcosa che abbia senso in un fuoco di fila di domande? Anche Checco ha domande da fare. Infine, si informano di me, della mia famiglia, del paese d’origine, dell’università, del lavoro che ho già fatto.
Poi ci mandano a dormire. Io faccio fatica a prendere sonno pur avendone tanto bisogno. Quando mi risveglio, è Gabriella che è venuta silenziosamente nella camera dei reduci a portarci il caffè. Io mi sento in un mondo di sogno. Mi trovano pantaloni, camicia e un gilet di Checco; mi stanno un po’ attillati; vanno benissimo. Mi rendo conto che io non ho mai posseduto nella vita civile dei capi di qualità come questi.
Sto due giorni in casa Giorgini. Non vorrebbero lasciarmi andare mai. Mi portano con loro a trovare famiglie di parenti e di amici; ho l’impressione che in qualche caso mi esibiscano; e qualcuno guarda con malizia Gabriella e me .. Mi presentano al parroco don Secondo. La mamma mi dedica in esclusiva una esecuzione di violoncello, riprendendo lo strumento che suona sempre più di rado. Checco mi lascia solo in casa, con i suoi, perché lui è ansioso di andare a rivedere Tizio (-a) e Caio.
Finalmente vengo licenziato e accompagnato al treno per Ancona. Mi accompagnano Checco e Gabriella, la quale infine mi abbraccia vigorosamente con gli occhi un po’ velati.
Rinfrancato, ripulito, rinfrescato, mi riaffido alle Ferrovie dello Stato che, sempre gratuitamente, mi portano in breve tempo ad Ancona. Alla stazione di Ancona mi metto con una gran folla in attesa che si decida e si allestisca un convoglio per Roma. Ce ne vuole. Poi la lotta accanita per salire e trovare un posto. L’età e l’abitudine all’impegno fisico mi aiutano ad issarmi su una normale carrozza viaggiatori in buone condizioni di pulizia. Il treno si riempie in un batter d’occhio e quasi subito parte per Roma.
Non ci vuol molto per arrivare a Fabriano. Ma una volta in stazione, rimaniamo sul binario di transito ore e ore prima di poter riprendere la marcia. Pare che la lunga sosta a Fabriano sia di prammatica. E’ infatti un nodo ferroviario attrezzato, anzi calorosamente attrezzato per il ristoro dei reduci: sul marciapiede c’è un carrello con un gran cartello “Ristoro Reduci” che passa e ripassa. Li chiamo: breve spiegazione; mi danno due buone pagnottelle freschissime e tre o quattro grandi finocchi come companatico. E’ una simpatica formula originale, che mi permetterà di sopravvivere una intera giornata.
Il treno si muove di pomeriggio e percorre il resto della linea fino a Roma con numerose soste, in stazioni e anche fuori. Da qualche parte trovano un binario morto per lasciarci il resto della notte. Così possiamo dormicchiare in pace. All’alba il treno si rimette in movimento e percorre il tratto finale a gran velocità, fino alle porte di Roma; ultima breve sosta e finalmente siamo alla Stazione Termini.
Io debbo fare mille metri per arrivare a via Paolina, dove dovrei trovare mia sorella Elvezia. Suono alla porta e viene ad aprire .. mia sorella Gisella. Sorpresa reciproca; un grido di Gisella; arriva pure Elvezia. Gisella si è sposata appena la settimana scorsa ed è qui a Roma in viaggio di nozze con lo sposo, il rag. Federico Salari, che io avevo fatto in tempo a conoscere prima della mia partenza: è un funzionario dell’INGIC (Istituto Naz. Gestione Imposte Consumo), incaricato dell’Ufficio del Dazio al Comune di Luco. E’ originario di un paesino laziale, Forano in Sabina, dove gli sposi andranno proprio oggi. Sembrano scusarsi con me di essersi sposati senza attendere il mio ritorno: è che Federico deve la settimana prossima raggiungere la sua nuova sede di lavoro a Boiano, in provincia di Campobasso. Elvezia sta bene. Nel periodo peggiore dopo il bombardamento di Roma è stata sfollata a Luco con la famigliola: Patrizio e la piccola Anna Maria. A Luco è nata un’altra bambina, Giancarla. Stanno tutti bene. Patrizio è contento del nuovo lavoro che ha trovato presso la nota Tipografia romana Staderini.
Ormai, non vedo l’ora di tornare dai miei genitori. Passo una notte a Roma e il giorno dopo Elvezia mi accompagna per il viaggio di ritorno a Luco, in mattinata. Tra Roma e Avezzano non ci sono problemi per il treno, anche se gli orari sono casuali e il convoglio è costituito da carri merci con grandi panche. Ad Avezzano troviamo puntuale il postale delle ore 15, che alle 15,30 del mercoledì 23 maggio 1945 mi deposita a Luco, davanti all’Ufficio Postale in Via Roma (la mia casa attuale).
Non faccio in tempo a scendere dal postale che sono immediatamente riconosciuto: sono il primo luchese che torna a casa dalla guerra. In un batter d’occhio corre un grido: “Nino! è tornato Nino!” E vengo assalito da decine di persone che vogliono salutarmi, abbracciarmi, domandarmi se ho visto il fratello, il padre, il figlio, il cugino .. Pare a tutti strano che io tornando dalla guerra non sia capace di portare notizie dei paesani che sono andati in guerra come me. Per arrivare a casa mia debbo fare non più di un centinaio di metri, ma non riesco ad andare avanti, col sopraggiungere di sempre più gente che mi deve abbracciare e chiedere notizie. Per fortuna, qualcuno è corso a casa ad avvertire mia madre. Così, tentando di liberarmi dai lacci, la vedo arrivare ansante e piangente con le braccia che mi cercano; mi passa vicino e continua a correre incontro a me. “Mamma, sono io! sono qui!” urlo piangendo anch’io. Alla voce, lei si ferma, guarda indietro, finalmente mi vede e staremo un pezzo a stringerci. “Mamma, come mai non mi hai visto?” “Ma io, veramente, credevo di dover incontrare un giovane pallido, tutto ossa!”
Ventuno anni, la vita sempre all’aperto, con l’esercizio fisico da manovale, con il cibo che non mi è mancato specialmente nelle ultime settimane, io non ero mai stato così bene prima d’ora.