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  PARTE I

I.1  Le occasioni della storia. Compiti dell’esegesi nell’evangelismo del XIII secolo

Andrea di Buonaiuto da Firenze, capitolo SMN_est, s. Tomm. d'Aquino (1365-67): Veritatem meditabitur guttur meum (Prov. 8,7)«Lectura super Matthaeum. La Lectura sur S. Matthieu est le fruit du second séjour parisien de Thomas; nous pouvons la situer avec une grande probabilité pendant l’année scolaire 1269-1270. Le texte de cette reportatio, tel qu’il est transmis actuellement par les éditions imprimées, est non seulement incomplet, mais erroné: il y manque le commentaire de Thomas pour une bonne partie du Sermon sur la montagne, que son premier éditeur, Barthélémy de Spina (1527), a remplacé par une partie du commentaire de Pierre de Scala, un dominicain de la fin du XIIIe siècle; les passages interpolés s’étendent de Mt 5,11 à 6, 8, et de 6,14 à 6, 19 (lect. 13-17 et 19; n° 444-582 et 603-610 dans I’édition Marietti). Les travaux de la Commission léonine ont permis la découverte d’un nouveau manuscrit qui contient le texte du commentaire de Thomas au complet (ms. Basel, Bibl. Univ. B.V.12); seuls des fragments en ont étés édités: H.-V. Shooner, “La Lectura in Matthaeum de S. Thomas (Deux fragments inédits et la Reportatio de Pierre d’Andria)”, Angelicum 33 (1956) 121-142; J.-P. Renard, “La Lectura super Matthaeum V, 20-48 de Thomas d’Aquin”, RTAM 50 (1983) 145-190. Editions: Parme [= EP d'ora in poi] t. 10, p. 1-278; Vivès, t. 19, p. 226-668; Marietti, 1951 et autres dates» (J.-P. Torrell, Initiation à saint Thomas d’Aquin, Fribourg-Paris 1993, 495).

 A parte i problemi di trasmissione e la qualità interna del passo su cui intendiamo attirare l’attenzione (In Matth. 10, 9-10), il commentario a san Matteo offre alla critica esterna evocazioni storico-teologiche pertinenti sia all’esegesi tomasiana che all’ambiente spirituale in cui questa sì colloca.

* * *

Le aspirazioni alla riforma della Chiesa d’occidente vengono man mano radicalizzandosi dopo Gregorio VII. L’iniziativa passa dall’autorità somma della Chiesa cattolica a strati popolari e laici della comunità cristiana. Al gruppo dei Pauperes Christi al seguito di Roberto d’Arbrissel († 1117) succedono ben più vasti movimenti popolari dietro personaggi come Pietro di Bruis († 1132/33) e il monaco Enrico di Losanna (tradotto al sinodo di Pisa 1134) (R. Manselli, Studi sulle eresie del sec. XII, Roma 1953, cc. II- III). Che siano i Catari, gli Arnaldisti o i Valdesi, gli Apostolici o gli Spirituali, tutti sembrano agitati da un sacro ardore per l’ideale evangelico. Il fascino delle origini infiamma la fantasia delle masse incolte (essere illitterati sarà, secondo il caso, il torto o il vanto degli evangelici del tempo) ma portatrici d’ínsospettate energie d’un mondo in nascita dallo sfaldamento del feudo. La nuova classe degli artigiani e piccoli commercianti porta, nei primi agglomerati urbani dell’Europa centromeridionale del X e XI secolo, germi di rinnovamento sociale e spirituale. I frati Mendicanti, tra ordo clericorum e ordo monachorum, traggono da quella stessa emergenza storica la loro discendenza sociale e il loro incremento. E ne spartiscono, nella replica ecclesiale, propositi e travagli.

Ne condividono, ben inteso, il fervore evangelico. Ne interpretano soprattutto, all’interno della cristianità medievale, l’urgenza della restaurazione della vita apostolica. Gli apostoli, appunto. Il loro stile di vita, la loro dedizione all’annuncío della Parola. Un categorico modello spirituale. Persino fonte e categoria ultime d’ogni legittimità di potere ecclesiastico e d’esercizio dei ministeri nella comunità dei credenti.

Ma non veniva tutto ciò a contestare o perlomeno a chiamare in causa l’assetto della comunità dei credenti, la “cristianità” tout court con la concentrazione della potestas e l’invasione del dominio temporale registrate nella storia del papato nell’arco di tempo che va da Gregorio VII a Bonifacio VIII a Giovanni XXII? E tale sarà infatti la conclusione di taluni sfortunatissimi - eppur sempre avvincenti - momenti dell’evangelismo medievale. Gli Spirituali, frustrati dalla lentezza della riforma ed esasperati dal loro stesso rigorismo, rifiuteranno la storicità e la socialità della comunione dei credenti.

Dalla lista dei 31 errori che i dottori in teol. dell’univ. di Parigi denunciarono nel caso dell’Evangelium aeternum (1254): «Tertius (error) est, quod spiritualis intelligentia novi Testamenti non est commissa populo romano, sed tantum litteralis (…); ecclesia Romana non potest judicare de spirituali intelligentia novi Testamenti, et si judicat, temerarium est eius judicium, et non est adquiescendum eius judicio, et quod ipsa Romana ecclesia animalis est non spiritualis» (CUP I, n. 243, p. 273). Questa premessa ermeneuitica porterà, negli anni più roventi della disputa sulla povertà, a contestare sacramentalità e ministero gerarchico della Chiesa.

Così come i Valdesi, secondo quanto riferisce Alano di Lilla (PL 210, 383 A, B), avevano vaníficato i ministeri in forza d’un evangelismo moraleggiante che si negava la possibilità di fissare origine e discernimento stesso dei ministeri. Ma quale allora il senso della vita apostolica? Quale l’ideale etico, per il singolo come per la Chiesa, della novitas evangelii? E come l’hanno intesa i primi fedelissimi discepoli di Gesù?

Questi gl’interrogativi (ma vi è implicita già una scelta) che agitavano la mente dei precursori del rinnovamento evangelico del medioevo, eretici e non. Quando víen loro contestato il diritto della libera predicazione, essi appellano al Vangelo. «Obedíendum est magis Deo quam hominibus» (Act. 5,29), è come un lasciapassare scritturistico non solo nelle mani degli Enriciani, ma di Pietro Valdo e degli evangelici del secolo successivo.

Act. 5,29 è ripreso da san Tommaso e così commentato: «Ex hoc habemus quod homo magis debeat sibi conscientiam facere de transgressione mandati, quam de transgressione ecclesiasticae constítutionis» (In Matth. 15,6; EP t. 10,145 B).

La frattura tra la parola della Chiesa e quella della Scrittura era gia apparsa con Pietro di Bruís, che appellava a questa (testis) come più attendibile di quella (testimonium, testimonianza secondaria).

L’ansia della riforma si tramuta così, in occasione dell’evangelismo, da preoccupazione disciplinare a ríproposta della normativíta dell’incipit storico della vita di Cristo e degli apostoli. Ma tale modello è preservato e tramandato nel testo sacro. La Bibbia diventa pertanto il cavallo di battaglia dei moti di riforma come degl’interventi - fitti e pesanti - delle autorítá ecclesiastiche. Si ritorna alla meditazione, allo studio, alla traduzione in volgare della parola di Dío, con una passione ed un ardore mai conosciuti finora. Ed il Nuovo Testamento emerge con prepotenza tra i libri della Bibbia. Il richiamo incessante alla parola del Cristo, all’esempio degli apostoli e della Chiesa primitiva sono l’anima di tutte le forme e di tutte le fasi dell’evangelismo medievale.

La conversione di Pietro Valdo (1173) è strettamente rícondotta - almeno nel racconto (1260 ca.) del domenicano Stefano di Bourbon (Tract. de diversis materiis praedicabilibus, ed. A. Lecoy de la Marche, Paris 1877, 290-93) - ad una sorta di folgorazione dei testi evangelici della povertà e sequela apostolica; sostenuta col ricorso ad Act. 5,29. Domenico da Caleruega - si dice nelle deposizioni al processo di canonízzazione - recava con sé nelle peregrinazioni apostoliche il vangelo di Matteo e le lettere di Paolo (MOPH XVI, 147 n°  29). Evangelici et apostolici libri - si dirà sempre più di frequente d’ora in poi con Pietro il Venerabile (PL 189, 731 B). Non è il gusto letterario che seleziona i libri biblici. È piuttosto l’intuizione etica della centralítà della lex evangelii in regime cristiano. La ríscoperta dell’ídeale evangelico-apostolíco stabilisce le coordinate dell’intelligenza biblica, ed è nel contempo il lievito d’ogni tentativo di riforma della comunità ecclesiale. Il dramma di Francesco d’Assisi è tutto qui: regola o vangelo? Messo alle strette da Roma - e dalla storia! - si decide a scriver controvoglia una parvenza di regola «paucís verbis et simplíciter», visto che l’Altissimo in persona gli aveva ingiunto di vivere secundum formam sancti Evangelii (Opuscula S. P. Francisci Assísiensis, Ad Claras Aquas 1949, 79). Se una regola ha da esserci, non sia che la replica del santo vangelo. È la protoregola, o meglio la Regula Evangelii del 1209-10 approvata oralmente da Innocenzo III. Sembra non foss’altro che un programma di povertà apostolica evocato con i medesimi passi evangelici che avevano ispirato le meditazioni di Francesco e la sua stessa vocazione. E precisamente Mt. 10,7-14 (discorso della míssione apostolica); 19,21 (Se vuoi esser perfetto...); Lc. 9,23 (Chi vuol seguirmi...). Appena dieci anni dopo, Francesco dovrà scrivere una vera e propria regola (Regula I del 1221); nella versione del 1223, la regola riceverà l’approvazione ufficiale di papa Onorio III (Regula II «bollata») e costituirà lo statuto base dei frati Minori. Tra i condizionamenti istituzionali che incrociano l’ecclesialità della fede cristiana Francesco riesce ancora ad affermare l’eccellenza della lex evangelii sulla lex regulae:

Regula et vita Minorum Fratum haec est, scilicet Domini nostri Jesu Christi sanctum Evangelium observare (Regula II, c. 1, in Opuscula o.c., p. 63; ma nel medesimo capitolo introduttivo Francesco si affretta a promettere «obedientiam et reverentiam» a papa Onorio, ib).

C’era, forse, nel carattere di Francesco un che d’anomismo - esacerbato poi dall’insofferenza dei Fraticelli e Frati del libero spirito -; ma c’era anzitutto l’intuizione dell’unicità del Vangelo come misura «normans» d’ultimo appello d’ogni vivere cristiano. Come c’era in una Chiesa solidamente insediata, la spinta a rícondurre a ordines fraternità spontanee (il propositum conversationis di Durando di Huesca) e liberi movimenti di base.

L’equilibrio è mantenuto - e riaffermato - da Francesco d’Assisi proprio nella tensione massima dell’esigenze della lex Christi tradotte nella fedeltà di vita. Ma è pur vero che nella Chiesa del sec. XIII, il suo stile di vita - come quello di Domenico da Caleruega - prorompeva in una novitas che non poteva non risultare sconcertante - e talora sospetta. Era la novitas del richiamo rigoroso al testo evangelico. E la Chiesa – insediatasí nella “cristianità” - ne risentì. Profondissime, le ripercussioni. Qua e là rischiò persino lacerazioni. Con gli Albigesi si lasciò andare ad una crociata armata. Pietro di Bruis, Enrico di Losanna, e più tardi il Segarelli, Dolcino e persino i Minoriti Giovanni da Parma, Pietro Olivi, Michele da Cesena, Angelo Clareno ebbero tutti in sorte, benché in modo diverso, una fine impietosa. Ma anche gli statuti legislativi dei nuovi Ordini religiosi approvati dalla Santa Sede trovarono resistenze nelle chiese locali. Come riconoscere, ad esempio, la legittimità della predicazione itinerante, della vita in comune, e dove trovare il posto a queste novae et inauditae religiones come unità ecclesiali all’interno dello schema dionisiano della gerarchia ecclesiastica? Nova et inaudita religio parve l'ordine domenicano a un cistercense vescovo legato papale! (MOPH XVI, 399 n°  39). E soprattutto come non intuire che l’ondata evangelica trainava con sé una spiccata spiritualita incentrata sul Novum Testamentum non per una discriminazione manichea dei libri sacri, ma per ricuperare direzionalità ed emergenza della lex nova come perfetta e definitiva espressione della rivelazione di Dio in Cristo Gesù? Era una novitas che aveva maturato i propri germi nel fenomeno degli strati sociali emersi di recente dalla dissoluzione del feudo, ma che ora tentava di stabilire propositi e legittimità, all’interno della Chiesa in regime postfeudale, con l’avallo della norma evangelico-apostolica. Una novitas che gettava le proprie radici in un’intrattenibile curiosità a scoprire il momento tipico dell’economia salvifica, il solo ritenuto capace di porre ordine normativo e subalternanza esegetica alle fasi della storia sacra così come al canone dei libri ispirati.

È dunque una novitas di vita della Chiesa presente sul modello della Chiesa apostolica. Ma è altresì una novitas ermeneutica. Che cosa infatti poteva interpretare siffatte esigenze spirituali se non il Nuovo Testamento? Durando di Huesca - discepolo di Valdo e poi professo cattolico - testimonia esemplarmente dei nessi che vengono spontaneamente creandosi all’interno d’un sapere cristiano all’insegna dell’evangelismo:

In hoc vero nostram viam novam esse fatemur, quia novo testamento confirmari potest. Fides namque nostra et opera evangelicis rationibus fulciuntur (Liber antiheresis, in Thouzellier, Catharisme… 76, n. 107).

Nella seconda metà del sec. XII e nei primi decenni del XIII, il gusto spirituale e la predilezione esegetica per i libri del NT sono chiaramente stabiliti. Ma vi pesano due ipoteche. Quella del catarismo che rinnova il bando al VT decretato dal dualismo manicheo. Non ne restò immune Pietro di Bruis, che sembra avesse rigettato tutti i libri del V e NT, eccetto i Vangeli, benché la sua predicazione si movesse nella sfera evangelica della geografia religiosa del medioevo. Mentre la marcata predilezione di Pietro Valdo per i libri del NT non può essere attribuita ad alcuna tentazione catara.

L’altra ipoteca si situa sul terreno dell’ortodossia cattolica. L’allegorismo maldestro e ad oltranza dell’esegesi postpatristica opera un rigurgito del VT nel sapere e nella vita cristiana. Ed è nella stessa logica dell’esegesi allegorica. L’allegoria, estrapolati i termini referenzialí (del VT il figurans e del NT il figuratum), li contrappone in praesentia così che l’uno si rispecchì nell’altro e viceversa. Qualora si perda l’avvertenza di fissare il termine forte per determinare il movimento del testo e quindi dell’interpretazione, il raffronto diventa concordismo indifferenziato risultante dalla perequazione semantica dei due termini. La parte figurans puó facilmente riversarsi nella controparte figurata, dando luogo allo sconfinamento o traboccamento del VT in regime cristiano. La lettura “cristiana” della storia sacra è solo apparente. La ridondanza semantica è del VT. Siffatto riflusso veterotestamentario nella Chiesa medievale è ben noto. Investe costume ed etica, liturgia, architettura e pittura sacra, simbologia religiosa, caratterizzazione dei ministeri ecclesiastici; legittima e teorizza ipotesi storiche di teocrazia, di monarchismo papale; così come teologizza la funzione del Sacro Impero, rituale incluso, con l’evocazione típologica dei re d’Israele.

L’esegesi evangelica del primo ’200 si trova ad un bivio, marcato da una parte dall’opzione manichea del rifiuto del VT (il neomanicheismo è riproposto dai Catari, Albigesi, Patarini ecc.), dall’altra dal rafforzamento direttivo dei libri veterotestamentari sotto la pressione del parallelismo tipologico. Il richiamo incessante ai libri dei Vangeli, Atti degli Apostoli e Lettere paoline è un fatto acquisito per l’evangelismo della prima meta del sec. XIII. Ma come ricomporre il sapere cristiano con l’esperienza di vita della Chiesa da una parte e con la storia sacra dall’altra? Di fronte al testo evangelico, i messaggi ed i fatti salvifici della storia ebraica sono squalificati per sempre? L’appello al Vangelo può ricostruire una vita di fede che ignori l’esperienza storica della comunità portatrice di tale messaggio? Ed è intelligibile una lettura evangelíca che rifiuti i semi e le preparazioni storiche della fede cristiana, come pure le acquisizioni e le maturazioni della comunità di fede nel tempo che corre tra l’ascensione e il ritorno del Signore?

Nel cuore del XlII sec., quando il pensiero cristiano elaborava con fervore intellettuale ed entusiasmo evangelico una nuova sintesi teologica (i grandi nomi - è bene notarlo - si riallacciano pressoché tutti agli ordini mendicanti), il problema più acuto sarà proprio questo: quale il senso dell’evento cristico sia come momento storico che faccia da cerniera esegetica tra rivelazione e svolgimento della storia sacra, sia come modello definitivo della vita del credente e della Chiesa? Alla vigilia della sintesi tomasiana, il problema si presenta, nella tecnica di scuola, sotto il cartello della quaestio de lege nova. Lex abbraccia tutte le categorie e realizzazioni parziali di ordinamento etico-civile sotto l’onnicomprensíva nozione di dispositio o provvidenza ordinatrice di salvezza della Lex divina. Problema di scuola, verrebbe da dire. Eppure niente di più legato alle vicende della Chiesa del tempo, al luogo dove si dispiega la dispositio salvifica di Dio. Il problema è suscitato dal catarismo - e per altro verso dal gioachinismo - per quanto riguarda il rapporto dei due Testamenti (e cioè una teologia della storia); ed e suscitato dai vasti movimenti di riforma evangelica - dai Valdesi ai Mendicanti - che puntano al ritorno rigoroso e normativo della littera Evangelii.

Tommaso d’Aquino è coinvolto in siffatto dramma di fede come credente, impegnato nella forma di vita dell’evangelismo mendicante, e come pensatore, sollecito a ricomporre - senza lacerazioni - nuove istanze d’intelligenza della parola di Dio nella specifica congiuntura storica. Le due permanenze parigine (1252-59; 1268-72) sono segnate da fatti culturali ed ecclesiali che non lasciano dubbi circa l’humus della sua riflessione teologica. Tra il ’52 e il ’57 l’università di Parigi è scossa dalla controversia Secolari-Mendicanti. È in causa il diritto dei Religiosi al ministero pastorale e all’insegnamento. Ma i testi letterari a cui la controversia dà origine, da quelli di Guglielmo di Sant’Amore a quelli di Bonaventura, Tommaso di York, Tommaso d’A., come gl’interventi dei papi Innocenzo IV ed Alessandro IV, fanno supporre che il discorso involgesse, in realtà, punti nevralgici della fede cristiana e della natura della Chiesa. Quale, ad esempio, l’origine e la legittimità del ministero della predicazione e dei ministeri in genere? Quale il rapporto tra fedeltà alla vita apostolorum e l’esercizio del potere ecclesiastico? E questo com’è distribuito e partecipato all’interno della compagine ecclesiastica? C’e posto nella Chiesa di Dio per un nuovo corpo ecclesiale - i Mendicanti - irriducibile sia all’ordo clericorum che all’ordo monachorum?

Lo statuto ecclesiale degli Ordini religiosi - stabilito da Bonaventura e Tommaso in questa prima fase della polemica - si risolve nel riproporre le esigenze, per una conoscenza di fede come per una prassi cristiana, del Vangelo, unica e perfetta lex del cristiano. Ma la polemica condotta da Guglielmo di Sant’Amore e dai magistri secolari è resa ancor più insidiosa per il confluirvi di apporti gioachimiti da una parte (Liber introductoríus all’Evangelium aeternum) e d’insofferente rigorismo degli Spirituali dall’altra. La denuncia del Liber introductorius da parte dei dottori dell’università di Parigi è del 1254.

Il Liber introductorius era stato premesso dal francescano Gerardo di Borgo San Donnino (ma ai contemporanei l’opera restò anonima quando non fu attribuita al l’altro francescano gioachimíta Giovanni da Parma) alla raccolta delle tre opere principali di Gioachino da Fiore sotto il nome di Evangelium aeternum. La denuncia di Parigi e la lista dei 31 errori sono in CUP I, n. 243, pp. 272 ss.

Si sa come Guglielmo di Sant’Amore la sfrutti per i suoi intenti.

Nel De periculis 8 (Magistri Guillelmi de Sancto Amore, Opera omnia, Constantiae 1632) si presume di riconoscere i segni dell’Anticristo negli Ordini mendicanti. San Tommaso controbatte tale mossa nel cap. 24 del Contra imp. Si era anche tentato, per comodo, di far passare un frate Predicatore come autore dell’Introductorius (cfr. EL t. 41, A 160, nota al v. 105).

La condanna papale di Anagni è dell’ottobre del ’55 (CUP I, n. 257, p. 297). L’urgenza, per Bonaventura e Tommaso, di ripensare lo statuto della legge evangelica all’ínterno dell’esperienza di fede si fa improrogabile e irta d’insospettate complicazioni. Quodl. VII, q. 7, aa. 17-18 (De opere manuali; vedi ora EL 25;  Torrell, Initiation 306) segna il primo intervento di s.T. nella disputa (1256). Ma il discorso indietreggia sull’interpretazione scritturale del comportamento degli apostoli in fatto di predicazione, di lavoro manuale, di povertà, di retribuzione cultuale ecc. I Secolari tradiscono un approccio ben preciso nell’introdurre testi evangelici ed apostolicí nella loro orchestrazione argomentativa. La q. 6 di Quodl. VII (aa. 14-16: De sensibus sacrae Scrípturae) fissa con lucidità i capisaldi della teoria ermeneutíca tomasiana (1256). Nel novembre ’56 è l’intervento massiccio con il Contra impugnantes Dei cultum et religionem. Le sorti della controversia sono capovolte. La condanna papale del De periculis di maestro Guglielmo è dello stesso autunno (CUP I, n. 288). Dai fatti roventi di cronaca e dalla produzione letteraria ad essi congiunta affiora una teologia della vita religiosa che esprime il frutto maturo dell’evangelismo medievale e abbozza una storiografica critica della Chiesa centrata sui pronunciamenti della lex evangelicae perlectionis.

La permanenza di san Tommaso in Italia nei conventi delle città dove risiede la curia pontificía (Orvieto 1261-65; Roma 1265-67; Viterbo 1267-68 = Roma 1265-68) copre gli estremi della composizione - ma si ricordi che fu frutto d’insegnamento scolastico - del commentario alle epistole paoline.

Il secondo soggiorno parigino (1268-72) si riapre all’insegna della polemica anti-religiosi lanciata stavolta dai secolari Gerardo d’Abbeville e Nicola di Lisieux.

P. Glorieux, Les polémiques «Contra Geraldinos». Les pièces du dossier, RTAM 6 (1934) 5‑41; Contra «Geraldinos».L’enchainement des polémiques, ib. 7 (1935) 129‑155. A. Teetaert, Quatre questions inédites de Gérard d’Abbeville pour la défense de la supériorité du Clergé séculier, «Arch. ital. Storia della Pietà» 1 (1951) 83-178.

Insieme con Bonaventura e Giovanni Peckham da parte francescana, Tommaso interviene con gli opuscoli De perfectione vitae spíritualis (1269), Contra doctrinam retrabentium a religione (1271) ed i Quodlibeti III-V (1270-71)che costituiscono la risposta a Gerardo d’Abbeville tra la pasqua del ’70 ed il natale del ’71 (EL 25).

La teologia della lex nova vi appare ora matura in tutti i suoi risvolti, ecclesiologici ed ermeneutici. Frutto di tensioni di Chiesa e d’illuminazioni dell’intellectus fidei. La centralità storica e l’imperatività etica della nuova economia (rigor evangelicae disciplinae!: Contra doctr. c. 15; EL 41, C 70 v. 223) sono rigorosamente stabilite contro il partito dei Secolari; sono ricomposte nel tutto del messaggio cristiano contro il pauperismo utopistico e astorico; sono giustificate ed enucleate in un nuovo assetto ermeneutico dove la littera è liberata e dall’ipoteca dell’evasioni allegorizzanti e dal letteralismo aggressivo delle frange estreme dei movimenti evangelici.

Nell’intimo di tali vicende di fede, la potente forza traente, il Vangelo: in esso - dice Tommaso (Cat. aurea super Matth., ep. dedic.) - ci è stata consegnata totius vitae regula christianae.

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