precedente successiva

De bono pacis

Il bene della pace

originale latino

volgarizzamento (2007) di EP

[6] Quinta ratio accipitur ex parte cause que est finis.

Quinta ragione o argomentazione da parte della causa che è il fine.

Finis enim est illud quod summe desideratur, secundum Philosophum[1]. Pax autem ab omnibus desideratur, secundum Augustinum libro XIX De civitate Dei et Dyonisium c. 9 De divinis nominibus, et ideo quodammodo finis est[2]. Unde in Ps. «Qui posuit fines tuos pacem», quia scilicet pax vie est finis in via, et pax patrie est finis simpliciter ultimus et perfectus; et ideo dicit in plurali “fines”. Finis autem prefertur hiis que sunt ad finem. Ergo pro bono pacis omnia alia bona sunt pretermictenda.

Il fine è la cosa sommamente desiderata, a detta di Aristotele il filosofo. E la pace è desiderio di tutti, secondo Agostino, La città di Dio XIX, 13 (CCL 48,675-76), e Pseudo-Dionigi l'Areopagita, Nomi divini c. 9. Salmo 147,14: «La pace egli ha posto come tuoi confini», perché la pace nella strada di questo mondo è fine nella strada medesima, e la pace della patria è il fine assolutamente ultimo e perfetto; cosicché dice "fini" al plurale. Il fine è anteposto ai mezzi. Dunque per ottenere il bene della pace, devono esser trascurati tutti gli altri beni intermedi.

Sed contra. Causa prefertur effectui; sed finis est effectus cause efficientis; ergo causa efficiens prefertur fini.

Obiezione 1.

La causa precede l'effetto; ma il fine è l'effetto della causa efficiente; dunque la causa efficiente precede il fine.

Item movens proprium prefertur moventi methaphorice quia proprium est principale, respectu cuius methaphoricum est accessorium; unde ridere hominis est simpliciter excellentius quam ridere prati. Sed secundum Philosophum in II De generatione efficiens movet pro<p>rie, finis autem movet methaphorice[3]. Ergo etc.

Obiezione 2.

Il movente in senso proprio precede il movente in senso metaforico; il primo è  movente principale, il secondo è accessorio; "l'uomo ride" è dizione eccellentemente più propria che "il prato ride". Ma Aristotele, Generazione e corruzione l, 7 (324b 4-18), afferma che la causa efficiente muove in senso proprio, il fine invece muove in senso metaforico. Dunque eccetera.

Item finis medici et artis medicinalis est sanitas corporis, cum tamen utrumque eorum preferatur tali fini; medicus enim est substantia rationalis sed sanitas corporis est accidens et ratione carens; item ars medicine est perfectio anime sed sanitas corporis est perfectio corporis. Substantia autem simpliciter prefertur |108va| accidenti, et rationale ratione carenti, et perfectio anime perfectioni corporis. Ergo finis non semper prefertur hiis que sunt ad finem.

Obiezione 3.

Il fine del medico e della medicina è  sanità del corpo, sebbene e medico e medicina precedano tale fine. Il medico infatti è una sostanza razionale, mentre la  sanità del corpo è un accidente e manca di ragione; parimenti la medicina è perfezione dell'anima o della persona, mentre la  sanità fisica è perfezione del corpo. La sostanza in sé precede |108va| l'accidente, e un soggetto razionale precede l'irrazionale, e la perfezione dell'anima precede quella del corpo. Dunque non sempre il fine precede i mezzi.

Et dicendum quod cause sunt quatuor, gradum quendam eminentie habentes inter se et in duplici combinatione existentes, scilicet materialis formalis efficiens et finalis.

Risposta 1.

Quattro sono le cause: materiale, formale, efficiente e finale. Hanno tra loro relativo grado d'eminenza, ed esistono in  combinazione duplice.

Et inter has primum gradum optinet causa finalis, que est causa causarum, secundum Philosophum[4]. Secundum vero gradum optinet causa efficiens, que quidem, ex consideratione finis mota a fine, movet materiam ad receptionem forme. Tertium vero gradum optinet causa formalis, que scilicet introducta a causa efficiente in materiam perficit eam. Ultimum vero gradum tenet causa materialis, que in quantum huiusmodi est ens tantum in potentia, secundum Philosophum, et est prope nichil, secundum Augustinum libro XII Confessionum.

Al primo grado la causa finale, causa delle cause, dice Aristotele il filosofo. Al secondo grado la causa efficiente: in considerazione del fine e mossa dal fine, essa muove la materia alla recezione della forma. Al terzo grado la causa formale: introdotta dalla causa efficiente nella materia, la conduce a termine. Al grado ultimo la causa materiale: in quanto tale, essa è ente solo potenziale, secondo Aristotele, Metafisica VIII, 1 (1042a 22-23); è "pressoché niente", a detta di Agostino, Le confessioni XII, 6, 14-15 (CCL 27, 219; PL 32,828).

Conbinatio vero una est inter causam materialem et formalem. Causa enim formalis est causa formalis materie, et e converso causa materialis est causa materialis forme; sed causa formalis est simpliciter nobilior materia quia eam actuificat et perficit, sed e converso est secundum quid quia materia sustentat formam.

Quanto alla duplice combinazione. Una si dà tra causa materiale e formale. La causa formale è causa formale della materia, e viceversa la causa materiale è causa materiale della forma; ma la causa formale è simplicemente superiore alla materia, perché l'attualizza e la porta a compimento; ma è inferiore in senso relativo, perché la causa materiale sostiene la forma.

Combinatio vero secunda est inter efficientem et finem; alterutrum enim se causant. Sed finis causat efficientem simpliciter et primo in quantum efficiens nichil actu efficeret nisi motus a fine; sed efficiens causat finem secundum quid et secundario in quantum movendo introducit finem, sed nonnisi in virtute finis primo moventis ipsum.

Combinazione seconda: è tra causa efficiente e fine, legati da intercausalità. Il fine produce la causa efficiente in senso assoluto e primario perché l'efficiente nulla porrebbe in atto se non mosso dal fine; mentre l'efficiente produce il fine in senso relativo e secondario, in quanto cioè esercitando moto promuove il fine. Ma la cosa si dà perché a monte è il fine che primariamente attiva l'efficiente.

Ad secundum dicendum quod, licet proprium sit nobilius methaphorico, tamen non oportet quod movere proprie sit nobilius quam movere methaphorice. Non enim tota nobilitas consistit in movendo, alias Deo aliquid nobilitatis accrevisset quando cepit movere creaturam in tempore. Sed maior nobilitas consistit in essendo, quam scilicet habet finis respectu efficientis, ut patet ex dictis. Et ideo non sequitur, quia accipitur methaphora secundum rem inferiorem in nobilitate et non secundum rem superiorem; sicut non sequitur “Adamas est lapis proprie, Christus autem est lapis methaphorice, ergo adamas est nobilior quam Christus”[5].

Risposta 2.

Sebbene senso proprio sia superiore a senso metaforico, non ne segue tuttavia che che muovere propriamente sia superiore a muovere metaforicamente. L'eccellenza o superiorità in sé non consiste nel generare moto; altrimenti dovremmo attribuire addizionale eccellenza a Dio quando mise in atto la creazione del mondo. L'eccellenza maggiore invece consiste nell'essere; quella appunto che possiede il fine rispetto all'efficiente, come detto sopra. E dunque l'obiezione non prova la sua conclusione: intende infatti la metafora in relazione all'oggetto inferiore in eccellenza anziché alla realtà superiore. Come se dicessimo: “Il diamante è pietra in senso proprio, ma Cristo è pietra metaforicamente, dunque il diamante è superiore al Cristo”.

Ad tertium dicendum quod, secundum Philosophum in II De anima et Themistium super hoc expressius, duplex est finis, scilicet quod et cui[6]. Illud ergo quod desideratur tamquam finis non est inconveniens quod sit minus nobile quam illud quod ordinatur ad finem, sicut exemplificat Themistius de sanitate et felicitate scilicet inherente. Omnis enim perfectio corporis et anime est talis finis qui certe sinpliciter loquendo minus nobilis est quam corpus et anima, |108vb| cum substantia sit simpliciter nobilior quam accidens; quod accidit quia iste non est ultimus finis.

Risposta 3.

Secondo Aristotele, De anima II, 4 (415b 2-3.20-21), e relativo commento di Temistio (317 ca. - 388 dC), duplice è il fine: da una parte la cosa che funge da obiettivo, dall'altra il soggetto per il quale questa cosa è fine. Quanto è desiderato come fine può non inconvenientemente esser meno nobile di quanto è ordinato al fine, come fa vedere Temistio tramite l'esempio della salute e della connessa felicità. Ogni qualità del corpo e dell'anima è un tipo di fine che in senso assoluto è indubbiamente meno nobile del corpo e dell'anima, |108vb| visto che la sostanza in senso assoluto è superiore all'accidente; e ciò perché tale fine non è quello ultimo.

Sed ultimus finis est subiectum cui talis finis desideratur. Sanitas enim, sicut dicit Themistius, appetitur propter sanum esse et felicitas propter felicem esse. Unde sanitas non est finis medici et artis medicinalis nisi in quantum utrumque ad hominem ordinatur perficiendum, quia anima non perficitur arte medicine et corpus sanitate nisi in quantum et anima et corpus sunt hominis, qui quidem simpliciter est nobilior omni perfectione sua accidentali.

Il fine ultimo invece è il soggetto per il quale siffato fine intermedio è ricercato. La salute infatti - sostiene Temistio - è desiderata perché la persona sia sana, e la felicità perché la persona sia felice. La salute pertanto non è fine del medico e dell'arte medica se non in quanto e medico e arte medica mirano al benessere della persona umana. L'anima non è favorita dall'arte medica né il corpo dalla salute se non in quanto e anima e corpo sono componenti della persona umana; e quest'ultima eccelle in senso assoluto sopra ogni sua accidentale qualità.


[1] Cf. Metaphysica V, 2 (1013b 25-27); Ethica nicomachea l, 1 (1094a 18-22); 1, 5 (1097a 25-34); Topica III, 1 (116b 22-26); Florilège 1, 122; 2, 62.

[2] Cf. Tommaso d'Aquino, Summa theologiae Il-Il, 29, 2: «Sed contra est quod Augustinus dicit, XIX De civitate Dei, quod omnia pacem appetunt. Et idem dicit Dionysius, 11 cap. De divinis nominibus». AGOSTINO, De civitate Dei XIX, 13 (CCL 48, 675-76); Ps.-DIONIGI AREOPAGITA, De divinis nominibus c. 11 § 1 (PC 3, 948 D); traduz. Giovanni Saraceno: «Propter quod et omnia ipsam [sciI. pacem] desiderant» (AM 37, 410; Dionysiaca l, 496); c. 11 § 3 (PG 3, 952 B-C); traduz. Saraceno e Grossatesta: «Omnia enim diligunt ad seipsa et pacem habere et uniri...» (Dionysiaca l, 509).

[3] De generatione et corruptione l, 7 (324b 4-18). Ma Florilège 4,15: «Finis non agit nisi metaphorice» (324b 14-15). Anche in De peccato usure c. 6 (ed. p. 623) si rinvia a «II De generatione».

[4] Cf. Physica II, 3 (195a 1-2); II, 2 (194a 29-33); Metaphysica V, 2 (1013b 26). Cf. Florilège 1, 85; 1, 122; 2, 62.

[5] In De peccato usure c. 6: «Tertio ["proprie" dicitur] quantum ad nobilitatem rei in se. Et sic finis qui movet methaphorice, secundum Philosophum in II De generatione, est nobilius ens in se simpliciter quam efficiens qui movet proprie; et Christus, qui est lapis methaphorice, est nobilius ens quam adamas, qui est lapis proprie» (ed. pp. 623-24).

[6] Aristotele, De anima II, 4 (415b 2-3.20-21); traduz. Giacomo da Venezia: «Id autem quod est cuius gratia fit, dupliciter est: hoc quidem cuius, illud vero quo» [415b 2-3]; «dupliciter autem dicitur quod huius causa est: quodque est cuius, et quo» [415b 20-21] (EL 45/1, 189*a; cf. AM 7, 83.85); traduz. (1266-67) Guglielmo da Moerbeke: «Id autem quod cuius causa fit dupliciter est, hoc quidem cuius, illud vero cui (...). Dupliciter autem dicitur quod cuius gracia: et quod cuius, et quod cui» (EL 45/1, 190ib); traduz. Moerbeke nella tradizione manoscritta pervenuta a Tommaso d'Aquino: «Id autem quod cuius causa fit, dupliciter est: hoc quidem cuius, illud vero quo (...). Dupliciter autem dicitur quod cuius causa, et quod cuius et quod quo» (EL 45/1,95). Florilège 6, 82: «Duplex est finis, scilicet fìnis gratia cujus et finis gratia quo...».
TEMISTIO, In De Anima III [= II, 4: 415b 2-3]; traduz. (Viterbo, novembre 1267) Guglielmo da Morbeke: «Quod autem cuius gratia dupliciter, hoc quidem quod, hoc autem cui; sicut enim et in Ethicis dicebatur, duplex fìnis: ut quidem quod felicitas, ut autem ipsum cui ipse unusquisque sibi; etenim felicitatem propter seipsam eligit et ut sibi ipsi hanc acquirat, sicut et in medicinali quod quidem sanitas, cui autem infirmo» (ed. G. Verbeke, Louvain 1975, 116 rr. 25-30).
R. A. GAUTHIER: «La "finis cui", pièce maîtresse du finalisme d'Aristote, est pratiquement ignorée de saint Thomas; la "finis quo", ignorée d'Aristote, tient une pIace importante dans le traité thomiste de la béatitude. Une fois ancore, c'est l'information de saint Thomas qui est en jeu: il a ignoré la "finis cui" parce qu'il a ignoré Moerbeke [intendi la forma corretta della traduz. del De anima, e in subordine la parafrasi di Temistio ad locum], et il a fait un sort à l'expression "finis quo" parce qu'il la lisait dans son texte [contaminato con la "vetus" di Giacomo da Venezia] du De anima» (EL 45/1, 188*b; tutta la questione pp. 188*-92*).


precedente successiva