II.6)  In famiglia

“Colonna di mamma”, “principe della casa erano gli appellativi coi quali mia madre esprimeva la sua esaltazione stringendomi a sé di tanto in tanto. D’altra parte, “Hai fatto parte dell’obbligo tuo!” era la severa risposta che mi dava quando andavo a riferirle di qualche mio comportamento meritorio. Queste due  linee guidavano il programma pedagogico di mia madre verso questo figlio così docile che sembrava poter assecondare appieno i suoi disegni materni.

Mio padre, molto discreto, mi portava volentieri con sé quando andava ad Avezzano per il settimanale rifornimento dei Monopoli di Stato (e allora aveva la scusa per offrirmi una merendina con un panino comperato – freschissimo e morbidissimo – presso il caffè-negozio degli svizzeri Camathias), quando andava alla sua vigna vicino al castagneto (la sola sua proprietà terriera, tutte le altre erano di mia madre), quando riuniva i bandisti in uno stanzone per concertare le nuove marce e marcette e dove io ero coccolato da tutti.

Un giorno in quella vigna al castagneto c’erano muratori per lavori di sistemazione e di ingrandimento della casetta-rifugio alla quale il papà teneva tanto. Io ero lì e gironzolavo come al solito organizzando i miei giochetti; vista una bella stecca sottile e molto lunga, pensai di poterla bene utilizzare, magari in più pezzi, e ne approfittai subito portandola via e spezzandola in due. Mi accorsi dopo che i muratori stavano cercando la misura di due metri che era da qualche parte e che serviva al momento; anche mio padre collaborava alla ricerca, un po’ seccato ché non si riuscisse a trovarla. Mi resi conto di quel che avevo fatto e pensai subito alla punizione che mi spettava quando sentii che qualcuno mi aveva visto prendere la stecca. Scomparvi immediatamente terrorizzato in uno dei sentieri intorno; quando mi rintracciarono avevo i capelli letteralmente dritti sulla testa: mio padre digrignò i denti minaccioso, ma anche allora non mi toccò minimamente.

Aiutavo qualche volta in tabaccheria, quando la mamma era impegnata altrove, con gli sparuti clienti che venivano a comprare, in pacchetti da dieci o sciolte, sigarette Popolari, Indigene, Moresca, Virginia, Macedonia, Giubek, ecc. o il tabacco trinciato da pipa o i  sigari toscani.

Non sono mai stato gratificato di elargizioni in denaro; ricordo una sola volta che mio padre mi dette sei soldi (trenta centesimi) per comprarmi dei fichi freschissimi da un venditore ambulante.

I miei avevano però molte cure per me; le mie sorelle mi coccolavano in vari modi e mi cucivano sempre dei bei costumini; avevo calzoncini quasi sempre nuovi e spesso delle belle bluse colorate. Per la mia salute, oltre a sorvegliare attentamente il mio regime di vita, mia madre si era preoccupata di farmi avere sempre latte freschissimo: a questo fine aveva comperato una capretta che venne sistemata in uno stanzone libero della casa di una famigliola vicina. La capretta, nera col suo bel pizzo, di nome Ninetta, mangiava fronde fresche portate dagli uomini del vicinato. Ma appena possibile, io la portavo al pascolo ai margini del paese; la capra non bruca l’erba a terra, ma strappa il verde tenero delle siepi e in genere degli arbusti: era per me un divertimento combattere con la sua vivacità per tenerla a freno. Essa ci dava comunque un paio di litri di ottimo latte ogni giorno, di cui io ero il primo consumatore.

Durante una vacanza estiva fui utilizzato per un compito di fiducia. Mia sorella Maria doveva seguire un corso presso una maestra di taglio ad Avezzano. Sempre a causa di quell’unica corsa del servizio di linea, lei non poteva andare giornalmente da Luco ad Avezzano. Si dovette trovare una camera presso una famiglia fidata e mia sorella andò ad istallarsi lì per due o tre settimane. Ma mia madre non poteva concepire di lasciare sola e incustodita una sua figlia in .. città. Così, io fui mandato a farle compagnia, 24 ore su 24, in quella sua camera e in casa della maestra (dove io giocavo con una sua figliola). Ricordo che per contenere le spese fu dato a Maria uno scatolone enorme di sgombro sott’olio che per settimane fu quasi l’unico pasto giornaliero.

II.7)  I compagni

Godevo però di una notevole libertà di circolazione e quindi potevo accompagnarmi a tutti i ragazzi e ragazzacci nelle loro scorribande e nei loro giochi nell’ambito degli immediati dintorni  di casa mia (il”lato” della mola). Partecipe ai passatempi del mio tempo libero poteva infatti essere chiunque dei ragazzi della mia età, amici di famiglia, compagni di scuola o vicini di casa, senza distinzioni di livello sociale.  Purtroppo, non potevo permettermi di andare scalzo per sguazzare, come facevano molti di loro, nelle pozzanghere lasciate dagli acquazzoni: li guardavo con tanta invidia.

Rapporti più stretti e meno problematici erano certamente quelli con i miei coetanei di famiglie amiche, come Stelio Alfidi, Nino Candeloro, Franchino Antonelli, Gino Rigazzi. Franchino, trasferitosi presto a Napoli, l’ho rivisto cinquanta anni dopo, pochi mesi prima che morisse. Gino, sposatosi giovanissimo con la appena adolescente figlia di un paesano emigrato in Canada ed emigrato anche lui con la sposina, è morto a Vancouver in età troppo prematura.

Gino era anche mio vicino di casa, simpatico, buono, affezionato; era nipote del cav. Rigazzi sarto a Roma in via Condotti, il quale lo gratificava di regali del tutto inediti per il nostro paese: uno stupendo teatrino con tante bellissime marionette fu usato quasi soltanto da me. Nella casa di Gino c’era un pianoforte che poteva suonare anche meccanicamente, azionato da rulli dentati.

Il più del mio tempo libero lo passavo però con i vicini di casa, i ragazzi del lato della mola, generalmente vivaci e spericolati, con i quali avevo un rapporto un po’ ambiguo. Io non potevo seguirli in tutte le loro avventure da ragazzacci e del resto loro stessi non mi ammettevano a partecipare alle sassaiole combattute contro squadre di altre zone del paese, per il semplice motivo che io non ero e non sono mai stato capace di colpire un obbiettivo, se non per errore qualche compagno di squadra. Ma io avevo una certa autorità per giochi meno violenti o più tecnici, come la scherma con spade fabbricate utilizzando scarti di lavorazione della segheria Rigazzi. Con loro comunque stavo d’inverno a fare pupazzi di neve o scivolarelle sul.ghiaccio, d’estate a fare corse dappertutto e specialmente quelle dietro il cerchio (un cerchione di bicicletta scartato, che si spingeva in avanti con un bastoncino puntato nell’incavo destinato alla camera d’aria). Mi era però vietato dalla famiglia di andare con i compagni a nuotare nei canali del Fucino, a causa dei rischi di annegamento oppure di polmoniti.

C’erano naturalmente anche le compagnucce di scuola o le vicine di casa: capitava facilmente di essere dichiarati fidanzati di qualcuna, con la scritta lasciata sui muri del tipo “Nino fa l’amore con Valentina”. E a volte credevamo davvero di essere audacissimi con certi giochetti fatti lontano dalla vista della gente.

Una delle tipiche imprese da compiere con i compagni era il furto di ciliegie in qualche posto incustodito: occorreva una squadra che comprendesse anche il palo ed era questo il compito che di solito toccava a me, dato che gli altri erano più disposti a rischiare di strapparsi calzoncini o camicia saltando per i rami o a macchiare di rosso il petto della camicia dove si infilavano le ciliegie man mano frettolosamente strappate dai rami.

Uno dei vicini di casa che ricordo meglio era un certo Dante, poi trasferito in America e tornato in Italia durante la guerra come sergente dell’esercito USA: egli sentiva un impulso irresistibile a prendere a calci qualsiasi cosa, una palla, un barattolo, un sasso; a forza di dare calci forsennati si era ferito il piede destro, che non poteva più infilare nella scarpa; col piede così piagato e fasciato alla meglio, appena vedeva un bel sasso prendeva la rincorsa cominciando già prima del calcio a urlare dal dolore che avrebbe provato.

II.8)  L’ammodernamento del paese

Negli anni intorno al 1930 il paese ha attraversato un periodo di lavori pubblici che hanno portato a un deciso passo in avanti verso la modernizzazione.

Era podestà del paese il cav. Paolo Ciocci, un autentico galantuomo, titolare di una impresa edile fra le più serie e le più importanti della Marsica, che aveva lavorato anche all’estero, era stato chiamato dal Comune di Avezzano a completare l’edificio del Municipio, lasciato incompiuto dal primo appaltatore dei lavori, e dal Vescovo a costruire l’Episcopio. Il cav. Ciocci ha dato un contributo decisivo al buon impianto urbanistico di Luco. Egli ha anche costruito la sede della Società Operaia di Mutuo Soccorso, di cui era presidente, assumendosene l’onere economico salvo i contributi offerti da qualcuno dei soci.

A completamento, credo, di un piano regolatore operante già da qualche anno, veniva realizzata dal nulla la rete fognaria, che ha poi resistito per tanti decenni e che è ancora intatta nella parte più bassa del paese. Contemporaneamente venivano sistemati i comodi marciapiedi per tutto il viale Duca degli Abruzzi con cordoli di pietra bianca e piano di calpestio in cemento. La centrale piazza Umberto I veniva pavimentata con eleganti mattonelle rettangolari grigio scuro disposte a spina di pesce, divenendo così un salotto con i caffè alle due estremità, il Roma e il Centrale. La nuova sistemazione della piazza portò anche ad eliminare la scalea anteriore della chiesa, sostituita da due scale laterali, per facilitare il tracciato stradale che attraversa la piazza.

Non so quando fu costruito il grande serbatoio d’acqua sul monte, subito alle spalle del paese, ma deve essere stato in quegli anni, perché si poté finalmente avviare la rete di distribuzione nelle case private dell’acqua che sino allora era disponibile solo nelle fontanelle pubbliche dislocate in vari punti strategici. Erano però ancora efficienti i due grandi pozzi che hanno dato il nome attuale alla via dei Pozzi, dove si andava ad attingere acqua  da portare con otri o botticini nelle campagne circostanti a dorso di somaro.

Venne asfaltata l’arteria centrale via Roma– via Vittorio Emanuele e venne rifatta con maggiore spessore la massicciata del viale Duca degli Abruzzi nuovamente cilindrata.

Ricordo la spettacolare manovra di collocazione del campanone maggiore (Antonia) sul campanile con un complesso sistema di argani a lenta ma sistematica salita, davanti al popolo attentissimo.

Vennero anche avviati i progetti per la costruzione della nuova sede del Municipio e del grande Edificio Scolastico, ambedue nello spazio già ad essi destinato sul viale.

Nonostante queste importanti novità, rimanevano i vicoli sempre col loro fondo naturale, generalmente roccioso, salvo qualche tratto a scalini costruiti in cemento più dai privati interessati che dal Comune.

E rimaneva ancora una assai stenta illuminazione pubblica basata su fioche lampadine, specie ai due capi superiore e inferiore dei vicoli, che rimanevano spesso al buio più completo a seguito dei precisi tiri al bersaglio da parte dei ragazzacci.

L’energia elettrica per l’illuminazione pubblica e privata veniva immessa in rete alle cinque del pomeriggio; nell’inverno il buio arrivava ben prima delle cinque e il paese che aveva bisogno di luce e le mie sorelle che avevano bisogno di energia per il ferro elettrico da stiro si fermavano in attesa che Enrico De Angelis andasse alla cabina centrale ad attaccare la corrente.

II.9)  Vita di paese

La vita di un paese essenzialmente agricolo come Luco si svolge secondo il succedersi delle stagioni atmosferiche e religiose.

L’ingresso pieno dell’inverno porta il raccoglimento casalingo delle festività natalizie. Il pranzo, possibilmente col cappone, le immancabili frittelle di patate e di ceci, i morzitti (specie di panpepato al mostocotto) rassicurano gli uomini confermando con i loro puntuali sapori la continuità col passato tradizionale senza inquietanti sorprese. Il pranzo di Natale permette ai bambini di nascondere sotto al piatto del papà una letterina tutta infiorettata con le più belle espressioni di amore filiale e con la promessa di buona condotta e il papà ricambia con qualche soldino; il figlio più piccolo che già va a scuola sale sulla sedia per recitare la poesiola che la maestra gli ha insegnato per l’occasione. La sera di san Silvestro i bambini vanno a dare il buon anno ai parenti anziani e ne ricevono in cambio i ciùfoli (noci, mandorle, frutta secca in genere).

La mattina della Epifania i bimbi si svegliano prestissimo e corrono emozionati al camino, dove la sera avevano appeso una loro calza lunga, per vedere se sia passata la Befana e ne hanno lieta conferma trovando dentro la calza una arancia,  proprio sulla punta , dei torroncini, qualche caramella, dei dolcetti tanto simili a quelli fatti dalla mamma e magari un pochino di carbone ad ammonimento per le monellerie passate.

La macellazione del maiale impegna le prime settimane del nuovo anno. Il lungo inverno sospende i lavori di campagna e tiene gli uomini - sbrigate le poche faccende in cantina e nella legnaia e accuditi gli animali nella stalla - disoccupati per gran parte della giornata, ma senza risorse da spendere in divertimenti; essi perciò si raccolgono nei lunghi pomeriggi dovunque trovino ospitalità, generalmente dal barbiere o presso qualche artigiano e di preferenza  intorno al deschetto del ciabattino più vicino, il quale vi tiene appositamente qualche panca; sulle pareti del povero locale sono affisse in bell’ordine le prime pagine della Domenica del Corriere o della Tribuna Illustrata istoriate con i fatti più eclatanti della cronaca settimanale; e gli uomini si mettono a raccontare facendo riemergere dalla loro memoria, in gara l’uno con l’altro, i fatti più straordinari della loro vita, che sono soprattutto le piccole avventure personali vissute al fronte durante la recente guerra mondiale; quante storie favolose ed episodi picareschi ho così sentito raccontare, quasi sempre negli aspetti comici che servono a tirar su il morale.

L’inverno è molto lungo a Luco e si riempie un po’ col veglione della Società Operaia, un po’ col carnevale, ma si deve arrivare alla Pasqua per ricominciare a sentire gli odori della campagna aperta, i sapori delle prime erbette raccolte per l’insalata. La Pasqua con la primavera risveglia ogni cosa, uomini e natura; le siepi cominciano a rivestirsi dei nuovi getti verde tenero, si vedono le prime fioriture di mandorli e poi di rosa canina. Appena possibile si fa la potatura alle vigne, si arano i campi per seminare patate e legumi, si aspetta la lenta crescita delle spighe del grano, si fanno voti perché le piogge non siano eccessive.

Iniziata l’estate, si chiudono le scuole e le strade si riempiono di ragazzi vocianti con i loro giochi.

Dalla Valle Roveto arrivano attraverso la montagna venditrici e venditori di fichi fioroni (i follacciani) con ceste sulla testa o con piccoli bigonci a dorso di somaro. La mietitura è il momento più bello dell’anno, se non compromesso da temporali violenti che possono piegare al suolo le spighe mature danneggiando il raccolto. Dopo la mietitura e la trebbiatura, arrivano i raccolti dei legumi e si vedono marciapiedi e cortili e praticelli ricoperti di grandi panni di iuta sui quali sono sparsi grano, granturco, legumi ad asciugare al sole prima di essere immagazzinati. Poi si cuociono i pomodori per la preparazione della conserva. Le feste patronali avviano verso la conclusione della stagione calda e la rottura del tempo prima delle serene giornate settembrine senza più canicola. L’estate è anche la stagione d’oro delle mosche, che si sentono bene accolte dalla abbondanza di scorze di cocomero sparse dappertutto.

L’autunno inizia con la riapertura delle scuole e la ripresa di ritmi più normali. Ben presto arriva la vendemmia, preparata dalla sciacquatura delle botti lungo i vicoli ove si allineano le cantine. La festa di san Martino diverte i ragazzi che vuotano le grandi zucche, vi intagliano occhi e bocche dentute, vi introducono una candeletta accesa e vanno in giro cantando per la solita questua. L’aratura dei campi per la semina del grano e la fiera di sant’Andrea per rinnovare le dotazioni di utensili casalinghi o campagnoli chiudono l’anno lavorativo. 

II.10)  La 4a elementare

Ai primi di ottobre 1932 ho iniziato a frequentare la quarta classe elementare, in una delle casette asismiche.

L’insegnante era la signorina Casadei, di famiglia romagnola. Suo padre si era trasferito da poco ad Avezzano come funzionario o tecnico dello Zuccherificio dei Torlonia. Abitavano in una graziosa casetta a un piano all’inizio di via Trara, incrocio con via Nuova, in un piccolo nucleo abitato non lontano dallo Zuccherificio. Ella veniva tutti i giorni a Luco percorrendo gli 8 chilometri circa di distanza in bicicletta; nella cattiva stagione, il padre la faceva accompagnare con un calessino che egli usava per i suoi spostamenti.

La maestra Casadei rappresentò per me, e per tutta la scolaresca, un vero salto di qualità. Riservata, ma dolce e quindi autorevole, di una bellezza che potresti trovare in Normandia, seriamente preparata, completamente dedita all’insegnamento, si meritò in poco tempo non solo il rispetto degli alunni, ma qualcosa che ce la faceva considerare nello stesso tempo come una madre, una sorella, una guida, una confidente. Ella ci portava un’aria nuova, fresca, seria, ci stimolava le curiosità, ci incantava durante le lezioni che filavano liscie senza disturbatori.

Un giorno non poté venire a scuola per ragioni di salute: noi non potemmo rinunciare a lei e tutti insieme, in pieno accordo, facemmo a piedi la passeggiata di otto chilometri per andarla a salutare e augurarle un presto ritorno a scuola.

Quell’anno scolastico, con ampi programmi di studio, mi ha lasciato una sostanziosa formazione non solo per la varietà e solidità delle nozioni apprese, ma anche per l’apertura mentale e per gli interessi conoscitivi e civili destati. Credo che nessuna annata, né prima né dopo sia stata per me così proficua per lo sviluppo intellettuale. Mi sento perciò in dovere di testimoniare alla maestra Casadei la mia gratitudine convinta e immutata e il mio profondo rispetto.

Qualche tempo dopo, il paese fu testimone di un toccante drammatico romanzo d’amore: ella, così bella, e un altrettanto bello e distinto giovane di Luco, si innamorarono perdutamente e nell’estasi del loro rapimento si sposarono; le nozze furono seguite con affetto da tutto il paese, ma dopo molti mesi gli sposi innamoratissimi si separarono: non avevano potuto consumare il matrimonio (per un eccesso di attrazione emozionale?). Penso che per questo motivo lei chiese ed ottenne il trasferimento a Roma, dove dopo qualche anno si sposò nuovamente creandosi una famiglia serena come ella meritava. Io non l’ho più rivista dopo le Elementari.

Durante l’anno scolastico continuavo a frequentare la chiesa con una più matura convinzione, tanto da far pensare non tanto a me, quanto a mia madre e al parroco, che io avessi la vocazione al sacerdozio. Questa idea cominciò a insinuarsi nei miei pensieri, andando incontro alle fantasticherie alimentate da una mia vaga voglia di dedicarmi al bene degli altri.

Don Nicola Ansini, che mi seguiva con un interessamento quasi paterno, prima che terminasse l’anno scolastico mi impegnò a seguire qualche sua lezione di latino: vista la mia reazione positiva, egli mi indusse a dedicare le vacanze estive a una serie di sue lezioni private non solo di latino, ma anche di altre materie.

E così alla fine di settembre 1933, invece di prepararmi a frequentare l’ultimo anno della scuola elementare, mi fece entrare al Seminario diocesano di Avezzano avendo convinto il Vescovo ad accettarmi pur senza aver conseguito la licenza elementare.

II.11)  A Roma per l’Anno Santo

Prima di entrare in Seminario, ebbi modo di vedere Roma per la prima volta.

Il Papa Pio XI, Achille Ratti, aveva promulgato per il 1933 un Anno Santo straordinario, al quale parteciparono pellegrinaggi organizzati dalle parrocchie.

Nell’estate di quell’anno andò a Roma in pellegrinaggio la parrocchia di Luco guidata da don Nicola. Mia madre, che era già stata a Roma per il giubileo del 1925, non volle perdere questa seconda occasione e portò anche me con il numeroso gruppo di luchesi. Fu anche il mio primo viaggio in treno.

Il nostro gruppo fu alloggiato a Roma per una notte in un convento di Suore francesi in via Giusti, presso piazza Vittorio.

Il mattino dopo ci recammo tutti in filobus alla Basilica di San Pietro e quindi partecipammo ad una udienza papale in Vaticano nella Sala Clementina. La sala vastissima era gremita all’inverosimile di pellegrini accaldati e l’udienza prese molto tempo; io ero in fondo alla sala e non riuscii a vedere gran ché nei pochi momenti in cui qualcuno mi sollevò sulla folla; ero però vicino a un finestrone dove di tanto in tanto potevo prendere un po’ d’aria. Terminato il discorso del Papa tra acclamazioni e canti, potemmo finalmente defluire per il ritorno a via Giusti dove ci attendeva un pasto. Esisteva ancora la Spina di Borgo e al suo inizio presso piazza Rusticucci si trovava il capolinea del filobus 64, davanti a un bar. Nella calca della folla in attesa, chiesi a mia madre qualche soldino per prendere una bibita; lei mi dette l’occorrente – forse mezza lira – e mi raccomandò a un giovane del nostro gruppo che entrava anche lui al bar. La grande ressa davanti alla cassa mi impediva  di farmi rilasciare lo scontrino, sicché dopo tanta attesa commossi un cameriere perché mi desse un bicchiere d’acqua. Calmata la sete uscii fuori, ma non trovai nessuno al capolinea: la folla era riuscita a infilarsi lottando nel filobus sopraggiunto e subito ripartito e mia madre era sicura che io fossi salito col giovane compagno. Io avevo per fortuna i soldini risparmiati e così, sopraggiunto un nuovo 64, salii tranquillamente senza folla, per scendere a Termini e quindi avviarmi a piedi verso piazza Vittorio seguendo a ritroso il percorso del mattino. Appena presa la direzione della piazza vidi venirmi incontro un gruppo di persone agitate, con mia madre disperata e don Nicola che cercava di calmarla: solo all’arrivo, scesi tutti dal mezzo gremito, lei aveva constatato la mia assenza e, non essendo io stato rintracciato nei dintorni, mi considerava ormai preda di feroci rapitori. L’incontro fu una scena indescrivibile, fra pianti e risa e domande e congratulazioni. Io avevo solo fatto uso per la prima volta di una mia non comune capacità di orientamento e memoria topografica.

Nel pomeriggio dello stesso giorno il gruppo in processione fece le visite giubilari delle Basiliche di S. Giovanni in Laterano, di S. Maria Maggiore e di S. Lorenzo fuori le Mura (omettendo S. Paolo). Mi è rimasta impressa l’immagine di una donna del paese, nostra vicina di casa,  notoriamente ignara di igiene, che davanti alla chiesa di S. Marcellino in via Merulana si staccò dal corteo processionale e, a pochi metri di distanza, divaricate un poco le gambe sotto il gonnellone si mise tranquillamente a fare pipì in piedi sotto lo sguardo dei passanti: la forza delle necessità naturali!


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