IX.9)  Al cantiere di Gerlos

Al cantiere di Hochried non abbiamo più nulla da fare per ora. C’è una nuova dispersione del nostro gruppo, il grosso del quale viene assegnato al più piccolo cantiere di Gerlos che dà accesso ad un punto intermedio della galleria.

Ogni mattina dobbiamo percorrere a piedi il tragitto di tre o quattro chilometri seguendo la ferrovia a scartamento ridotto che va da Hochried a Gerlos. La ferrovia viene utilizzata per carri merci, pianali e vagoni, trainati da una classica locomotiva a vapore condotta dal ferroviere tuttofare Daniele, un altoatesino cinquantenne di etnia italiana sposato a una quarantenne austriaca. La coppia vive in una casetta di legno nel cantiere di Gerlos. La moglie di Daniele, alta e algida, amministra la mensa della piccola cantina dove arrivano i bidoni portati dal trenino. Daniele ha una voce stentorea con la quale spara continuamente bestemmie italiane e improperi tedeschi. Noi non possiamo salire sul trenino, che incontriamo nei nostri trasferimenti a piedi ai lati del binario.

Nel nuovo cantiere ci sono attività di vario genere per noi. Io ad esempio per una settimana ho fatto l’aiutante della moglie di Daniele non solo nel locale della mensa, ma anche a casa sua; ero lievemente eccitato dalla vicinanza di questa donna, una vichinga, che non mi dava alcun segno di confidenza e mi faceva però l’impressione che godesse di mostrarsi disinibita per eccitare il povero ragazzo prigioniero in suo potere.

Altro lavoro: nel cantiere c’era un sistema di vagoncini che entravano in galleria trainati da una piccola motrice a nafta. Io ho fatto per molti giorni il bremser, il frenatore, con il compito di agganciare e sganciare vagoncini e di azionare gli scambi secondo i percorsi da fare (per esempio per caricare sacchetti di cemento e trasportarli all’impastatrice); un lavoro che mi è piaciuto molto.

Per lungo tempo sono stato accoppiato con un prigioniero russo, Nicolai, più giovane di me, dolcissimo. Cominciammo con l’incarico di mantenere pulito il fondo della galleria, nel tratto già terminato tra Hochried e Gerlos lungo il quale passavano tubature dell’acqua, della corrente e dell’aria compressa. Nel fondo scorreva un po’ d’acqua  da lievi perdite delle pareti. Poiché i vagoncini di passaggio potevano perdere materiale vario, questo finiva per interrompere lo scorrimento dell’acqua creando piccoli allagamenti. Il rivolo d’acqua finiva in una pozza  nella quale pescava una pompa elettrica sempre in azione. La pompa era sorvegliata a turno da tre guardiani due dei quali erano miei compagni: Mario Simoni e Ranieri Cocchi. Questi dovevano stare otto ore di seguito soli e immobili , alla luce della lampada a carburo, a vegliare che il livello dell’acqua nella pozza non scendesse al di sotto della presa della pompa, ad evitare che questa si bruciasse; era un compito di una noia mortale, che i due compagni avevano accettato perché non era faticoso e permetteva di stare al riparo dal freddo esterno.

Nicolai e io stavamo, anche noi, soli in mezzo alla galleria che si estendeva per chilometri al di qua e al di là. Quando arrivava un tedesco si vedeva molti minuti prima avvicinarsi la sua lampada nel buio e perciò non avevamo alcuna preoccupazione per sorveglianti. Per questo io dormivo il più possibile (specie durante i turni di notte) seduto sul fascio di tubature  correnti lungo una parete: io dormivo e Nicolai in piedi appoggiato alla pala faceva la guardia. Se vedeva arrivare qualcuno mi svegliava dicendo “Gnino auf!” (“Gnino” è la versione fonica russa di Nino). Nicolai  mi era molto affezionato e mi coccolava. Un giorno arrivò al lavoro felice perché mi portava un regalo: aveva avuto una sigaretta e me la portava perché la  fumassi chiacchierando con lui. Sembrava che non avessimo molto da dirci, ma ci dicevamo tante cose in silenzio o con le sette parole che entrambi conoscevamo, soli nella notte della galleria.

Un bel giorno la nostra coppia fu mandata a lavorare con la squadra che stava facendo il rivestimento in cemento delle pareti rocciose della galleria. Quello era un lavoro infernale. La piccola squadra era comandata da un capo croato. Tre coppie dovevamo rapidissimamente lanciare a palate il contenuto in beton di tre vagoncini, a laterali apribili, oltre  le piastre dell’armatura montate man mano nelle campate che disegnavano il profilo ovale della galleria. Il beton era a presa abbastanza rapida e quindi bisognava essere svelti. Finito lo scarico, il trenino ripartiva e in capo a pochi minuti tornava con altri tre vagoncini. Il capo croato nel frattempo affondava nella massa del beton appena gettato un grosso tubo terminale della conduttura dell’aria compressa, un vibratore, il quale scuoteva l’impasto di cemento e sassi, lo liquefaceva e lo faceva ben assestare dentro l’armatura senza vuoti d’aria. Il più duro veniva quando le piastre che man mano chiudevano l’armatura erano arrivate più in alto e bisognava lanciare le palate di beton alla sommità dell’armatura. Nicolai e io eravamo in coppia ai due lati di uno dei tre vagoncini.

Tra un vagoncino e l’altro, quando era il turno di notte, io riuscivo a dormire sfruttando quei cinque minuti, seduto sulle tubature, in mezzo al fracasso dell’aria compressa. E’ successo una volta che il capo croato, vedendomi dormire così bene, ordinò di non svegliarmi e prese lui stesso la pala al mio posto; al mio risveglio mi fece un violento rimprovero tra l’ilarità generale.

La familiarità con Nicolai mi portò a legare anche con altri russi incontrati in cantiere. Erano tutti ben disposti verso noi italiani considerandoci loro compagni di sventura., ma ignorando quanto diverse fossero le condizioni di vita loro dalle nostre. Uno di loro, Piotr, un maestro elementare, per dimostrarmi la sua simpatia mi cantava arie di opere italiane, ma soprattutto della Carmen, credendola italiana.

Un giorno, mentre si tornava alla baracca con un gruppetto di slavi stavamo tra noi commentando la guida spericolata di Daniele che conduceva il trenino a tutta velocità “con tutte quelle curve”. Gli slavi drizzarono le orecchie, poi vennero a chiedere dove si trovavano quelle “curve”. Non capivamo il motivo di tanto interesse finché non sapemmo che “curva” in slavo è la puttana.

Quando non si lavorava all’interno della galleria, c’era qualcosa da fare nel piazzaletto di Gerlos o anche nei dintorni. Un giorno si doveva spostare una linea di binari del trenino piccolo. La coppia di rotaie legata dalle traversine, da collegare ad altra coppia, era lunga meno di tre metri. Eravamo presenti in otto italiani; un capetto tedesco un po’ cretino che doveva farci eseguire il lavoro ci allineò quattro per parte ai due lati del binario, ci fece chinare per afferrare le traversine e quindi si mise ad ordinare l’ “oh, via!” una volta, due, tre; noi eravamo visibilmente tesi nello sforzo, ma il binario non si sollevava da terra. Lui riprese a dare ordini, con lo stesso risultato. Allora ci rovesciò addosso un profluvio di insulti per la incapacità degli italiani di sollevare un binario in otto. Fermando i suoi improperi, gli chiedemmo di lasciarci fare. Lui accettò. Due soli di noi si misero all’opera e in un baleno sollevarono di slancio il binario e lo deposero dove doveva andare, senza pestarci i piedi l’un l’altro come avremmo dovuto fare se fossimo stati in otto. Da quel momento il capetto cretino fu lieto di lasciarci fare a modo nostro indicandoci soltanto il programma giornaliero di lavoro; così lui se ne stava in pace per i fatti suoi e a noi avanzava abbastanza tempo per andare a sdraiarci da qualche parte.

IX.10)  Il commerciante clandestino

Durante l’inverno 1943-44 mi sono scoperto il bernoccolo del commerciante; un commerciante sui generis che era molto dotato nella professione, ma che perdeva rapidamente la preziosa dote non appena si affievolisse lo stimolo della necessità.

Nei contatti di lavoro con i civili del cantiere di Hochried mi era capitato che qualcuno di loro mi chiedesse di acquistare una cravatta italiana, di cui noi sicuramente dovevamo essere forniti; egli l’avrebbe pagata in sigarette o, meglio, in pane. L’idea di convertire in pane una cravatta non era malvagia: si trattava solo di sapere il prezzo. Nei giorni successivi egli mi ripropose la richiesta e mi offrì mezzo chilo di pane. Io avevo la mia cravatta e accettai il baratto. Nel turno successivo ci scambiammo le merci e io tornai in baracca col mezzo chilo di pane malamente nascosto sotto il pastrano.

La mia cravatta ebbe un gran successo. Altri lavoratori civili vennero a chiedermene per loro con molta insistenza. Io ovviamente non ne avevo, ma pensavano che ne avessero i miei compagni. Mi pregarono di passare di sera alla loro baracca, che era quasi all’altezza della nostra e sopra a quella dei russi. Non sarei potuto andare da loro se non nel breve intervallo tra la cena e la chiusura della nostra baracca, e cioè nel breve tempo lasciatoci per le varie operazioni da fare nella baracchetta lavatoio-latrina ai margini ultimi del cantiere dietro di noi. I miei compagni, che avevano seguito le trattative ed erano anch’essi interessati all’acquisto di pane contro cravatta, mi incoraggiarono all’impresa mettendo a mia disposizione diverse cravatte. Fui così costretto ad affrontare l’impresa e in breve mi attrezzai.

Riuscii non ricordo come a procurarmi una specie di bisaccia, che portavo nascosta sotto il pastrano: da un lato della bisaccia portavo le cravatte e altri oggetti da vendere, dall’altro riportavo il pane. Avevo un tempo limitatissimo per svolgere il mio traffico al buio prima della chiusura della baracca.

Naturalmente le cravatte furono tutte collocate in breve tempo. Poi allargai la gamma: i corpetti bianchi da marinaio incontrarono molto, poi spazzole, pettinini, sciarpette, insomma una chincaglieria varia che pareva inesauribile.

Di notte uscivo come un ladro, passando per i viottoli affiancati da alte pareti di neve, entravo furtivamente in un paio di baracche di civili nelle quali convenivano anche lavoratori di altre baracche. Le trattative non erano sempre facili. Io dovevo ottenere il più possibile mantenendo i prezzi alti perché lucravo sul pane portato a casa.

I compagni mi facevano vedere i loro oggetti dicendomi quanto pane si attendevano in cambio. Io dovevo realizzare almeno l’equivalente. C’erano oggetti che rimanevano nella bisaccia invenduti per settimane e settimane. Ormai conoscevo il mercato, sapevo cosa era richiesto e fino a che punto. Mi dispiaceva molto di dover deludere tante volte le attese dei compagni che mi aspettavano ansiosi ai miei rientri.

Questa attività era naturalmente clandestina perché severamente proibita dai militari tedeschi. A volte, ma di rado, capitava che io tardassi un po’ a rientrare quando il soldato veniva a serrare a chiave la porta della baracca. Allora i compagni trovavano modo di intrattenere il soldato con i più vari pretesti, finché io rientravo passando sempre dalla baracchetta, col pastrano appoggiato sulle spalle e le maniche penzolanti in modo da lasciare spazio alla bisaccia.

Nel cantiere si parlava dell’italiano commerciante, ma i miei clienti si guardavano bene dal fare il mio nome o indicarmi in qualche modo ai tedeschi.

Proprio al disotto della nostra baracca era alloggiata una coppia austriaca: lui un lavoratore serio, lei una vera strega  brutta e cattiva, alla quale non era riuscito di fare qualche affare con me. Un giorno mi avvedo che lei fa un cenno d’intesa al caporale – il “Mediomassimo” – indicando me col dito. Il caporale immediatamente mi chiama, mi porta nel suo stanzino, che confina con la nostra mensa,, e mi fa un interrogatorio in piena regola. Vuole sapere se sono io quello che va a vendere. Io naturalmente nego. Lui che è sicuro di sé insiste. E io insisto nel negare. Caparbiamente lui alza la voce e si fa minaccioso, ma vuole la mia confessione. Mi pare di capire che senza una mia confessione lui non mi può punire e quindi decido di resistere ad oltranza per metterlo alla prova. Comincia a darmi pugni in faccia e dopo ogni pugno mi chiede di confessare: io niente. Lui mi picchia più forte, ma vedo che è in difficoltà perché comincia a essere insicuro. Mi gonfia la faccia di botte, ma in modo sempre più stizzito perché non soddisfatto. Dopo un ultimo pugno veramente iroso mi abbandona. Io con la faccia gonfia, ma soddisfatto della conclusione, esco dal caporale e vado alla mensa. Ci trovo molti compagni che attraverso la parete divisoria stavano seguendo l’impari lotta. Mi vedono la faccia tumefatta, ma l’occhio sorridente. E mi abbracciano solidali.

Una domenica invernale di pieno sole con la neve accumulata intorno alle baracche provo ad andare dai civili nel primo pomeriggio. Dalla nostra baracchetta scendo non veduto da nessuno al retro della baracca dei cechi, busso al vetro di una finestra. Me la aprono e io entro montando sulla neve accumulata. Sono diverse stanzette in fila, io ne giro due o tre conducendo la solita trattativa. Nel passaggio da una stanzetta all’altra, da una delle finestre momentaneamente aperta che guarda in basso verso la baracca dei russi vedo il loro Dolmetscher che  mi ha intravisto e che subito corre ad avvertire un soldato tedesco. Per fortuna ho visto la manovra. Faccio in tempo a saltare dietro dalla finestra dalla quale ero entrato, corro alla baracchetta e da lì discendo tranquillo e mi godo la scena. Due soldati sono entrati nella baracca dei cechi dalle due estremità e controllano ogni stanza e ogni buco, sempre urlando. Io dalla nostra balconata seguo ogni movimento. I soldati escono arrabbiatissimi e ricevono dal Dolmetscher la conferma della sua segnalazione. Allora passano a ispezionare altre baracche vicine. Vogliono trovarmi una buona volta a tutti i costi. Sono scatenati. Sentono vicina la preda. Noi italiani ci divertiamo sempre più …finché ci si gela il sangue. Vediamo i due soldati che stanno trascinando a strattoni il nostro compagno Enrico Vecchio. L’hanno pescato in un’altra baracca. Era la prima volta che provava anche lui a fare un po’ di commercio. Inutile raccontare la punizione che gli hanno inflitta, nonostante che la strega tedesca insistesse a fare cenno che la primula rossa non era lui.

Una sera ho provato uno dei due peggiori spaventi della mia vita. Racconterò in appresso anche l’altro. Stavo rientrando da una peregrinazione notturna più audace del solito. Mi ero allontanato un po’ di più. Risalivo il viottolo che dal piazzale doveva portarmi alla mia baracca. Era un viottolo in netta salita con andamento a curve, tra le alte pareti di neve ammassate e indurite ai lati. Quasi all’inizio il viottolo sfiorava l’argano dell’Aufzug, un grosso motore con l’avvolgimento del cavo di trazione. Sull’argano era sempre acceso un faro piuttosto violento orientato dall’alto in basso. Avevo appena oltrepassato di un mezzo metro il cerchio di luce dell’argano quando vedo spuntare da una curva e venire verso di me il Caporalaccio, che evidentemente scendeva verso la cantina per andare a cena. Lui scendeva con passo regolare, io salivo con passo lento. Lui aveva il fascio di luce violenta che lo illuminava davanti e forse gli dava un po’ fastidio, io avevo la luce dietro di me che mi disegnava soltanto il profilo in mezzo al buio fitto. Mi dovevano mancare le energie, ma la forza della disperazione mi fece provvidenzialmente  continuare con passo lento; ci incrociammo, ci mugugnammo ambedue un “…nacht!” (“…notte!”); mi sembrò che lui rallentasse appena un poco  il passo dopo che mi aveva oltrepassato, come se si fosse voltato indietro ; io pensai “E’ finita!” e però ebbi la forza di continuare a salire pian piano. Appena svoltata la prima curva, sentendo che lui continuava a scendere, caddi a terra e rimasi lì un pezzo ad ascoltare il cuore che era impazzito e che non riusciva a tornare al ritmo normale. Voi penserete che io esageri nella paura. Ma non avete conosciuto il Caporalaccio e non gli avete mai sentito pronunciare nelle adunate del mattino le sue minacce alla ormai famosa primula rossa.

Questa paura ebbe comunque la sua parte nel far gradualmente ridurre il mio commercio, che a poco a poco divenne soltanto episodico, anche per esaurimento della merce collocabile.

IX.11)  Come sentivamo la guerra

Ho detto che Arturo Dolcetta ci portava notizie della guerra raccolte nello studio dell’ingegnere da Radio Londra. Non  ci rallegrava l’idea che il fronte fosse fermo a Cassino e che chissà quando sarebbe finita la guerra e la nostra prigionia.

Qualche speranza ci venne invece nel sentire un crescendo di passaggi di aerei da bombardamento alleati sulle nostre teste; li vedevamo salire verso il nord e mai tornare verso il sud (evidentemente avevano una rotta diversa). I passaggi si infittivano in frequenza e in numero di formazioni.

Una domenica mattina, in una bella giornata di sole invernale, ci godemmo lo spettacolo con grande eccitazione. Iniziammo a contare i gruppi di velivoli, poi i gruppi diventarono più grossi e più frequenti; arrivò il momento che tutta la nostra montagna era intronata da migliaia di bombardieri che, volando altissimi, avevano oscurato il cielo. Ci rimbalzavamo le valutazioni del numero di aerei: sono duemila; no, almeno tremila; no, sono certamente di più. Noi eravamo eccitati dalla speranza della fine. Qualcuno di noi urlava fuori di sé: “Uccideteli! Sterminateli tutti! Fate saltare tutta la Germania!”. Io guardavo i pochi tedeschi presenti e non sapevo valutare la loro tristezza. A volte pareva che anche loro desiderassero la fine, pur se resa possibile solo attraverso le distruzioni. Capo Bühno che ormai vedevo di rado mi faceva cenni rassegnati, ma controversi.

Un giorno vedemmo cadere sulla montagna a non molta distanza da noi , in mezzo agli abeti, un aereo leggero. Il giorno successivo ci fu una accalorata discussione tra noi, perché era venuto un tedesco a chiedere che quatto di noi andassero giù in paese a portare il feretro di un aviere italiano morto nell’incidente. Era un militare della Repubblica Sociale caduto mentre stava facendo esercizi di pilotaggio su un piccolo aereo-scuola. Molti compagni erano sdegnati all’idea di intervenire al funerale di un repubblichino. Calmatasi la discussione, io, Achille Bassan e altri due compagni scendemmo alla cerimonia. A me, appena presa sulle spalle la cassa di semplici assi di abete, rivolò un filo di sangue addosso (forse si era sciolto al caldo,  dopo il gelo della montagna), che non riuscii più a togliere. Assistemmo alla messa funebre nella chiesa parrocchiale di Zell am Ziller: ricordo la strana impressione di sentire le note preghiere del rituale funebre nel latino pronunciato alla tedesca: mi pareva quasi un’altra lingua.

Ai primi di giugno del 1944, nella sera luminosa tornavo in baracca dal lavoro, quando mi son visto correre incontro un gruppetto di polacchi che proprio al mio indirizzo gridavano eccitati: “Americanski Jim! Americanski Jim!”. Era tale la loro eccitazione che evidentemente mi stavano dicendo una cosa molto importante per me. Ma non riuscivo a capire. E loro sempre più eccitati: “Americanski Jim” (con la J alla francese). Arrivato in baracca, sentii da Arturo che gli Americani erano entrati a Roma. Jim era il modo polacco – e non solo polacco – di pronunciare la parola “Rim”, la quale significa Roma. Così capii perché il nome di Dvorak anche noi lo pronunciamo Dvojak e perché Rimskij (Romano) deve essere pronunciato Jimskij.

Le notizie sulla liberazione di Roma [4.VI.1944] ci fecero illudere che ormai fossimo alle ultime settimane. Tanto più penoso fu il dover continuare a rinviare di settimana in settimana, di mese in mese, di stagione in stagione, il sogno del ritorno a casa.

Per pochi mesi avevamo avuto uno scambio di biglietti postali militari con le famiglie: non ci dicevamo praticamente nulla: “Sto bene, non vi preoccupate”; “Stiamo tutti bene, ti pensiamo tanto”. Poi finirono anche quelli e non sapemmo più nulla.

Invece cominciarono ad arrivare pacchi a Marcello Lang dall’Italia. Per essere precisi, arrivavano da Plan de Gralba, all’inizio della Val Gardena, sotto il Sasso Lungo. Una sua amica  aveva volentieri accettato la preghiera della sua famiglia di inviare pacchi a Marcello a scadenze regolari, dato che il Tirolo era ormai parte della Germania. Ho poi conosciuto la Signora Kasslatter quando per un paio d’anni con miei amici abbiamo passato le vacanze invernali nel suo albergo; sentendomi parlicchiare tedesco, ella volle sapere come e dove l’avessi imparato e si finì per constatare che uno dei miei più cari amici era il destinatario dei suoi pacchi, di cui anch’io avevo ampiamente beneficiato.

IX.12)  Il mio compleanno

Il giorno di domenica 14 maggio 1944 cadeva il mio compleanno, anzi era il giorno in cui, secondo la legislazione italiana di allora, io entravo nella maggiore età.

Come mi accade ancora abbastanza spesso, me ne ero ben ricordato settimane prima, ma poi mi passò di mente proprio l’ultimo giorno. Me lo ricordarono invece i compagni, tanto cari, che aprirono la mia giornata circondandomi di una atmosfera di festa che era anche condita di ammiccamenti vari tra loro. Evidentemente, avevano tramato qualcosa.

E infatti, all’ora di andare a pranzo, trovai la tavola imbandita in modo inatteso. Oltre al consueto pasto già più ricco perché domenicale, trovai sette coperti speciali segnati da tovaglioli di carta fiorata e da strani sformati. Nei giorni precedenti, sei miei amici più intimi avevano messo da parte del pane bianco, del burro e della marmellata (accantonati dalla non lauta distribuzione del mattino) che avevano poi disposto a strati in due alti gamellini con un bagno di sciroppo. I gamellini erano stati tenuti sotto gli ultimi residui di neve ammassata dietro la baracca ed erano stati sfilati all’ultimo momento mettendo in evidenza le striature di marmellata nel bianco del pane. Era una cosa molto ingenua e molto carina e certamente una produzione straordinaria  per una manifestazione di affetto che non mi attendevo proprio. Erano anche state acquistate diverse bottigliette di birra, sicché si fece davvero un pranzo coi fiocchi, come non si era mai visto neanche in occasioni analoghe già presentatesi prima.

Ma la mia sorpresa arrivò al sommo, con caldo contorno di lacrime di commozione, quando al termine del pranzo, brindando con la birra alla mia salute, mi presentarono un papiro bellissimo, che in grande segreto avevano preparato nei giorni precedenti. Arturo Dolcetta ci aveva messo carta penne e inchiostri, Mario Simoni la decorazione, Elio Dassù la scrittura in caratteri quasi-gotici, e Oreste del Buono i disegni dell’ “ultima cena” e di due serie di pupazzetti. Tutti poi avevano collaborato alla stesura del testo divertendosi moltissimo. Come avessero potuto preparare il tutto senza  farmene accorgere è rimasto per me incomprensibile.

Questo papiro, che io ho salvato ad ogni costo e che conservo sempre come la cosa più cara che mi rimane del passato, è redatto in latino maccheronico.

In testa, c’è lo stemma della TIWAG affiancato da due bionde nude, con al centro pala, piccone e ascia, con  un  cartiglio recante la scritta “Lucus Angitiae” e circondato da una profusione di angioletti dalle facce patibolari che gettano fiori. Quindi il testo seguente:

“” Hac die signanda drei man lapillo, BENEDETTO imperante, quamquam in teutonica captivitate, rapas lumacasque oblitus nobiscum ad mensam lautissimam convenit   N I N U S   D E   P R O I A N A   G E N T E,  qui celerrimus cum pera [= mitica bisaccia del commerciante clandestino] agros iteritans albos corpettos in panem quotidianum pro nobis convertit, ut quam laetissime ad majorem aetatem  pleno ventre transeat. In aeternum laudabunt Tiroli gentes eum qui mirabili peritia in picco palaque praeditus innumerabiles fossettos per montes cavavit nivem gelum et pluviam ilari facie ferens, ita ut extraordinarius laborator videretur, sed sine supplemento [per alcuni lavori pesanti era prevista la concessione di un supplemento straordinario settimanale di mezzo chilo di pane e 250 grammi di lardo]. Et in aeternum eum amabimus nos sex comites baracchae in Italiam spe spaghettorum et familiarum redituri. “”

E le firme:

“”Adelio Dassù lex – Arturo Dolcetta ing – M. Simoni ing – Oreste del Buono lex – C. Widmayer lex – Marcello Lang semidoctor mercaturae. Decimo quarto die mense Majale anno millesimo nongentesimo quadragesimo quarto.”” P.S. “”Revisionatus a Giorgini Francesco Maria ¾ doctor mercaturae””.

Sotto, un quadretto tipo Ultima Cena, con me nel mezzo mentre un angioletto mi sta poggiando una corona sulla testa, e i sei commensali Oreste Adelio Arturo da un lato, Marcello Carlo Mario dall’altra. Sulla tavola i due sformati, 14 bottigliette di birra e 7 porzioni di pane su una tovaglia rappezzata alla meglio.

Ai due lati del papiro due serie di disegni in successione verticale.

A sinistra: 1) Benedetto (Bühno) con la sua sigaretta puzzolente, che mi fa da protettore; 2) io col piccone che scavo fossetti fra gli abeti; 3) io che porto il famoso “tubo” sotto la nevicata; 4) io che batto il pistoletto da minatore sotto lo sguardo di Kasimir.

A destra: 1) io con la bisaccia che giro di notte fra le baracche; 2) io che decanto la merce (calzini, corpetti) ai compratori che offrono pani; 3) io che porto pane ai compagni; 4) io che nel boudoir mi guardo compiaciuto allo specchio vedendovi una faccia di .. didietro.

IX.13)  La vita nell’ambiente alpino

La primavera porta un vigoroso risveglio della natura, tanto più evidente in un ambiente così … naturale come quello delle valli alpine.

Si comincia col vedere scoprirsi le prime chiazze di verde nelle radure bianche di neve fra gli abeti. Poi le chiazze si allargano, mentre spuntano una quantità di bucaneve fra l’erba rimasta a lungo compressa  sotto la neve. E inizia una incredibile serie di fioriture dei prati: dapprima tutto il prato si copre di bianco, poi di mese in mese cambiano fiori e colori, il blu, il rosso, il giallo, una distesa fitta di fiori che sembrerebbero seminati per una coltura intensiva e invece sono del tutto spontanei. Nel frattempo, gli abeti che hanno scaricato l’ultima neve rinnovano le punte dei mille rami e rametti con nuovi aghi di verde più tenero e più luminoso.

Le mucche, rimaste tutto l’inverno chiuse nelle baite, escono coi loro campanacci al collo a vagare liberamente, isolate o a gruppi, qualche volta guidate da un bambinetto con una canna in mano.

Compaiono le donne (non ci sono che loro per lavorare, in assenza degli uomini tutti in guerra) a falciare ritmicamente l’erba ormai alta, con la lunga falce dalla lama incurvata a mezza luna e un piccolo manico sull’asta. Sono abilissime a passare con sicurezza la falce rasentando il terreno disuguale in pendio. Poi con le gerle molto svasate sulla schiena e con passo lento portano l’erba – già rimasta ad asciugare sul prato e poi raccolta con enormi rastrelli tutti in legno – alla baita o più spesso ai fienili all’aperto accumulati intorno ad un altissimo tronco.

Si vedono le mungiture eseguite non più soltanto all’interno delle baite, ma anche sul prato. Ogni casa possiede più baite disseminate in punti strategici entro l’ampia superficie dell’unità agricola montana. I viottolini che le collegano alla casa sono percorsi giornalmente più volte per la cura degli animali e per la mungitura.

Le grandi case di legno scuro riespongono sui balconi i numerosi vasi di gerani variopinti. E’ tutto un ambiente idilliaco, anche se le facce della gente sono inespressive e spesso dure. D’altra parte, questa gente non ha altro che il lavoro, in piena solitudine. Le case sono distanti l’una dall’altra. E’ difficile fare una qualche vita di comunità. E’ già tanto se la domenica vedi gruppetti di donne che si recano a qualche cappelletta sita nelle vicinanze.

Ma la Pasqua è molto sentita. Ce ne accorgiamo quando vediamo all’improvviso tutti i sentieri che scendono a valle verso Zell percorsi da lunghe teorie di donne in costume di festa. Sono costumi variopinti, ricchi di ornamenti. La cosa più caratteristica è un cappello a falda molto ampia, di colore giallo oro per le donne sposate, nero per le vedove, tutto infiorato per le fanciulle. I pochi uomini portano il cappello tirolese con il pennacchio infisso da un lato.

Noi ci trovavamo abbastanza spesso ad eseguire lavori in luoghi distanti dai cantieri e quindi a più facile contatto con la gente.

Un giorno abbiamo eseguito in fretta un compito affidatoci dal capetto cretino che ha imparato a lasciarci fare a modo nostro. Stiamo sdraiati al sole nei pressi di una casa di contadini. Sentiamo stridere ad intermittenza una sega elettrica. Viene un vecchio contadino a chiedere se fra noi c’è un elettricista. Un po’ di silenzio, lo guardiamo incerti, lui dice che c’è un problema con la sega che si arresta di continuo dopo un inizio di funzionamento. Achille Bassan ed io ci presentiamo come elettricisti di mestiere. L’uomo, ben contento, ci guida verso la casa. Cominciamo le prove. Io sto in casa al piano di sopra vicino al contatore, Achille sta giù accanto alla sega per trasmettere gli ordini all’operatore. “Avanti!” grido io, e la sega parte, ma si arresta poco dopo. Di nuovo “Avanti!” e l’ometto austriaco obbediente appoggia il pezzo di tronco  sul nastro dentato che, azionato, si muove e di nuovo si arresta. Faccio finta di studiare l’impianto centrale, guardo giù, ritorno su nella rispettosa attenzione generale e finalmente convoco l’ometto per dichiarargli con aria professionale che ho capito dov’è il guasto. Purtroppo, è all’interno della scatola del contatore, ma non ci posso fare niente perché la scatola è debitamente sigillata. Mi dispiace proprio di non poter essere utile.

L’ometto capisce benissimo che non si può fare nulla e si scusa di averci disturbati, ma prima di salutarci ci accompagna nella stube, dove la padrona di casa ci fa sedere e ci offre una gran fetta di una torta stupenda accompagnata da un bicchiere di sidro.

Osserviamo la grande stube (il soggiorno-tinello-cucina) che ha in un angolo la monumentale stufa rivestita di piastrelle di maiolica di un bel colore turchese. Intorno intorno corre una panca fissa sulla quale si  sdraiano gli uomini tornati dal lavoro. All’ingresso ci sono gli zoccoli che ciascuno deve infilare sulle leggere pantofole quando va sul prato verso le stalle.

Sulle Alpi austriache tutte le case sono uguali nella formula, tutte con i muri esterni di grossi tronchi squadrati sovrapposti e strettamente connessi e le pareti interne rivestite di ampi pannelli di legno lucido, con i tetti poderosi ad angolo abbastanza ottuso per coprire la più ampia superficie e sporgere abbastanza da tenere al coperto le cataste ordinate di legna.

Qua e là si scoprono a distanza, sul versante opposto della valle, dei gruppi di case, piccoli villaggi raggruppati intorno ad uno snello campanile puntuto.

Giù a valle il fiume serpeggia scorrendo leggero con le sue acque limpide in mezzo alla verde pianura perfettamente piatta, incontrando nel cammino paesi e paesini comunicanti tra loro  per una strada  che sembra campestre e con una ferroviola dal trenino grazioso e pittoresco che si ferma davanti alle stazioncine-giocattolo.

Le strade dei paesini sono alberate con piante da frutta, normalmente meli o peri.

IX.14)  Mutamento di status

Verso la fine di agosto 1944 arriva in cantiere una Commissione militare accompagnata dal Sergente tedesco nostro superiore. Ci viene comunicato che un accordo concluso tra Hitler e Mussolini prevede per noi la possibilità di essere sollevati dalla posizione di internati militari, se sceglieremo di arruolarci volontari nelle forze armate dell’Asse oppure di assumere la posizione di lavoratori civili.

Abbiamo una vivace discussione per chiarire bene la portata della proposta: vogliamo sapere in particolare se, esclusa comunque la scelta di carattere militare, possiamo rifiutare anche il passaggio a lavoratori civili. La Commissione sembra propensa a credere che non possiamo rifiutarci, ma non ne è del tutto sicura. La discussione si conclude dopo l’annuncio che la stessa Commissione ripasserà  fra qualche giorno per registrare le nostre decisioni.

Partiti i tedeschi, si svolge una pacata disamina dell’argomento fra noi; ci interroghiamo sulla opportunità di accettare il passaggio al regime di lavoratori civili, ove questo non sia obbligatorio.

Io mi impegno a preparare un testo come base di discussione fra noi. Tutti d’accordo. In breve io preparo una mozione in nove punti (conservo ancora la minuta) contraria alla scelta propostaci, quanto meno perché avremmo perduto le garanzie connesse alla condizione di militari.

Il giorno 5 settembre la Commissione tedesca tornò, accompagnata stavolta da un italiano che aveva l’incarico di delegato della Repubblica Sociale per i lavoratori italiani in Germania, con ufficio a Schwaz, sull’Inn, tra la Zillertal e Innsbruck. La Commissione precisò subito che chi non sceglieva il volontariato militare doveva obbligatoriamente essere trasferito al regime di lavoratore civile. Il delegato italiano, nello spiegare l’accordo Hitler-Mussolini raggiunto per alleviare la posizione degli Internati italiani, promise il suo personale interessamento per risolvere eventuali problemi che noi avessimo  dovuto incontrare nel nuovo status. Per questo ci lasciò l’indirizzo del suo ufficio.

A questo punto non rimase che accettare la nuova situazione. Così venimmo dimessi dal regime militare; io ricevetti un attestato della Kommandantur  dello Stalag 317 (XVIIIC), datato 5 Sep. 1944, col quale si dichiarava  che il soldato PROIA Giovanni  nato il 14.5.23 in Aquila “ist mit heutigen Tage aus der Kriegsgefangenschaft entlassen worden” (è stato alla data di oggi dimesso dalla prigionia di guerra). Contestualmente ci sono stati restituiti gli oggetti e documenti che ci erano stati sequestrati al momento del nostro arrivo a Markt Pongau.

A partire da quella sera i militari non provvidero più a chiudere a catenaccio la nostra baracca e in capo a due o tre giorni il caporalaccio, il caporale (il mediomassimo) e i due soldati lasciarono il cantiere. Il soldato viennese prima di andarsene venne a salutarci; presomi da parte mi disse che lui aveva sempre saputo che ero io la primula rossa, ma che  si era guardato bene dal riferirlo ai suoi superiori.

IX.15)  La nuova vita da lavoratori … liberi

Col mutamento di status noi passiamo sostanzialmente e automaticamente dalla giurisdizione dell’Esercito germanico, che ci ha dimessi, alla diretta ed esclusiva dipendenza del datore di lavoro, la TIWAG, sotto l’egida dell’Arbeitsfront, senza che sia intervenuto alcun atto formale, non la sottoscrizione di un contratto di lavoro, non la notifica di una tabella salariale.

Ci rendiamo conto che il regime nazista riconosce al datore di lavoro, almeno per quanto ci riguarda, tutte le facoltà che gli consentono di programmare l’attività aziendale e impiegare la manodopera ritenuta necessaria come, dove, quanto e quando esso riterrà opportuno, con la sola salvaguardia di alcune condizioni materiali che però noi non conosciamo.

In sostanza, ci sembra che le condizioni di lavoro per noi non siano cambiate in nulla: continuiamo ad essere alloggiati nelle stesse baracche dei cantieri e a ricevere il vitto fornito dal cantiere, come prima. Siamo cioè nella situazione di deportati, in completa balia dei tedeschi.

Ci accorgiamo presto di aver anche perduto qualcosa. Il primo ad accorgersene è il nostro Capo D’Acierno. Dopo pochissimi giorni dal nostro passaggio alla libertà, siamo testimoni  di un episodio molto spiacevole. Il nostro anziano sottufficiale che sotto il governo dei militari ha mantenuto la sua dignitosa posizione di incaricato della nostra disciplina e della pulizia, non ha più come referente il caporalaccio, ma l’impresa e i suoi funzionari. Un giorno viene un tizio dal cantiere base a comunicargli l’ordine dell’impresa di dedicarsi al lavoro come noi, con la nostra squadra. Il povero Capo non aveva mai immaginato di potersi ridurre come noi, laceri e sciamannati; cerca di reagire, dice che lui non può alla sua età cominciare a fare un lavoro da manovale. Si bisticciano: c’è qualche spintone. Capo D’Acierno è veramente amareggiato e anche spaventato. Vorrebbe mettersi a rapporto, ma da chi? Il giorno dopo egli viene spedito altrove; non sapremo dove. Poveretto, non aveva imparato una sola parola di tedesco; è completamente in balia degli uomini dell’impresa. Speriamo che gli abbiano trovato da qualche parte una sistemazione decente. Qualcuno dei compagni sembra godere dei suoi guai, ricordando che finora egli era sempre rimasto in baracca ad impartirci rimproveri e minacce di deferimento ai tedeschi.

Comunque, cominciamo a provare qualche effetto positivo del passaggio alla … libertà. Per prima cosa, quei residui dei marchi-lager che abbiamo in tasca  perché non li abbiamo usati per accendere le sigarette ci vengono cambiati in marchi normali. Con questi marchi normali possiamo pagare la birra in un locale pubblico. Veniamo poi a sapere che, avendo il denaro sufficiente, si può anche comprare un paio di scarpe nuove: basta riuscire ad ottenere una specifica motivata autorizzazione  dalla Prefettura che ha sede a Schwaz.

Coi soldi si può senza alcuna formalità mangiare in Gasthaus (ristorante, trattoria, osteria, birreria): se non hai i bollini della tessera alimentare, puoi consumare uno stammgericht, una razione-base costituita da crauti e qualche patata.

Intanto, prendiamo a frequentare locali pubblici. Il sabato sera si scende a valle con l’Aufzug e si va al paese, a Zell am Ziller, a passare qualche ora in una Gasthaus. Purtroppo, il nostro abbigliamento ci qualifica inequivocabilmente; debbo dire però che noi ci sentiamo condizionati più di quanto dipenda obbiettivamente dagli altri. Nella Gasthaus c’è la Kellnerin che si sente oggetto della nostra attenzione un po’ morbosa, che ci serve il bicchiere di birra con qualche moderato ammiccamento; essa è giovanissima, un po’ curata nella persona e nel vestire, dotata di evidente femminilià, non come le montanare che abbiamo visto finora. Tanto basta per giustificare la discesa da Hochried e la passeggiata per il paese. Quando a notte risaliamo in baracca, racconteremo mirabilia a quelli dei nostri compagni che hanno preferito restare a casa.

Ora che non abbiamo più il Caporalaccio a farci le prediche, pensiamo da noi a lavare i pochi stracci che possediamo, per poterci presentare in giro con un minimo di decenza. Io anzi tiro fuori  dalla valigia la mia giacca civile elegante e mi pare di rinascere indossandola, anche se sotto la giacca ho soltanto un povero corpetto ingrigito e, peggio ancora, dei pantalonacci strappati e delle pezze avvolte  intorno alle caviglie per coprire alla meglio gli zoccoli, unica calzatura rimasta a mia disposizione.

Ogni fine settimana siamo in paese e facciamo visita ad altri locali. C’è ad esempio la stube  di un piccolo albergo dignitoso, proprio al punto dove si distacca la strada che sale per la valle del Gerlos. L’albergo è gestito da una signora non più giovane, ma con pretese di distinzione e soprattutto ben disposta verso noi giovani italiani. Cerca di intavolare conversazioni da salotto. Ci sentiamo gradevolmente rivalutati.

Da tanto tempo tutti gli uomini validi sono lontani per la guerra. Noi stranieri siamo in generale ben visti. Noi giovani ex allievi abbiamo evidentemente qualche tocco in più per attirare l’attenzione femminile. Il nostro compagno Francesco Giorgini infatti, un tipo intraprendente, lega presto con una signora, Frau Binder, che gestisce uno studio fotografico, e sarà una relazione piuttosto duratura.

Gironzolando per il paese siamo continuamente attratti dalle alberature pubbliche delle strade, ove vediamo delle bellissime mele rosse ormai quasi mature, che non ci possiamo permettere di toccare. Un giorno, sono con Achille Bassan, vediamo nell’orto del parroco un pero con dei frutti spettacolosamente belli ed enormi su rami bassissimi. All’orto si arriva passando per la piazzetta della chiesa e la canonica. Ma ci si potrebbe arrivare anche dal retro, dalla strada principale, scavalcando il binario del trenino della valle. Siamo in un periodo di luna nuova. Tornando verso la baracca a notte alta con un buio assoluto e un assoluto silenzio decidiamo di tentare il furto. Ci fermiamo al punto giusto, ascoltiamo per un po’, scavalchiamo la ferrovia, entriamo nell’orto, arriviamo sotto il pero, tanto è vero che io mi sento battere su una tempia una di quelle favolose pere. Protendo ambedue le mani per prenderla; trovo rami, foglie, altri rami, ma non riesco a ritrovare la pera. Suppongo che sia caduta a terra, tento coi piedi, ma non trovo nulla. Riprendo a cercare fra i rami, a tentoni. “Achille”, sussurro, “hai trovato?” “Non ancora”. Cerchiamo nel fogliame facendo scricchiolare qualche rametto che si rompe. Ci prende il panico. Vediamo a distanza un faretto che si muove. Restiamo immobili nel buio assoluto. Appena il faretto si spegne, mogi mogi e con molta attenzione ritorniamo sulla strada con le pive nel sacco. Il parroco ha vinto.

Questa nostra nuova vita tra il cantiere e il paese, alla quale ci stiamo accomodando abbastanza bene, dura però solo poche settimane.


precedente successiva