Capitolo X
Fuga e vagabondaggio
(ottobre 1944)

X.1)  Il trasferimento

Il giorno 2 ottobre 1944 una metà circa del nostro “gruppo di Zell am Ziller” viene bloccato prima di andare al lavoro. Ci viene letto un elenco di  nomi e ci si dice che dobbiamo subito prepararci con i bagagli per un trasferimento ad un altro cantiere. Ci vuol poco ad essere pronti.

E’ una brutta giornata, insolitamente fredda.

Scendiamo all’Aufzug e con quello al campo base. Qui troviamo altre persone . Sono tre civili italiani, residui di un concentramento di uomini rastrellati in varie zone del Nord-Italia: C’è Ferrari, un giovanissimo emiliano che hanno preso in maniche di camicia e che così è rimasto; c’è Dalmasso, un maturo valligiano piemontese in giaccone da caccia; c’è Giulio (non ricordo il cognome: forse Borrelli) un giovane cittadino sveglio e colto in normale abito borghese e con un minimo di bagaglio.

Dopo la distribuzione di una refezione con pane e qualcosa, veniamo caricati armi e bagagli su un camion dove staremo ben pigiati.

Il camion imbocca la strada che risale la valle del Gerlos. Il primo tratto con vari tornanti ci porta subito a un livello dove sta nevicando da qualche tempo. Il terreno infatti è già coperto da una ventina di centimetri di neve. Saliamo lentamente sino a quando la valle, dapprima strettissima e precipite, si allarga un po’ e diventa quasi pianeggiante. Pochi chilometri e ci affianchiamo al corso del fiume, che è ricco di acqua.

Il camion si ferma al paese di Gerlos, davanti a un ufficio della TIWAG. Scendiamo, sotto la neve sempre più fitta  e crediamo di essere giunti a destinazione. Dai 576 metri di Zell siamo giunti a 1246 metri di altitudine. Siamo veramente in ambiente alpino e sentiamo molto freddo, anche perché non eravamo preparati a questo improvviso abbassamento della temperatura.

Mentre siamo fermi e aggruppati in attesa di essere guidati a destinazione, arriva un carretto, sul quale dobbiamo caricare tutti i nostri bagagli. Il carrettiere prende le redini del cavallo e camminando avanti ci invita a seguirlo a piedi. Rendendosi conto della condizione del povero Ferrari che batte i denti intirizzito, lui stesso si toglie una delle diverse giacche che porta addosso come strati di una cipolla e la mette addosso al giovane. Il cammino riprende in lieve salita. Così facciamo sei chilometri sulla neve fresca, in mezzo a una fitta foresta, abbandonato il corso del fiume, seguendo nell’oscurità crescente le orme di chi ci precede, finché si arriva, ormai al buio pieno, al Gerlospass, metri 1507, un valico tra il Tirolo e il Salisburghese.

C’è un campo piuttosto rudimentale, con poche baracche, un piazzaletto in mezzo, per fortuna coperto di neve altrimenti sarebbe fangoso. Non c’è luce elettrica.

Ci accoglie un uomo molto alto in una lugubre divisa nera da SS, con una lampada in mano che lo illumina in modo spettrale. Ha modi molto bruschi, come di chi voglia subito mettere in chiaro che dobbiamo soltanto chinare la testa senza farci illusioni.

Siamo accompagnati in una baracca un po’ sbilenca, senza stufa, fiocamente illuminata da una lampada; quindi andiamo nel locale della cucina dove una vecchietta russa e una sua figliola da due sportelli distribuiscono una brodaglia, discreta perché calda e abbondante.

Il cuore si fa piccolo piccolo. Troviamo una decina di italiani, quasi tutti veneti, che hanno una strana aria rassegnata. Veniamo dopo a sapere  che erano gente rastrellata  con la minaccia di fucilazione e che quindi si sentivano dei sopravvissuti. Ascoltando le nostre imprecazioni e proteste, essi ci vedono come dei pericolosi agitatori che possono portare guai per tutti.

La mattina dopo la nevicata è terminata. Dopo una consistente colazione, due capisquadra ci mettono in fila per andare sul luogo di lavoro. Dal livello del valico saliamo ancora, in una zona spoglia, per tre o quattro chilometri. Dovremo passare tutta la giornata sino al termine dell’orario che, a sentire i veneti, finisce alle cinque. Il lavoro consiste nell’ampliare, raddrizzare, sistemare il tracciato di un viottolo che dovrà arrivare molto su, verso i 2000 metri.  Siamo tutti in fila lungo un tratto quasi rettilineo del tracciato, allo scoperto, con i capisquadra tedeschi che ci sorvegliano facilmente. Durante una pausa cerchiamo di avere notizie di dettaglio dai poveri veneti, per capire come funziona il campo. Siamo stupiti e preoccupati.

Verso le quattro il nostro compagno messinese Domenico Donato che ha l’orologio nelle vene mi dà l’orario. Io calcolo che per tornare in baracca ci vorrà circa un’ora, come al venire. Mi avvicino a uno dei due capi, che fa mostra di un bel frustino, e gli chiedo se non è ora di lasciare il lavoro. Lui stupefatto mi dice che manca ancora un’ora. Ma se il lavoro deve terminare alle cinque, dico io, è tempo di partire, altrimenti arriviamo in baracca alle sei. Lui mi guarda come una bestia strana, grida qualcosa, agita il frustino, vede i miei compagni che fanno l’atto di avvicinarsi, mi manda via. Ma, con sorpresa dei veneti, alle quattro e mezza egli fischia lo stop e ci avvia verso il campo. Ci ritroviamo a scendere insieme io, Achille Bassan, Carlo Widmayer (alias Massimo Tavanti) e Oreste del Buono. Ci diciamo che siamo capitati in una specie di Straflager (campo di pena) e che rischiamo di diventare come i veneti. Pensiamo che dovremmo organizzare una protesta in piena regola. Ma qui siamo più che mai nelle mani dei tedeschi. Parliamo, parliamo, preoccupati, finché arriviamo tutti insieme alla stessa conclusione: ricordando l’italiano delegato di Schwaz e le sue promesse, decidiamo di andare da lui. Per fare questo dobbiamo scappare. Lo faremo dopo cena, a notte alta, quando tutto il campo sarà addormentato.

X.2)  La fuga nella notte

Dopo cena, quando i nostri compagni si sono messi a letto, riordiniamo le nostre valigie, salutiamo tutti, usciamo in silenzio e svicoliamo subito dietro la baracca, già sulla strada maestra. Siamo facilitati dalla neve che attutisce i rumori, altrimenti con i nostri zoccoli di legno faremmo un inevitabile fracasso.

Valigie a spalla, si prende la via in discesa verso Gerlos con molta lena, quasi di buon umore. Siamo molto più svelti che la sera prima al salire, ma ce ne vuole per fare i sei chilometri fino a Gerlos. Quando arriviamo al paese, il tratto di strada che lo attraversa è stato pulito dalla neve, sicché, nonostante ogni attenzione, non possiamo evitare un concerto di otto zoccoli di legno che imitano il passaggio di un drappello di cavalleria. Dovrebbe svegliarsi tutto il paese e invece lo oltrepassiamo indenni, alla luce della luna.

Poco oltre il paese troviamo, a sorpresa, una caserma,  un po’ scostata dalla strada alla nostra sinistra, con una giovane sentinella davanti, evidentemente tra la veglia e il sonno. Noi non possiamo fare altro che proseguire il cammino in piena tranquillità sulla strada innevata e silenziosa facendo finta di niente. Tutto va benissimo. Ma poco più in là, sentiamo venire verso di noi un mezzo meccanico, camion o automobile, con i fari accesi. Nella strada così stretta il mezzo ci sfiorerebbe illuminandoci in pieno. Facciamo in tempo a buttarci fuori strada nel pendio a destra. Ma la neve accumulata e la forte pendenza ci faranno poi sudare le sette camicie per risalire sulla carreggiata.

Camminare per chilometri con gli zoccoli e un bel peso sulle spalle non è affatto divertente. La stanchezza si fa sentire, specialmente a Oreste che è il più debole fra noi per le sue condizioni di salute. Ma lui è molto testardo e non accetta aiuti di alcun genere.

Verso l’alba siamo giunti nella parte più profonda della valle; dobbiamo ormai scendere a destra nella forra fino al fondo e risalire dall’altra parte per raggiungere la ferrovia a scartamento ridotto di Daniele e, lungo quella, il cantiere di Hochried dove siamo intenzionati di fare tappa. La discesa fino al fiume per un sentiero è malsicura, ma non difficile. Arrivati giù, perdiamo un bel po’ di tempo per trovare un passaggio attraverso la corrente rapinosa. Finalmente vediamo un ponticello.

L’altro versante è molto ripido da risalire sul terreno viscido e spesso cedevole. Facciamo due passi in su e uno indietro. E’ allora che il povero Oreste, in una prova di forza suprema e che forse gli costerà poi qualcosa, comincia a sgranare le peggiori bestemmie che io abbia mai udite. Credo che gli servano per suscitare le ultime energie necessarie a tirarsi su. Infine avviene il miracolo: ci ritroviamo sul ciglio del percorso ferroviario e passiamo lì una buona ora per riprendere forza e animo.

E’ mattino pieno quando arriviamo alla nostra baracca di Hochried. Abbiamo percorso una ventina di chilometri. Non troviamo nessuno dei compagni, già usciti per il lavoro. Ci riposiamo sui nostri giacigli lasciati due giorni prima; ne abbiamo proprio bisogno. Riusciamo ad addormentarci nonostante un assalto inconsueto di cimici che, lasciate libere due soli giorni, si sono moltiplicate prodigiosamente.  Nel pomeriggio scendiamo a Zell per andare a mangiare uno stammgericht in un paio di locali dove siamo conosciuti. Poi torniamo in baracca.

La mattina dopo si scende a valle, si prende il trenino fino a Jenbach, quindi il treno per Schwaz. Un pasto rapido sempre a base di crauti e patate e finalmente si va a trovare il Delegato all’indirizzo che lui ci aveva lasciato; lo troviamo facilmente. Lui ci accoglie con molta cordialità e si mette a nostra disposizione. Ma quando gli raccontiamo come siamo venuti via da Gerlospass, ci dice che abbiamo fatto malissimo. Avremmo potuto mandargli un biglietto e lui magari sarebbe venuto a trovarci e a fare il possibile per migliorare la nostra situazione. Ora, quello che può fare per noi è far finta di non averci visti. Ci raccomanda di tornare subito al campo e spera di poter poi interessarsi  per far mitigare i provvedimenti che di certo saranno presi a nostro carico. E ci manda via.

Siamo proprio scoraggiati. Che si fa? Certamente non torneremo indietro; non andremo a rimetterci nelle mani dell’SS.

Torniamo a Hochried, poi si vedrà.

X.3)  Il problema dei fuggitivi. Che fare?

La constatazione della inutilità del ricorso al Delegato e la decisione di non tornare a Gerlospass  non semplificavano le cose. Che facciamo? Scegliamo di vivere da fuori legge?

Dobbiamo riflettere bene sul da farsi, anche se non ci sentiamo adatti alla riflessione. Torniamo per intanto a Hochried dove almeno c’è la comunità dei nostri vecchi compagni che ci può dare un minimo di protezione.

Carlo ha subito una idea brillante. Nelle esplorazioni intorno al cantiere effettuate nel corso dell’ultimo mese egli ha conosciuto una famiglia di montanari che ha casa piuttosto fuori mano, isolata. Hanno simpatizzato. Ci è tornato. Faceva qualche lavoretto in cambio di buone mangiate. Va a vedere cosa si può fare. Loro naturalmente hanno gran bisogno di mano d’opera e lo prendono in casa ad ospitalità piena garantendogli di poterlo tenere nascosto. Carlo ha un istintivo buon umore e molta comunicativa. Sa legare con la gente. Così lui ha risolto.

Carlo ci ha dato un’idea: andare a cercare ospitalità dai contadini in montagna, fuori mano. Purtroppo Oreste non è in grado di affrontare situazioni avventurose e fisicamente impegnative. Achille ed io proviamo. Si sale la montagna. Fortunatamente il maltempo ha avuto una breve durata. Avremo un bellissimo mese di ottobre [1944].

La casa più in alto che incontriamo, oltre i mille metri di altitudine, ha, come tutte, bisogno di braccia  per cavare patate. Ci presentiamo alla famiglia (una donna, un vecchietto, bambini) dicendo che noi lavoriamo a Jenbach alle officine aeronautiche, che la macchina utensile alla quale siamo addetti si è guastata, che occorrono almeno tre giorni per la riparazione, che noi per mangiare meglio che al cantiere siamo pronti ad aiutare  qualche contadino che può avere bisogno di noi. Naturalmente ci accolgono a braccia aperte per questi tre giorni e ci mettono subito al lavoro con la zappa. Nel corso della giornata abbiamo cinque pasti: una grande ciotola di latte caldo con pane e burro prima di andare al lavoro; una fetta di torta e un surrogato di caffè verso le 10, un sostanzioso pranzo a mezzogiorno con sosta di riposo; una torta con un bicchiere di sidro nel pomeriggio verso le quattro; una buona cena verso le sette. Il secondo giorno Achille, nel raccogliere con le mani le patate portate allo scoperto, viene morso a un dito da un topolino di campagna uscito a sorpresa; lui è un po’ preoccupato per eventuali infezioni; loro gli assicurano che non avrà nulla, basta lavarsi: in effetti non accade nulla. In capo ai tre giorni previsti, avendo stabilito un ottimo rapporto umano con la famigliola, tiriamo fuori la verità e chiediamo di essere tenuti nascosti, pronti a qualsiasi lavoro. Sono subito terrorizzati: gli piacerebbe tanto tenerci perché ne hanno tanto bisogno, ma non possono assolutamente fare una cosa illegale; ci fanno il gesto della corda al collo per l’impiccagione per farci capire il loro eventuale rischio; dobbiamo andare via subito. Ci danno soldi (che non ci interessano), ma soprattutto diversi bollini per carne e pane, preziosi per acquistare o per consumare in ristorante; loro li ricevono come tutti i cittadini, ma non ne hanno bisogno.

Torniamo al cantiere con la conquista dei bollini e con la sperimentazione almeno in parte riuscita. Oreste non sta bene. E’ stato aiutato un po’ dai compagni. Noi andiamo a procurare pane e wurst. Il giorno dopo lui accetta obtorto collo l’idea di tornare a Gerlospass. Lo accompagniamo a Zell a cercare il servizio pubblico che lo può portare a Gerlos, da dove dovrà proseguire a piedi per i sei chilometri fino al passo. Dice che ce la farà. Così, dopo una settimana circa, Oreste conclude la sua avventura. Sapremo poi che il Capo campo SS, viste le sue condizioni all’arrivo, lo rimprovera con grandi minacce, ma poi gli lascia riprendere il suo posto (nel suo libro La parte difficile pubblicato da Mondatori nel 1947 Oreste dà molto spazio, nel cap. XII, ai  ricordi di questa fuga, rievocata con grande efficacia, riportando anche i nomi reali dei protagonisti; v., nella edizione BUR del 1975, in particolare alle pagine 127 e 130).

X.4)  Fuggiaschi vagabondi

Noi due, Achille ed io, andiamo a ritentare altrove l’ospitalità dei montanari. Stavolta scegliamo la zona dell’Achensee, sopra Jenbach. Senza arrampicarci troppo, in un bel pianoro aperto e panoramico, troviamo la solita famiglia, qui un po’ più numerosa, con diverse ragazzette laboriose e un vecchietto che vive su una seggiola. Ci divertiamo a portare il vecchietto, con la sua seggiola, a correre sui prati, dove lui strilla tra spavento ed eccitazione gioiosa. Il lavoro qui comprende anche la falciatura del fieno, nella quale faremo figuracce: la punta della grande falce, quando la manovriamo noi, finisce spesso per infilarsi nel terreno. Le ragazzette ci tolgono la falce e ci danno il più innocuo rastrellone di legno.  Alla famiglia avevamo fatto l’ormai collaudato discorso della macchina utensile rotta. Ma anche qui si spaventano quando andiamo a rivelare la verità,  allo scadere dei tre giorni,  e ci mandano via con generoso accompagno di bollini e soldi.

In definitiva, la formula ci piace e ci consente di alternare giorni di lavoro a giorni di nomadismo, sempre con base Hochried. Così, cambiamo completamente zona e ci mettiamo a vagabondare per i monti. Siamo talmente contenti di questo tipo di vita che ci viene spesso di cantare mentre attraversiamo i prati guardando dall’alto il panorama molto bello della Zillertal., ma lì vengono le mie peggiori sofferenze. Achille è molto stonato, ma non sa resistere dall’unirsi al mio canto: così mi avvelena tutto il piacere. Litighiamo spesso per questo: io propongo di cantare alternandoci uno alla volta, lui dice che è libero di cantare quando gli piace. Qualche volta medito un piano di soppressione dell’amico per poter finalmente cantare a mio piacere. Ma sono un vigliacco e lui continuerà a suppliziarmi.

Stavolta saliamo sopra Hochried e finiamo molto in alto, forse all’ultima casa abitata. E’ un caso limite: c’è soltanto una donna, di mezza età, che lavora in solitudine alla sua azienda montanara con una incredibile energia. Potere immaginare il suo aspetto: inselvatichita al massimo, bruna un po’ baffuta, sporca, grossolana nelle maniere, disabituata al genere umano. Si commuove quando offriamo il nostro lavoro e accetta, trasformandosi rapidamente. Ci cede la sua camera da letto matrimoniale nonostante le nostre cerimoniose ripulse; dormiremo quindi in un normale lettone sotto lo sguardo del marito lontano rappresentato in una grande fotografia sul comodino. Per il lavoro, ci dobbiamo mettere in gara con lei e non è facile. Ma lei è più che soddisfatta. A sera vuol godersi la nostra compagnia il più a lungo possibile e così abbiamo un sesto pasto consistente in un budino con marmellata innaffiato di Schnaps (grappa). Forse pensa di conquistare il cuore di qualcuno di noi due, ma noi siamo bravi a difenderci gentilmente spegnendo ogni tentazione. Il solito discorso del terzo giorno provoca la solita conclusione. La saluteremo una sera riforniti di molti soldi oltre che di bollini; abbracciandoci ci invita a tornare qualche volta magari per un giorno o due.

Stiamo diventando un po’ temerari. Ci viene voglia di conoscere di più il lato cittadino dell’ambiente. Jenbach si presta  perché è una citta della valle dell’Inn con molta industria (ci sono fra l’altro le officine aeronautiche Heinkel) e quindi con un gran movimento di operai. Andiamo a passarvi una giornata di vacanza per goderci i nostri soldi e soprattutto i bollini. Andiamo a pranzo al ristorante della Stazione ferroviaria, stile Ottocento. Ci sediamo a un tavolo dando le spalle alla parete. La tovaglia nasconde bene il nostro abbigliamento impresentabile dalla cintola in giù. Ordiniamo un lauto pranzo. A un tavolo vicino, di fronte a noi, viene a sedersi una signora molto bella ed elegante. Accenni di saluto, sorrisi, qualche frase, quindi arriviamo a una vera conversazione. Si sente che siamo italiani. La signora ne è ben contenta e non fa domande sulla nostra situazione. Viene fuori una serie di racconti di sue indimenticabili vacanze passate in Italia. Stiamo a lungo a chiacchierare. Nel frattempo abbiamo finito il pranzo, abbiamo consegnato i bollini e pagato il conto, ma continuiamo a stare seduti in attesa che la signora, arrivata dopo di noi, esca prima di noi dal locale. Ma lei rimane perché è cliente abituale e si intrattiene con il gestore. Così, siamo costretti ad alzarci e ad attraversare tutta la sala con gli zoccoli e le pezze ben in evidenza, fuggendo come ladri.

Usciti dal ristorante, dobbiamo fare l’ora per andare al cinema dove proiettano il film italiano “Mamma” con Gigli che canta la canzone di Bixio. Una passeggiata ci porta sul greto del fiume Ziller, dove scendiamo per bighellonare fuori dal traffico. Notiamo un tizio che ci guarda sospettoso e si avvicina. Noi prendiamo a camminare sul greto e lui ci segue. Siamo costretti a continuare il cammino fingendo di avere una meta ben precisa ancora distante. Lui ci segue ancora per un po’, poi si ferma incerto, ci guarda ancora allontanare  e finalmente si decide a tornare indietro. Ci è andata bene. Ritroveremo un modo di risalire e di andare al cinema, che è molto affollato e dove il pubblico si commuove moltissimo alla vicenda con nostra meraviglia. A sera ce ne torniamo soddisfatti a Hochried, dove ormai i compagni ci aspettano per sentire il racconto delle nostre giornate.

Nei nostri andirivieni sul trenino della Zillertal ci capita anche di accorgerci che due militari sono saliti su una delle tre carrozze con aria di fare controlli; escono con passo deciso dalla prima e salgono sulla seconda carrozza. Il trenino si muove e noi saltiamo dalla terza carrozza dalla quale abbiamo visto tutto, rischiando al più una storta a un piede. Ma tutto va bene.

Presa confidenza con i paesini della valle, ci mettiamo ad esplorarla a piedi, cominciando dal basso. A Schlitters, passando vicino ad una casa  posta ai margini della pianura, un po’ fuori del paese, ci viene di bussare tanto per fare qualcosa. Ci vengono ad aprire insieme due donne, una vecchietta che ha il mento tremulo e una ragazza pallida e slavata. Ascoltano la nostra tiritera e prima che finiamo ci hanno già fatti entrare in casa, dove vivono da sole. Si eccitano subito ambedue all’idea che noi possiamo stare da loro per qualche giorno a lavorare. Certo, hanno da cavare le patate. Affare fatto. Dormiremo nel solito fienile dietro la casa. Loro si rianimano. Ci mettono in mano la zappa e si va nel campo davanti alla casa. Mentre stiamo zappando, le due confabulano tra loro e poi si avvicinano per chiedere se sappiamo fare i carpentieri. Per fare cosa, chiediamo. Per costruire una baracchetta lì davanti,  dove tenere i grandi tini nei quali debbono essere messe a macerare le tante bacche da distillare per lo Schnaps. Io dico che farò la baracchetta. Allora si fa subito un piano di lavoro. Andiamo dapprima all’inizio del pendio della montagna, a cento metri, a scegliere dei giovani abeti di loro proprietà per fare i pali angolari. Loro hanno tutti gli attrezzi necessari. Così io scelgo  e sego quattro abetini che poi pulirò dai rametti e dalla scorza e squadrerò alla meglio. Andiamo alla segheria del paese a scegliere le assi per fare le pareti e la porticina. Poi si penserà al tetto. Achille continua con le patate. Io con una bella attrezzatura completa mi metto a misurare e piantare pali e a misurare e inchiodare le prime assi di una parete. Le donne stanno a guardare. Una di esse si allontana e più tardi torna con un signore che si mette anche lui a guardare con molta attenzione, mentre io lavoro indefessamente. Il signore mi chiede. “Che mestiere fai tu in Italia?” Ed io “Lo Zimmerer (carpentiere)”. “Ah, l’ho sempre detto che i carpentieri italiani sono bravi!”.  La ragazza mi guarda con l’occhio di triglia. Una volta, uscendo da casa, mi si avvicina furtivamente, mi chiama sommessamente “Nino!” e quando mi volto mi dà due sigarette, dicendomi che sono di quelle che ha messe da parte per suo fratello che è al fronte russo (poi me ne darà altre). Orfana di ambedue i genitori, vive con la nonna che è vecchia ma volitiva. A sera, in casa, la nonna vuol sapere di noi. Mentre raccontiamo peripezie vere e inventate, lei rigira un mestolo in un pentolone sbavando e mormora ripetutamente “Mein Gott!”.  Mein Gott sarà poi per noi il suo nome. Al mattino presto ci dà da girare lo strano botticino con asse obliquo che serve per sbattere il latte e fare il burro. Ci facciamo delle belle colazioni con ciotoloni di latte bollito con un po’ di farina, pane e un burro casalingo leggermente grigio e delizioso. Un giorno mi fa sgranare fagioli che deve usare per una minestra. Quando andiamo a tavola vediamo il tegame con la scura minestra di pasta e fagioli e pregustiamo la delizia. Alla prima cucchiaiata restiamo a bocca aperta: Achille non ce la fa a mangiarla e la lascia; io pian piano mangio tutto: è una minestra di pere (e non pasta) e fagioli.  Andando all’Abort (ritirata) che si trova a una estremità del lungo balcone del piano superiore, dobbiamo passare davanti alle stanze di sopra. Una di queste ha il pavimento completamente coperto di mele appena raccolte e profumatissime. Prendiamo così l’abitudine di andare spesso alla ritirata passando prima a raccogliere una o due mele da mangiare nel chiuso del gabinettino; i torsoli tenuti in tasca saranno poi dispersi in mezzo al fieno. Mentre siamo a Schlitters viene a trovarci il nostro amico romano Bruno La Porta che lavora poco distante a Jenbach; non ricordo come ha fatto a sapere che noi siamo lì, ma si diverte anche lui a chiacchierare con la vecchia Mein Gott che lo trattiene per cena.

Le due donne di Schlitters non fanno eccezione e, sebbene ci abbiano tenuti più dei soliti tre giorni per veder ultimata la baracchetta, alla fine anche loro ci mandano via spaventate dall’idea di aver ospitato dei fuggiaschi.

A questo punto non abbiamo più molta voglia di lavorare, dato che il tempo è ancora assai bello ed è piacevole andare in giro, tanto più con l’eccitazione del rischio. Così vaghiamo di paese in paese risalendo la valle e arrivando sino alla cittadina più bella, Mayrhofen, che è al termine della piana, località essenzialmente turistica sita immediatamente prima delle strette valli che risalgono ripide verso il confine alpino.

X.5)  La cattura

Una bella passeggiata per le vie di Mayrhofen, una simpatica chiacchierata con una signora affacciata alla finestra di un primo piano, un bicchiere di birra in una Gasthaus sigillano il pomeriggio di libertà, frutto della esperienza fatta nelle ultime settimane e della voglia di vivere.

Decidiamo di tornare verso Zell. Possiamo andare col trenino, ma ci piace ancora camminare. Per la strada maestra andiamo conversando del più e del meno, mentre ammiriamo i due versanti della valle che sono una tavolozza variegata di abetaie, prati, ruscelli, viuzze, baite, abitati, campanili baciati dal sole che sta tramontando.

Arrivati a Hippach, abbiamo fatto più di mezza strada, ma ormai senza sole la passeggiata è meno piacevole. Decidiamo di fare gli ultimi chilometri col trenino della valle. Alla stazioncina di Hippach dovremo attendere un po’; restiamo lì, nel piazzale deserto, a passare il tempo facendo qualche riflessione.

E’ il 30 ottobre [1944]. Facciamo un riepilogo delle vicende di questo mese per noi favoloso, durante il quale abbiamo conosciuto la libertà nel senso più pieno della parola: nessuna responsabilità verso terzi (famiglia, compagni,  organizzazioni, datore di lavoro), nessuna obbligazione sociale, libertà di abbigliamento, nessun obbligo di orario salvo quello accettato volta per volta, nessun problema di alimentazione, massima libertà di opinioni, programma di attività scelto giorno per giorno e momento per momento, nessuna limitazione fisica, buona salute, buon umore. Ci chiediamo quando potremo di nuovo nella vita godere di una condizione simile. Forse sentiamo che sta per avere termine.

Infatti, un anziano poliziotto ci sta guardando dal margine del piazzale. Sempre guardandoci prende a camminare intorno al piazzale. Ci viene da sorridere pensando che siamo al centro di un accerchiamento, perché lui gira intorno avvicinandosi sempre più e osservando le nostre mosse.

Mi decido a muovermi per andargli incontro e chiedergli se desidera qualcosa. Ma lui si arresta e mi grida un altolà. Ha evidentemente paura che io mi avvicini. Ci chiede cosa stiamo facendo in questo posto. Diciamo che stiamo aspettando il trenino. Ma il trenino si aspetta dentro la stazione e non nel piazzale esterno. Chi siamo? Siamo due lavoratori italiani in un momento libero dal lavoro.

Dice che dobbiamo andare con lui al vicino Comando della Gendarmeria che sta a Zell am Ziller. Ci impone di andare non per la strada maestra, ma lungo la ferrovia che è la via più breve. Achille, io e il poliziotto in fila ci incamminiamo per percorrere i due o tre chilometri di distanza da Zell. Lui dietro a me tace. Mi fa pensare al soldataccio cattivo e vigliacco che avevamo al cantiere di Hochried, per una notevole somiglianza fisica. Nella speranza assurda di convincerlo a lasciarci andare, mi viene in mente di mostrargli la carta che mi è stata rilasciata al momento della dismissione dalla prigionia. Sempre camminando faccio per mettere la mano nella tasca posteriore dei pantaloni ove tengo il documento. Lui fa un salto indietro e un urlo per bloccarmi; forse ha pensato che potessi prendere un’arma. Gli chiarisco che si tratta di una carta. Accetta di vederla, ma debbo prenderla con la mano ben in vista e soprattutto debbo porgergliela protendendomi in avanti e allungando il braccio in modo da mantenere il massimo di distanza da lui. Si protende anche lui e prende la carta. Fa finta di leggerla. Teme una nostra possibile reazione nella solitudine della campagna, benché lui sia armato. Si tiene la carta e ci ordina di riprendere il cammino. Io tengo le mani un po’ discoste dal corpo per togliergli i sospetti. Così arriviamo alla Gendarmeria di Zell, che non avevamo mai notato prima.

E conosciamo il Comandante della Gendarmeria. E’ viennese, di corporatura minuta, l’espressione intelligente e un po’ arguta, abbigliato con proprietà; età più vicina ai 60 che ai 50 anni.

Ci chiede qual è la nostra base e perché eravamo a Hippach. E’ convinto che noi stavamo avvicinandoci alla frontiera italiana, dato che Mayrhofen è l’ultima cittadina – oltre alcuni piccoli villaggi - prima della catena delle Zillertaler Alpen (Alpi Aurine) che comprende la Vetta d’Italia.

Ci è facile dimostrare che nelle condizioni in cui siamo stati trovati (appena una specie di bisaccetta con una pagnotta da un chilo) non avremmo potuto affrontare la traversata delle Alpi. “Ma voi stavate nella zona per studiare la situazione”.

Sulla base dei dati anagrafici fa una serie di telefonate e quindi viene a dirci con una certa preoccupazione che noi risultiamo schedati per essere fuggiti dal campo di lavoro di Gerlospass e siamo destinati allo Straflager di Reichenau (un campo di punizione che avevamo già sentito nominare).

Constatato che sanno tutto di noi, l’interrogatorio si fa più serrato e concreto. Noi diciamo con vera convinzione che andiamo volentieri a Reichenau, perché, scontata la pena, (come noi crediamo di sapere) non ci rimandano al campo di provenienza. Il Comandante dice che noi non abbiamo idea di ciò che può essere un campo di pena; noi rispondiamo che lui non sa cos’è il campo di Gerlospass.

Rispondendo alle sue domande, facciamo un resoconto dettagliato della situazione che abbiamo trovato a Gerlospass, delle condizioni della baracca, della mancanza di ogni servizio, del regime di lavoro, della persona e dei modi del Capo campo, dello spirito che regnava fra gli italiani che erano già lì e si consideravano in punizione. Lui sembra non crederci. Cerca di telefonare agli uffici della TIWAG, ma non trova nessuno.

Infine, ci manda a passare la notte in prigione, con l’avviso che riprenderemo il discorso l’indomani. Ci pare buffo che lui cerchi di convincerci che Reichenau  è peggiore di Gerlospass, come se volesse indurci a non accettare il campo di pena. Abbiamo comunque notato i suoi modi umani e un suo sincero interesse alla nostra sorte.

Ci portano alla prigione del paese, dove il carceriere-secondino, che deve essere normalmente incaricato di ben altri compiti, rinfresca la sua cultura sulle procedure del caso. Troviamo uno stanzone seminterrato con sei o sette brande, la porta in ferro con finestrella a grata, il classico bugliolo. C’è una stufa che può essere alimentata solo dall’esterno. L’improvvisato carceriere si fa consegnare tutto quello che abbiamo, tranne il pane; non abbiamo lacci alle scarpe, ma una specie di cintura che lui ritira. Accende la stufa chiedendo scusa che il camerone è ancora freddo, ma lui non sapeva del nostro arrivo. Ci chiede se abbiamo bisogno di qualcosa. No, grazie. Bene, buonanotte! E se ne va sorridendoci (forse avrà avuto esperienze con delinquenti veri e vede in noi qualche differenza). Rimasti soli, ci facciamo delle risate per questa altra esperienza inattesa. Prendiamo il pane, troviamo nella bisaccetta anche delle mele: una allegra cenetta rifacendo il verso alla cerimoniosità del carceriere e ci addormentiamo sotto abbondanti coperte prese anche dalle altre brande.

Il mattino dopo di buon ora siamo svegliati. Il carceriere ci porta una brocca d’acqua calda e un catino. Ci restituisce le nostre cose. Ci fa fare colazione col nostro pane. Poi si torna alla Gendarmeria.

Il Comandante è già là, ci saluta e ci dice di attendere in uno stanzino, perché lui ha alcune cose da sbrigare. Aspettiamo pazientemente molto tempo, sorvegliati dal poliziotto di ieri, che oggi di tanto in tanto ci sorride.

Dopo ore di attesa il Comandante ci chiama. Ha sistemato tutto. Non andremo al campo di pena, ma dobbiamo tornare a Gerlospass e non avere nessun timore di maltrattamenti: tutto andrà bene.

Ci ha trovato anche un passaggio: un camion che deve portare un carico di sacchi di patate a Gerlos porterà anche noi.

Ma noi dobbiamo recuperare i nostri bagagli personali, che sono rimasti sempre a Hochried. Ci fa accompagnare a riprenderli dal nostro poliziotto, che diventa quasi servizievole. Il camion ci ha attesi. Il Comandante ci viene a salutare alla partenza facendoci tanti auguri. Noi lo ringraziamo di cuore, pur senza aver ancora capito quello che ha fatto per noi.

E’ una giornata grigia e fredda. E’ finita la bella stagione. Da Gerlos facendo a piedi la strada per Gerlospass, più innevata di come l’avevamo lasciata nella fuga, ci torna la preoccupazione dell’accoglienza dell’SS. Infatti, quando arriviamo al campo, a sera tardi, lui ci accoglie con un calcio pieno di rabbia e ci mette subito a lavare col frettazzo il pavimento di legno della cucina. Ma subito dopo avremo la zuppa calda che è così gradevole.

Durante la nostra assenza quassù è nevicato spesso. Ora siamo in ambiente senz’altro invernale.


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