XI.7)  Le feste di fine anno

Capo Windisch ha deciso di preparare per il fine anno [1944] un programma di festeggiamenti che ci faccia dimenticare per un po’ la nostra dura condizione, cominciando con un grande albero di Natale. Crede che non si possa concepire una festa senza spensierate bevute. Ci vuole della grappa, ma non è riuscito ad ottenerne dalla TIWAG una assegnazione neanche occasionale, neanche minima. Allora bisogna andare a procurarsene in giro. Per questo pensa ad Achille e a me come ai migliori conoscitori dell’ambiente. Ci dà l’incarico di scendere nella Zillertal, con fondi adeguati, per andare a rimediare Schnaps cercando ovunque; e ci munisce di un permesso scritto.

Ai primi di dicembre ci mettiamo in movimento rifacendo a piedi strade che conosciamo bene. Arrivati a Zell am Ziller, ci mettiamo subito in cerca di schnaps, senza esito. Per mangiare qualcosa, ci ricordiamo della bellissima panetteria del centro, le cui vetrine ci avevano sempre incantati con la esibizione dei vari tipi di pane uno più raffinato dell’altro, dei semellini viennesi al latte, dei vari dolci da forno. Entriamo nella panetteria, diamo uno sguardo in giro nell’ampio locale accogliente e dolcemente profumato e mentre ci dirigiamo verso il bancone notiamo una donna che ci sta venendo incontro. Facciamo in tempo a riconoscere la signora sola che ci ha ospitati nella sua casa di montagna lasciandoci con l’invito a tornare da lei; è commossa e sta per abbracciarci, quando sentiamo la panettiera che rivolge un gran saluto verso la porta d’ingresso. Ci volgiamo anche noi verso la porta e vediamo il Comandante della Gendarmeria. La nostra amica si blocca di colpo, spaventata all’idea di essere scoperta come conoscente di fuggiaschi, ma rimane nello stesso tempo di sasso nel vedere il Comandante che ci ha riconosciuti e ci sta venendo incontro a braccia aperte. La signora non trova di meglio che uscire precipitosamente dal negozio. Il Comandante si profonde in rallegramenti e si informa dell’evolversi della situazione a Gerlospass. Ci conferma che è stato lui a mettere in croce la TIWAG perché desse una svolta al sistema di gestione del campo. Non può aiutarci nella ricerca dello schnaps, ma ci augura di cuore buone feste di fine anno. Non lo rivedremo più. Per me resta il buon ricordo di una figura paterna.

Le nostre ricerche continuano nei paesini della Zillertal, sempre senza successo. Sarà perché noi in effetti stiamo godendoci una vacanza, piuttosto che affannarci a cercare grappa. Insomma, dopo i due giorni concessici da Windisch, ci decidiamo a tornare su con una misera bottiglietta da mezzo litro di grappa offertoci in dono dalla vecchia Mein Gott e da sua nipote ancora grate della baracchetta, già messa in funzione. Un  mezzo di fortuna ci porta da Zell a Gerlos, ma ormai è quasi mezzanotte, troppo tardi per fare a piedi i sei chilometri sino al Passo. C’è un piccolo Gasthof (albergo) nel paesetto; andiamo a bussare; nessuna risposta; giriamo intorno alla casa per bussare nel retro; riusciamo solo a sprofondare, nel buio, dentro un cumulo di neve che ci riempie gli stivali. Inutile insistere, dobbiamo proprio salire al Passo in piena notte; e sarà una notte freddissima. Arrivati a destinazione, ci accorgiamo che i nostri stivali sono foderati all’interno da uno spesso strato di ghiaccio a contatto con le caviglie e con gli stinchi. Capo Windisch il giorno dopo accetta il mezzo litro di schnaps senza recriminare sulla così scarsa produttività della nostra missione.

Per la notte di Capodanno ci sarà una festa con ballo, organizzata nell’ambiente di un magazzino svuotato per l’occasione. Windisch ha invitato una biondona sofisticata che era stata sua collega in un ufficio di città e che viene volentieri a fare le feste in montagna per praticare dello sci. Infatti, nel pomeriggio del 31 dicembre [1944] la donna, Helga, esce a sciare da sola  sulla Gerlosplatte, un vasto altipiano inclinato senza vegetazione che si estende in alto subito dietro il nostro campo. Arrivata l’ora della cena, la signorina non si vede. Windisch si preoccupa. Usciamo in diversi alla sua ricerca. La neve granulosa e ghiacciata dell’altipiano riflette la luminosità della luna. Ci disperdiamo qua e là a cercare e tutti gridiamo e ripetiamo “Helga!” “Helga!”. Lei non si trova.  Torniamo a mani vuote al campo, dove abbiamo una cena speciale. Windisch è comprensibilmente nervoso. Poi si rilassa quando arrivano delle ospiti per il ballo: sono tre giovanissime ragazze russe che lavorano ai servizi del vicino Hotel Edelweiss, altra caserma. Io ballo specialmente con Sonia, una incantevole fanciulla, figlia di una ingegneressa mineraria, che è la grazia in persona. Marta sorveglia la situazione e sa che non corre pericolo. Infatti, finita la festa, mi porta nella sua cameretta dove stanotte non si trova la collega Franzie, andata in licenza. Il giorno dopo la signorina Helga riappare e racconta di aver incontrato sui campi da sci alcuni ufficialetti che alloggiano all’Hotel Gerlosplatte, anch’esso utilizzato come caserma e che si trova al limite superiore dell’altipiano; essi l’hanno portata in albergo dove ha passato la notte ubriacandosi con loro.

XI.8)  Wald in Pinzgau

Il nostro Passo è a 6 chilometri dal paesino di Gerlos, nel Tirolo, e a 12 chilometri da Wald im Pinzgau, nel Salisburghese. Gerlos è a 1250 metri circa di altitudine, in una valle stretta con pochi e piccoli abitati. Wald è a 884 metri, in una valle più ampia e più popolosa che si apre verso Mittersill, Zell am See, Bischofshofen.

Perciò Wald diviene il nostro polo naturale di attrazione. La vecchia strada montana che scende a valle si snoda a mezza costa, molto esposta al sole e disseminata di case e di piccoli agglomerati.

I bambini di queste case e agglomerati che frequentano le scuole elementari scendono giornalmente a Wald con un comodo sistema durante l’inverno: il più lontano da Wald esce da casa con un grande slittone col quale passa di casa in casa a raccogliere tutti i suoi compagni. Al ritorno, il più vicino a Wald tira su lo slittone con una funicella fino a casa sua, per consegnarlo al successivo e ritornare così di mano in mano alla casa originaria. All’occorrenza, per qualche tratto si aiutano più bambini.

Noi dobbiamo scendere a valle anche per motivi di lavoro. E lo faremo in particolare in una famosa giornata con la temperatura scesa a valle a 23 gradi sotto zero, mentre al Passo era un po’ meno rigida. Dovevamo scavare una buca di 4 metri per 4 per la base di un grande traliccio metallico, in pianura, in zona agricola, cominciando col liberare il terreno dalla neve alta un metro circa, neve che aveva protetto il terreno e gli eventuali seminati. Una volta scoperto, il terreno si ghiacciava immediatamente formando uno spesso strato durissimo. I colpi di piccone sul terreno facevano scuotere dolorosamente le braccia e il torace e nello stesso tempo facevano schizzare piccole schegge di cristallo sul viso e sulle mani. Ciononostante, accadde un fatto impensabile: i capi squadra cercavano di sottrarci pale e picconi per scaldarsi col lavoro evitando il congelamento. Finimmo per litigarci gli arnesi da lavoro tra manovali e sorveglianti. E per quella giornata si riuscì soltanto a scalfire il terreno in superficie. Il giorno successivo la temperatura risalì e si poté riprendere il lavoro con migliore esito.

Per lavorare a valle, un grosso gruppo di italiani e polacchi venne spostato dal campo di Gerlospass a un altro più piccolo a metà strada circa verso Wald. Questo campo minore era composto di un baraccone nel quale furono sistemati insieme italiani e polacchi, una baracca con cucina, mensa , magazzino e legnaia e una baracca con stanze destinate a cuoca e capi squadra. Non ricordo il nome della località ove il campo minore era ubicato.

Al campo minore fu destinata Marta come responsabile sia della cucina che, in generale, della parte logistica. Essa ebbe come aiutante una giovanissima ucraina di nome Nadezda. Come capo squadra vi si trasferì Capo Lorenz.

Nei primi tempi io ero rimasto al Passo, ma ero ovviamente attratto dal campo minore, ove mi chiamava Marta. Una volta, di sabato, ancora in pieno inverno e con neve alta, partii dopo cena dal Passo per scendere al campo minore che distava cinque-sei chilometri. Mi accadde una strana avventura. Poco dopo la partenza, al bivio dal quale partiva la stradina per la zona alta del lavoro, proprio al centro della strada trovai il cane lupo degli Alpenjäger del vicino Hotel Edelweiss, che si faceva vedere spesso intorno al nostro campo. Sembrava che stesse di guardia per impedirmi di proseguire: non potevo certo uscire dalla stretta pista battuta e avventurarmi  nella neve fresca. Stetti un po’ fermo ad aspettare: lui non si muoveva, ma neanche ringhiava. Presi a fingere un colloquio a distanza con lui per addolcirlo o comunque per verificarne le intenzioni. Lui stava buono, accoccolato, senza alcuna reazione. Dato il motivo che mi spingeva ad andare, provai a muovermi, ad avvicinarmi, a tentare un gioco. Lui lasciava fare, al punto che mi decisi ad arrivare a lui e, con lentezza, a scavalcarlo. Non fece nulla per impedirmelo. Allora, molto grato, lo salutai e mi misi ad andare per la mia strada. Lui mi tenne dietro, stando al mio passo, evidentemente per farmi compagnia. Commosso, mi prodigai in coccole e carezze. Lui mi passò avanti;  allora mi resi conto di quanto mi fosse utile, perché al buio mi precedeva proprio dove io dovevo mettere i piedi per non affondare nella neve. Durante il cammino, si staccò una volta da me abbaiando, perché aveva sentito un capriolo. Insomma, arrivò con me al campetto e mi seguì sino alla porta della stanza di Marta, alla quale raccontai emozionato di questa inattesa avventura. Al mattino, quando uscii per tornare al Passo, lui era lì, dove mi aveva atteso tranquillamente. E con me, allo stesso modo, fece la strada di ritorno, fino al bivio della sera prima. Divenni subito un entusiasta della razza canina e in particolare del cane lupo che si era comportato come un cane di San Bernardo. Nei giorni successivi lo vidi avvicinarsi al campo, come era solito fare: gli corsi incontro a salutarlo affettuosamente come un vecchio amico. Lui non reagì in alcun modo alle mie feste, come se non mi avesse mai visto. Ci rimasi molto male, ma capii che lui aveva soltanto fatto il suo dovere, secondo gli ammaestramenti ricevuti.

Il sabato pomeriggio ci era abbastanza facile, anche dal Passo, scendere a Wald a fare un po’ di vita. A Wald c’era un grosso albergo ristorante, senza alcuna pretesa di lusso, ma efficiente e sempre animato, appartenente alla famiglia più ricca del paese, gli Strasser. Ai servizi dell’albergo erano addetti diversi deportati ucraini, uomini e donne, i quali al sabato sera avevano a disposizione alcuni locali di servizio per radunarsi e accogliere anche altri ucraini della zona.

Qualcuno dei nostri andava a passare la sera del sabato nella stube dell’albergo, frequentata dai locali. Alcune insegnanti della scuola di Wald, venute da altri centri, alloggiavano nell’albergo e quindi era facile trovarle nella stube. Furono esse a scoprire la presenza degli italiani e a profittarne. I pochi nostri compagni andavano a ruba. Più di tutti era ricercato il siciliano Domenico Donato che, avendo passato una notte con una giovane insegnante cui aveva dato soddisfazione per ben nove volte ed essendo per questo divenuto giustamente leggendario, era oggetto di una caccia spietata, nella quale ebbe il privilegio della priorità la Direttrice della scuola, una donna piuttosto formosa.

Tutto il paese di Wald, che già ospitava ucraini, russi, polacchi, e anche un bel gruppetto di francesi, divenne tifoso degli italiani, che furono quindi ben accetti in qualsiasi ambiente. Io ne ebbi la prova perché, avendo perduto il portafoglio, coi pochi soldi e i diversi documenti che costituivano tutto il mio avere, me lo vidi restituire al negozio dei generi alimentari; era stato trovato in campagna; ero stato individuato ed ero atteso per la affettuosa cerimonia della riconsegna.

XI.9)  Un processo per ribellione

Fine gennaio [1945]. Nevicate incessanti e abbondanti si riprendono ogni notte i tratti di strada che avevamo liberati il giorno prima. E’ sempre più una fatica di Sisifo. Di sera corrono fra noi propositi di rifiutarsi di andare di nuovo a spalare se al mattino continuerà a nevicare. Io la vedo brutta, perché i capi squadra non hanno voluto sinora sentire ragioni. Decido allora  per la prima volta di scendere giù a Gerlos a porre la questione all’ingegnare, nella mia funzione di rappresentante sindacale.

La discesa al paese va fatta con attenzione, perché occorre mettere i piedi precisamente dove i precedenti passaggi hanno consolidato la linea di marcia. Se sgarro di poco, la gamba affonda nella neve fresca e non è facile rimettermi in carreggiata. Lentamente procedo come un automa, sempre dritto, mentre le larghe falde della neve si depositano sulle spalline e sul berretto in cocuzzoli rapidamente crescenti. Di tanto in tanto mi debbo arrestare per scuotere i cocuzzoli dalle spalle e dal capo. Tutto bianco arrivo all’ufficio di Gerlos, dove trovo l’ingegnere molto agitato. Si lamenta che i lavori vanno troppo a rilento negli ultimi giorni causando ritardi nella tabella di marcia. Dico che lavorare inutilmente con  queste nevicate innervosisce e logora i lavoratori e non giova alla ripresa, quando la neve si calmerà. Lui dice che la neve si va calmando e anzi occorre riguadagnare tempo. Dico che c’è troppo nervosismo al Passo e chiedo che vengano date istruzioni ai capi squadra perché tengano in maggiore considerazione le difficoltà della gente che sta rischiando la salute. Lui mi promette di dire qualcosa ai capi squadra, ma vuole da me l’impegno a mantenere la disciplina fra i lavoratori. Mi fornisce dei  chiarimenti su alcune questioni sollevate nei giorni scorsi riguardanti la regolarità dei rifornimenti alimentari. Torno su, sempre con la nevicata in corso e con la stessa tecnica di marcia.

Arrivato al Passo, trovo che è accaduto qualcosa di grosso. Data l’insistenza dei capi per andare al lavoro con la nevicata in corso, diversi dei nostri hanno reagito col rifiuto e alcuni addirittura con spintoni e pugni. Non si è lavorato, ma Capo Lorenz e Capo Adam hanno minacciato provvedimenti seri. Capo Lorenz in particolare accusa delle escoriazioni sul naso. Speriamo bene. Intanto, smette finalmente di nevicare.

Dell’episodio e di quel clima teso racconta efficacemente Oreste del Buono in uno dei suoi ultimi libri: La debolezza di scrivere del 1987.

O. del Buono, La debolezza di scrivere, Marsilio Editori, 1987. In questo libro Oreste dedica due capitoli alle vicende che sto raccontando, raggruppati sotto una indicazione comune “Un fatto, due versioni”, ambedue già pubblicati separatamente nel 1945. Uno dei due capitoli, “Fine d’inverno” (pag. 129), è sostanzialmente una integrazione del primo libro Racconto d’inverno, sempre del 1945, con gli stessi personaggi (io vi compaio anche qui sotto il nome di Federico). Nell’altro capitolo, “Fare lo sciopero” (pag. 159), io compaio col mio nome reale Nino.

Passano due giorni e vediamo arrivare tre militari sugli sci, un ufficiale e due sottufficiali armati di mitra. Non ci siamo accorti subito del loro arrivo  e non sappiamo da dove vengono, ma dichiarano che hanno il compito di condurre una indagine sui fatti dell’altro ieri.

In base a un rapporto e alle indicazioni dei capi squadra, cominciano una serie di interrogatori nei quali io farò da interprete. Sembra che abbiano imputazioni ben precise da fare e sappiano già i nomi di eventuali imputati. Fra questi ci sono anch’io, che sono comunque responsabile in quanto rappresentante sindacale. Dalla ricostruzione minuziosa dei fatti risulterà però che io ero assente dalla scena della rivolta. Le discussioni avvenute dopo gli interrogatori, alle quali partecipò anche il Capo campo, portarono a una certa comprensione dei motivi che avevano portato all’astensione dal lavoro, ma non poterono giustificare l’aggressione fisica a Capo Lorenz, che era stata a senso unico. Sicché alla fine Luciano Balducci e Domenico Donato furono portati via legati; il Capo campo ci disse che i due nostri compagni sarebbero poi stati giudicati in un regolare processo. Non li rivedemmo più. Sapemmo dopo che erano stati portati allo Straflager di Dachau dove Luciano, quando fu liberato dagli Americani, era ridotto al peso di 37 chili.

XI.10)  Al campo minore

Arriva il momento in cui il campo di Gerlospass viene svuotato dei lavoratori, trasferiti tutti al campo minore. Gli sforzi fatti per condurre a termine i lavori della parte più alta della linea hanno avuto effetto.

Negli ultimi giorni, i soliti attacchi aerei degli Alleati si erano infittiti e sembravano poter interessare anche le valli austriache intorno a noi. In effetti, mentre un pomeriggio stiamo sistemando qualcosa in alto, vediamo aerei che gironzolano sopra di noi e, a sorpresa, una grossa bomba sganciata da un aereo (o perduta?) che va a cadere, con una spettacolare esplosione, proprio dove, più in basso, stava lavorando un gruppo di polacchi intorno a una grossa buca. Inorriditi al pensiero della carneficina avvenuta e del rischio che altre bombe potessero essere ancora sganciate su di noi, ci precipitiamo a valle per tornare al Passo. Arrivati al campo, veniamo a sapere che, per fortuna, il gruppo dei polacchi aveva lasciato la buca appena una decina di minuti prima dell’esplosione.

Una volta trasferiti tutti al campo minore, diventano più acuti i problemi della convivenza di italiani e polacchi nella stessa baracca, dove stiamo assai stretti e cominciamo a pestarci i piedi reciprocamente. Italiani più vivaci, polacchi più lamentosi, capita di tanto in tanto una  lite.

Io vado più spesso a Wald. Un sabato, mi infilo anch’io a curiosare nella zona ove stanno raccolti gli ucraini, al Gasthof Strasser. Sono accolto bene. Mi fanno assistere alla recita di una scenetta fra una ragazza e un giovanotto. La ragazza ucraina è Pascia, decisamente bruna, che al suo paese sta studiando arte drammatica. Nella scena, il giovanotto, un simpatico attore occasionale, fa la corte alla ragazza; per quel che riesco a capire, la ragazza non gradisce la corte o vuol far credere di non gradire; per questo, a ogni profferta d’amore risponde con scudisciate di incredibile verismo. Vorrei che si  intervenisse per fermare questa scena, ma mi dicono che è solo una recita. Al termine, mi presentano a Pascia. Ci mettiamo attorno a un tavolino in diversi ucraini e io solo italiano. Pascia mi interroga, vuole sapere tante cose di noi italiani, del campo di lavoro, della mia vita da civile. Lei mi parla della sua Accademia di arte teatrale e mi presenta un delizioso e bellissimo ragazzino di cui lei  ha la tutela: una fotografia del padre del ragazzino, morto in guerra, mostra un ufficialetto di Crimea di eccezionale bellezza. Pascia dice che in Crimea ci sono i più begli uomini dell’Unione Sovietica. Quando me ne vado, Pascia mi dice che prima o poi verrà a trovarmi al campo, dove potremo ballare. Le dico naturalmente che mi farà molto piacere. Dopo cena, al campo, sul tardi siamo per andare tutti a dormire. Io veglio ancora quando sento bussare alla porta. Vado e trovo Pascia, accompagnata da un’altra ragazza ucraina e da un italiano amico di quest’ultima: è venuta per ballare, come aveva promesso qualche ora prima. Grande imbarazzo mio. Dopo i chilometri che hanno fatti per salire fino a noi, dobbiamo comunque fare qualcosa. Sveglio Achille, sveglio dei veneti, specialmente uno di loro che suona benino l’armonica a bocca e che non si fa pregare. Si svegliano altri italiani e cominciamo uno strano ballo senza alcun entusiasmo. L’italiano venuto su mi dice che quando Pascia si mette qualcosa in testa non si può contrariarla. Ma ci sono i polacchi che vogliono dormire e che si oppongono acidamente al nostro divertimento. Pascia si rende conto e mi invita a uscire fuori per stare tra noi sotto la luna. Temo che lei voglia arrivare al sodo, magari sulla neve. Mi aspetto che compaia Marta. La cosa non riesce a quagliare. Achille mi incita a mandarli via per stanotte e magari a rinviare tutto a un altro incontro da concordare oggi stesso. Pascia mi vede incerto, non capisce le mie riluttanze. D’improvviso, ordina con decisione ai suoi amici di andare via. E spariscono nella notte mentre io cerco di chiedere scusa. L’italiano mi riferirà poi che ha dato ordine a tutte le ragazze ucraine di non aver più rapporti con gli italiani. Il suo ordine viene scrupolosamente eseguito.

La frequentazione di Wald induce i veneti in tentazione. Una sera, di rientro da Wald, sento in baracca un profumo appetitosissimo e vedo un gruppetto di veneti eccitato intorno a una specie di padella. Mi chiamano in modo riservato e mi offrono un pezzo di carne, che non posso non apprezzare con molti complimenti. Che cos’è? E’ una carne fuori tessera trovata presso un piccolo macellaio verso Krimml (ultimo paese del Pinzgau). Mi dicono anzi di farmi rivedere domenica prossima a quest’ora perché il macellaio ha promesso di fargliene trovare ancora. Di domenica in domenica si ripetono questi banchetti un po’ misteriosi. Finché io stesso torno alla sera a dare l’altolà. Ho sentito in paese che da un po’ di tempo vanno scomparendo dei gatti, i più belli, e comincia a circolare il dubbio che si tratti di furti .. gastronomici. Se si scoprono i responsabili, saranno guai per loro. Così i poveri vicentini che avevano trovato il modo di alimentare le loro più appetitose tradizioni debbono fare una lunga penitenza prima di riprendere, a distanza di tempo, qualche raro esercizio della loro devozione.

Marta mi fa fare una vita da nababbo, lavoro a parte. Ma ha anche attentato alla mia vita. Lei è campionessa provinciale di slittino, che è un mezzo di locomozione agilissimo, leggero e veloce. Qualche volta mi porta dietro di sé, sulla strada maestra, e io dovrei spaventarmi specie alle curve che affronta a velocità pazzesca. Un giorno facciamo in tempo a schizzare via dallo slittino che invece è finito incastrato sotto un grosso slittone che veniva salendo trainato da un bue. Una gran risata chiude l’episodio.

Non ci basta mai il tempo di stare insieme, che è sempre un po’ rubato quasi di nascosto. Finché non decidiamo di fare un colpo grosso. Quando le squadre vanno al lavoro, Marta rimane sola al campo con l’unica compagnia di Nadezda. Io decido di darmi malato. Un mattino Capo Lorenz passa come al solito a chiamarci per la sveglia e io mi faccio trovare ancora nel giaciglio con l’aria di moribondo. Ho la febbre, dico, sento dolori vari. Capo Lorenz che mi considera un lavoratore modello mi raccomanda subito di rimanere ben riparato a letto, così guarirò presto. Tutti se ne vanno e io rimango padrone del campo, in .. costume da notte, a fare follie. Avendoci preso gusto, il giorno dopo ripeto la scena. E Capo Lorenz sempre premuroso mi lascia a letto con le sue raccomandazioni. Il fatto di circolare semivestito (per parare eventuali sorprese) alla lunga mi provoca un fastidioso raffreddamento. Così il terzo giorno Capo Lorenz mi trova già vestito e si rallegra con me. Ma mi vede l’occhio un po’ torbido; viene a sentirmi la fronte e mi trova davvero la febbre. Allora vuole che io mi svesta e mi rimetta a letto perché non sono affatto guarito. Ma io, che ho paura di ammalarmi davvero, insisto per andare al lavoro. Capo Lorenz non può impedirmelo ed esprime commenti lusinghieri sul mio attaccamento al lavoro. Comunque, guarisco davvero nonostante la febbre.

Nadezda è tanto cara, dorme nella stessa stanza di Marta, assiste al nostro amore, mi si affeziona. Marta vorrebbe che anche lei avesse qualcosa di bello dalla vita e le propone di stare con Achille. Lei quasi accetta, ma all’ultimo momento non ce la fa. Secondo Marta, lei starà con me o con nessuno. Comunque, rifiuta tenacemente la corte spietata che le fa un polacco un po’ strano, Roman, che ha pretese di intellettuale ed è per questo ossessionato da problemi esistenziali.

In vena di pronuba generosa, Marta mi racconta che ha parlato tanto di me a una sua carissima amica di Wald, Zenzi (scritto: Cenci), meno che diciottenne, un caso raro di brunetta integrale, figlia di un bravo ingegnere. Non le può certo raccontare di prodezze amorose paragonabili a quelle dell’amico Domenico Donato, ma le dice del mio carattere, della mia conversazione, ecc. Le piacerebbe che Zenzi fosse iniziata all’amore da me. E Zenzi pare che ci stia. Ma sono io che non ci sto assolutamente, proprio perché ho finito per conoscerla e vederla come una deliziosa adorabile bambina. Dopo pochissimi giorni  Zenzi con tutta la sua famiglia sparisce dal paese senza lasciare notizie. I paesani ricordano casi analoghi di famiglie scomparse nel nulla; in genere si trattava di gente non allineata politicamente.

Stiamo avvicinandoci alla fine dell’inverno. Cominciano a vedersi nella foresta piccole chiazze di verde in mezzo alla neve. La foresta cambia un po’, le punte dei rametti di abete sono di un verde tenero. Nelle notti serene senza luna si può ammirare lo spettacolo, tutto nuovo per me, del cielo stellato con un numero incredibile di stelle tutte vivamente accese e tutte d’oro. Ero abituato a vederle d’argento.

Una notte mi alzo per un bisogno fisiologico. Appena apro la porta mi trovo davanti una enorme cerva, sembrava che stesse curiosando intorno alla baracca. La cerva si spaventa e corre via all’impazzata. E’ un incontro emozionante. Ho visto spesso caprioli e una volta un daino a una certa distanza. Ma la cerva avrei potuto toccarla.

Vedo qualche volta la madre di Marta. E’ una brava signora, tra il moderno e il tradizionale. Non mi vede troppo male. Il padre non lo capisco; parla poco e in dialetto stretto: è comunque burbero e certamente non gli sono simpatico. Comincio ad affezionarmi alla piccola Marianne, tanto brava. Con la piccolissima Margit non riesco a stabilire alcun rapporto. In paese tutti sanno di me e di Marta; mi pare di essere diventato uno di loro.

Ancora qualcuno si ricorda di noi in Italia. La Croce Rossa della Repubblica Sociale manda un dono agli ex IMI in Germania. Io debbo andare a ritirarlo per i miei compagni. Stavolta vado in treno a Zell am See. Lì mi danno uno scatolone pesante nel quale sono contenute 25 camicie civili di cotone con qualche disegno o rigatura a colori: uno per ogni italiano. Per portare via lo scatolone fino al treno debbo trascinarlo con una cordicella; per fortuna c’è ancora il ghiaccio. Tornato in baracca, distribuisco, ma c’è qualcuno che vorrebbe rifiutare. Poi ci si rende conto che sono camicie vendibili, per il fascino che hanno sempre le confezioni italiane. Ma io non sono più capace di fare il commerciante.

Stiamo ultimando i lavori della linea elettrica per quanto di nostra competenza. Fra poco ci manderanno via di qua.

Nell’ambito dei preparativi per il trasloco, mi trovo – un giorno dell’incipiente primavera – a dovermi recare all’ufficio TIWAG di Gerlos. In una giornata faticosa, arrivo a fine mattinata e sono costretto a trattenermi fino ad una ora avanzata della sera. Quando riparto per risalire verso il passo è già buio e sarà presto notte fonda. Quando la strada, ancora fiancheggiata da consistenti banchi di neve ormai indurita, si inoltra nell’abetaia, sento all’improvviso un grido eccitato: è un altolà tipicamente militare. Mi viene in mente allora di aver ultimamente intravisto da quelle parti lavori di allestimento di baracche. Chi mi ha dato l’alt e continua a gridare ordini confusi è un giovanissimo militare, al più sedicenne, spaventato più di me e intorno al quale accorrono rapidamente altri ragazzi in divisa. Tutti mi puntano addosso i loro fucili, mossi freneticamente dalla loro insicurezza. Io cerco di rassicurare la sentinella e i suoi compagni, a  braccia alzate, cercando di obbedire ai loro ordini, finché arriva un soldato più maturo, un sottufficiale che forse è il comandante del distaccamento. Sono portato in una delle baracche del campo, a pochi metri dalla strada, e vengo sottoposto a un frenetico interrogatorio con domande che si susseguono senza neanche attendere una risposta. Finalmente, riesco a spiegare che non sono una spia, anche con l’ausilio del mio Ausweis, che vengo dall’ufficio della TIWAG e che debbo rientrare al campo della ditta su al passo. Per fortuna il sottufficiale ha potuto calmare l’eccitazione, per me assai pericolosa, dei ragazzi e quindi rilasciarmi con la raccomandazione di non andare in giro di notte.

Questo episodio e la vista di quei ragazzi chiamati a una rapida istruzione militare per servire alla meglio alla difesa della Germania sono per me il primo segno dell’approssimarsi della fine.


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