Capitolo XI
L’inverno al Passo
(1944-1945)

XI.1)  I lavori a Gerlospass

La TIWAG stava impiantando una linea di trasporto di energia elettrica tra Tirolo e Salisburghese attraverso i monti delle Kitzbüheler Alpen. L’unità operativa incaricata della esecuzione di questo programma aveva la base in un ufficio di Gerlos diretto da un  ingegnere.

Il campo di Gerlospass era stato montato da poco, evidentemente improvvisato, per un periodo di tempo limitato al compimento del programma di base. Questo comprendeva l’apertura di percorsi montani attraverso i quali trasportare i materiali occorrenti e in special modo i paloni; il trasporto di questi materiali; lo scavo delle buche; l’erezione nelle buche dei grossi e alti paloni portatori della linea. Di tanto in tanto lungo la linea si dovevano preparare le basi più ampie destinate ai tralicci metallici aventi funzione di punti angolari  o di punti di sostegno principali della linea. Dopo questo programma di base, di livello grossolano, sarebbe succeduto il programma più tecnico di posa e ancoraggio dei cavi affidato ad altri.

Poiché i trasporti pesanti nell’ambiente alpino si fanno durante l’inverno per sfruttare il sistema degli slittoni o il metodo del trascinamento diretto sulla neve, il nostro lavoro doveva essere eseguito e ultimato entro l’inverno. In primavera si sarebbe eseguito il lavoro nella parte della linea passante giù in piano lungo la valle del Salzach, al versante opposto a quello del Gerlos.

Era il caso tipico di lavori forzati, lavori cioè da eseguire a tutti i costi entro un dato termine. E siccome la linea elettrica proprio in vicinanza del Passo doveva superare i 2000 metri di altitudine, era proprio la base del Passo che doveva servire per la parte più urgente del programma.

Il campo era disposto intorno a un piazzaletto centrale. Intorno, sui quattro lati, sorgevano due baracche per i lavoratori, una baracca per i dirigenti e gli addetti al funzionamento del campo; una più grande baracca comprendente la cucina, la stanza per la distribuzione dei pasti, una piccola mensa per i capi, il magazzino viveri, il magazzino attrezzi e la legnaia; una piccola baracca che ospitava le latrine. A proposito di queste, siccome mancava l’acqua calda, quel poco di acqua che arrivava alle latrine era perennemente ghiacciata e quindi non poteva asportare nulla; il luogo diventò presto all’interno e all’esterno un cumulo di escrementi ghiacciati che cresceva su se stesso di settimana in settimana in attesa di tempi migliori.

Oltre agli italiani, c’erano nel campo anche dei polacchi. Italiani e polacchi facevano anche per il lavoro squadre separate. Debbo dire che noi eravamo essenzialmente manovali, mentre tra loro c’era anche qualche operaio specializzato, sicché la loro squadra faceva lavori un po’ più impegnativi tecnicamente. Ma erano sempre lamentosi; perennemente in disputa fra loro in quella incomprensibile lingua strascicata, non si capiva mai – per la loro inespressività – se stessero raccontando barzellette o stessero litigando di brutto. Non siamo mai riusciti a stabilire un minimo di rapporto di colleganza, pur condividendo in tutto quelle condizioni di vita. Non siamo neanche mai riusciti ad apprezzare quella strana specie di tabacco di cui loro disponevano largamente, il makorka, una massa filamentosa dall’odore non gradevole.

XI.2) Il cambio del Capo campo

La TIWAG aveva tutto l’interesse di sfruttare la mano d’opera dei deportati, che d’altronde era l’unica disponibile specie per questo tipo di lavori; ma doveva anche ottenere il massimo di efficienza in un tempo limitato e perciò non poteva contentarsi di un lavoro tipico da prigionieri, naturalmente portati alla resistenza passiva.

I responsabili locali dell’impresa, in considerazione della necessità di avviare un programma che camminasse speditamente, ma di certo anche a seguito di una specie di processo intentato con piglio deciso dal Comandante della Gendarmeria di Zell am Ziller, si preoccuparono della situazione del campo di Gerlospass al punto che, meno di una settimana dal nostro ritorno, il Capo SS fu sbolognato altrove e fu sostituito da una persona completamente diversa; al momento di andarsene egli esplicitamente imputò a me e ad Achille la responsabilità della sua rimozione.

Al nostro rientro al campo Achille ed io eravamo stati salutati quasi come eroi. Dopo l’allontanamento dell’SS divenimmo i salvatori della patria.

Il nuovo Capo campo era un giovane simpatico, sveglio, attivo, il signor Windisch, mezzo tedesco e mezzo ungherese, animato dal desiderio di fare tutto il possibile per migliorare la situazione. Fu una rivoluzione copernicana. In pochi giorni mutarono molte cose e mutò il clima generale. Prima di tutto furono installate le stufe nelle baracche (cosa che forse si sarebbe fatta comunque, solo questione di tempo): questo ci permise di darci al mattino una lavata alla meglio con un po’ d’acqua scaldata in un unico secchio sulla stufa: serviva almeno a dissuggellare gli occhi. Alla domenica ci si lavava un po’ meglio e ci si faceva la barba.

Capo Windisch fece dare una sistemazione al piazzaletto, anche se non poté fare niente per la latrina. Ma si preoccupò specialmente della cucina, pretendendo e in linea di massima ottenendo che arrivassero con più puntualità al campo le derrate e i generi necessari che sino allora venivano del tutto casualmente. Avemmo anche finalmente la possibilità di sostituire i nostri pastrani cerati della Marina, ormai ridotti a brandelli, con dei cappotti militari; erano cappotti usati provenienti da vari eserciti: a me toccò un cappotto dell’esercito serbo, color tabacco, che aveva  nel torace un foro dai bordi bruciacchiati. Il cappotto assegnato a Luciano, essendo di taglia normale, si spaccò dietro le spalle appena fu indossato.

Oreste in un pacco da casa ricevette un magnifico cappotto di lana, un indumento coi fiocchi che naturalmente non poteva usare andando al lavoro. Ne fece il miglior uso indossandolo per il viaggio verso l’ospedale e poi verso l’Italia, quando tornò a casa prima della fine della guerra.

XI.3)  Al lavoro in montagna

Al mattino ci si avviava in fila, pala e picco a spalla, verso la zona di lavoro, facendo dapprima un tratto della strada maestra verso est. Lungo quel tratto, tutte le mattine incontravamo un montanaro massiccio che menava davanti a sé uno slittone vuoto trainato da un bue, il quale evidentemente andava a prendere legname da trasportare a valle; nell’incrociarlo gli facevamo sempre un gran saluto, specialmente quando, di lì a pochi giorni, cominciammo a vedergli l’insieme di baffi e barba rinserrato in un unico blocco di ghiaccio, bocca compresa, alimentato dal vapore che uscendo dal naso si congelava subito: ci domandavamo divertiti quanto tempo ci avrebbe messo a recuperare la possibilità di parlare. Svoltando a sinistra, arrivavamo in breve a un bivio presidiato da un gran crocifisso, che da un lato portava all’Edelweiss Hotel, ora caserma degli Alpenjäger (cacciatori delle Alpi, gli alpini austriaci), che non abbiamo mai visto. Dal lato opposto prendevamo a salire la montagna ormai sempre fra la neve molto alta.

Arrivati alla destinazione del momento, dovevamo spalare la neve per aprire la strada ai cavalli che portavano su, trascinati sulla neve, gli enormi paloni sino al punto in cui dovevano essere piantati (qualche volta dovevamo anche spianare il percorso). In quel punto si scavava una buca  profonda un paio di metri, nella quale, con manovre spesso al limite dell’infortunio grave, veniva calata l’estremità di maggior diametro del palone, mediante sollevazione dell’altra estremità con coppie di paletti di varia lunghezza legati fra loro con una corda. Uno di noi all’interno della buca doveva sistemare al punto giusto il palone che ondeggiava paurosamente sfuggendo facilmente al controllo col rischio di piegarsi di colpo addosso al malcapitato. Capo Lorenz, allampanato, col naso sempre rosso diviso da un setto quasi trasparente, dirigeva la manovra alla cui conclusione si tirava sempre un gran sospiro di sollievo. Il riempimento della buca era pur esso una operazione non semplice, per assicurare la saldezza e stabilità e la perfetta verticalità del palone.

Si viveva perennemente nella neve che mascherava i dislivelli del terreno, ove i miei zoccoli erano assolutamente inadeguati. Sotto la suola di legno si attaccava regolarmente la neve gelida, in una massa amorfa tendenzialmente a semisfera, che impediva la stabilità della posizione e che quindi dovevo continuamente staccare sbattendo uno zoccolo contro l’altro. A forza di insistere, finalmente un mattino fui chiamato, all’ultimo momento, ad andare a ritirare un paio di stivali di gomma. Potevo calzarli subito, ma non avevo il necessario per fasciare i piedi e per chiudere insieme calzoni e stivali. Infilai questi in fretta e mi trovai sulla montagna in una giornata con la neve particolarmente alta, la quale entrava come voleva negli stivali intorno al piede nudo: passai la giornata a sollevare alternativamente molto in alto gamba destra e gamba sinistra per svuotare gli stivali dalla neve discioltavisi dentro.

Un giorno, in una zona fra le più alte, spalando neve che in grande abbondanza aveva riempito un avvallamento del terreno, un due metri sotto vedemmo spuntare delle corna: era un bel cervo intatto e fresco rimasto impigliato tra neve e arbusti col suo maestoso palco di corna. Fu una preda preziosa: fu facile trascinarlo giù; ne mangiammo per molti giorni e le corna rimasero a decorare la saletta davanti alla cucina.

Capitava facilmente di incontrare caprioli, agilissimi nella fuga sulla neve.

XI.4)  I compagni di Gerlospass

Il gruppo di amici presente al Passo era assai meno numeroso rispetto al gruppo di Hochried. Eravamo rimasti in pochi: con me, Achille Bassan, Oreste del Buono, Luciano Balducci, Domenico Donato, Orazio Fabbrini, qualcun altro che ora non ricordo. C’erano poi altri militari italiani pure venuti da Hochried, quindi quei tre aggregati a noi all’ultimo momento; infine, quelli che abbiamo trovati al Passo. Un insieme di persone assai diverse fra loro, che però finiscono per conoscersi intimamente attraverso i piccoli fatti di tutti i giorni.

Oreste passa quasi tutto il suo tempo libero a scrivere, appartato. Prende una quantità di appunti, annota tutto, ci studia uno per uno e segue più di chiunque altro la vita della comunità. Essendo costretto per la sua salute cagionevole a condurre una vita fisica non particolarmente attiva, vive invece la vita di tutti con la sua capacità di osservazione e di immedesimazione. Ciò gli consentirà di scrivere a caldo un “Racconto d’inverno” pubblicato nel novembre 1945 dalle Edizioni di Uomo di Milano, che riporta con tanta fedeltà l’atmosfera di Gerlospass, assommando nel personaggio che fa da perno del racconto diverse esperienze vissute anche da alcuni compagni;  offre un concentrato di immagini nel quale la sofferenza, il degrado fisico e morale, lo squallore, i legami fra i compagni sono rivissuti con una efficacia degna dei suoi libri migliori. Il libro si apre proprio con una mia personale esperienza e più in là riporta quasi testualmente passi della lettera a lui ben nota che il 9 settembre 1943 io avevo scritto alla mia famiglia e che non avevo poi potuto spedire. Oreste disegna anche pupazzetti; io rimanevo spesso incantato vedendolo disegnare: sembrava che stesse soltanto ricalcando, con grande rapidità, un disegno già presente e visibile in trasparenza sotto il foglio.

Orazio Fabbrini, fiorentino, ha anch’egli qualche problema di salute, che ne acuisce la sensibilità nel disincanto. I compagni di più acuta intelligenza sono purtroppo i meno robusti.

Domenico Donato, messinese, ha una singolare capacità di comunicazione con la natura, l’occhio vispo, il fare di un satiro.

Luciano Balducci, perugino, veemente e sanguigno, l’immagine di un toro, perennemente contestatario, sembra andare in cerca di guai.

Achille sarà il mio compagno più affiatato; è estroverso, sanissimo, pronto a condividere con me ogni avventura.

XI.5)  L’arrivo di Marta

Nel campo abbiamo, oltre al Capo campo Windisch e ai  Capi squadra Lorenz e Adam, una vecchia ucraina addetta alla cucina: dico vecchia, perché così noi la vediamo, col suo fazzoletto nero annodato intorno alla testa e il suo fare sempre molto dimesso; lei ha un figlio, Alex, un vispo e simpatico ragazzetto sui 12 anni, che aiuta la mamma.

Prima della fine di novembre, andando la sera a ritirare la mia zuppa, trovo a sorpresa allo sportello una ragazza austriaca che subito mi fa un bel sorriso. E’ stata assunta da Windisch insieme con un’altra ragazza del luogo per occuparsi della cucina.

Il giorno dopo al mattino io mi trovo nel piazzaletto centrale a lavorare attorno a un tubo dell’acqua interrato. Lei esce dalla cucina, mi si accosta e mi chiede di aiutarla un momento nel magazzino lì dietro: deve riempire una cesta da un sacco di patate. E’ evidente che le patate sono una scusa: mi fa una carezza, mi chiede come mi chiamo. Lei si chiama Marta. Io mi accosto per baciarla: lei non si rifiuta, ma mi dice: “Vieni stasera alle 8,30 alla legnaia”.

Marta Zeller maritata Blineder ha 23 anni. Si è sposata diciassettenne con un orchestrale, da cui ha avuto due bambine: Marianne che ha cinque anni ed è molto saggia, Margit che ha due anni. Si è separata da un pezzo dal marito. E’ titolare dell’Ufficio postale di Wald im Pinzgau, il primo paese che si incontra a valle scendendo dal Passo verso il Salzach. Sua madre, che era la precedente titolare di quell’Ufficio, ne ha riassunto la gestione per consentire a Marta di prendere l’incarico di occuparsi della cucina di Gerlospass. La madre prende cura anche delle due bambine. Un fratello di Marta è al fronte, ma da tempo non si hanno notizie di lui. Marta arriva al campo, insieme con la collega più anziana Franzie, nella fase di riordino dello stesso dopo la cacciata del Capo SS.

Non so cosa abbia indotto Marta a scegliere me con tanta rapidità e tanta sicurezza fra i vari giovani che trova sul posto: forse, la mia faccia che è meno intristita di quella degli altri.

Alle 8,30 io mi trovo alla legnaia e, puntualissima, arriva anche lei. Non servono parole: nel buio, con una furia incontenibile, la getto sulla legna, non le lascio il tempo di togliersi le mutandine, la prendo quasi con violenza.

Tornato in baracca ancora eccitato e incredulo, mi accorgo che le mie mutande hanno macchie di sangue: nella furia, mi sono escoriato. Oreste, che ha seguito tutto, è un po’ preoccupato per me.

Avremo da fare tante manovre, Marta ed io, per stare insieme il più possibile senza dare nell’occhio. C’è un divieto formale per questo tipo di rapporti, ma lei non se ne preoccupa troppo, trovando facilmente il modo di ottenere omertà non solo dalla sua collega Franzie, ma persino dal Windisch che dapprincipio aveva sperato di ottenerne le grazie.

Dovrò presto fare il callo alla spregiudicatezza dei costumi di qui, io che mi porto dietro il retaggio della cultura del nostro mondo agricolo meridionale. Qualche giorno dopo, mi chiede di andare da lei a notte nella stanzetta che divide con Franzie. Io vado pensando di stare a chiacchierare con loro. Trovo Franzie che dorme e Marta che mi accoglie nel suo giaciglio pronta a fare l’amore. Io esito nel dubbio che Franzie sia sveglia o che si svegli facilmente. “Non ti preoccupare di lei”, mi dice, felice di potermi stringere a sé.

Marta si prenderà cura di me, per esempio nel lavare la biancheria (mio eterno problema) e fare qualche piccola riparazione al vestiario. Mi farà avere due belle paia di calze di lana fatte a mano, troppo belle per metterle al lavoro, ma assai comode  nelle ore libere.

E’ inevitabile che la mia situazione desti gelosie e soprattutto maldicenze, specie nell’ambiente dei polacchi, che sospettano di un mio trattamento privilegiato in cucina.

Naturalmente, il legame con me rende Marta più sollecita degli interessi di noi italiani. Lei, che è molto volitiva, si fa valere presso il Capo campo specialmente nelle questioni dei rifornimenti alimentari. Un giorno organizzerà una specie di dimostrazione collettiva per far sentire bene a quelli dell’impresa  che siamo rimasti qualche giorno senza patate. E riesce soprattutto a far distribuire anche a noi, finalmente, il famoso Zusatz, il supplemento alimentare settimanale per i lavori pesanti: mezzo chilo di pane e 250 grammi di lardo; a noi non arriverà il lardo, ma solo dello strutto; va bene lo stesso, quando viene spalmato su fette di pane appena tostate.

Il rapporto con Marta mi gioverà molto per migliorare la mia conoscenza della lingua tedesca. E mi permetterà di conoscere dal di dentro una società così diversa dalla nostra, che non avrei mai vista da vicino se fossi rimasto a vivere la sola vicenda del deportato. Il nostro rapporto durerà sei mesi e mi porterà a cambiare radicalmente il mio giudizio su di lei, vista dapprima come una ragazza facile, conosciuta dopo come una donna innamorata, impegnata, seria, matura, degna del mio più sincero rispetto.

XI.6)  La neve padrona del campo

La vita al Passo si svolge tra i 1500 metri del campo e i 2000 metri della altitudine massima della linea elettrica in costruzione. Il periodo da dicembre a marzo viene vissuto in compartecipazione perenne con la neve, neve fresca, neve indurita, neve a cumuli, neve che scende a falde larghe, neve che viene a vento, neve a terra, neve sugli alberi, neve che ti imbianca le sopracciglie, che ti entra nel collo, che ti finisce dentro gli stivali, neve che ti crolla addosso a sorpresa scaricandosi dai rami degli abeti, neve che attutisce tutti i rumori e che uniforma al massimo la diffusione della luce.

Càpita che una nevicata duri due giorni di séguito, quarantotto ore senza sosta. Una volta ci siamo trovati sul posto di lavoro, dopo giorni di nevicate, con un cielo improvvisamente tersissimo e un sole fulgente. Tutto era bianco e tutto rifletteva i raggi violenti del sole. Gli alberi avevano i rami completamente nascosti dal bianco manto. Non trovavo dove appoggiare lo sguardo, se non addosso a me stesso. Per me fu una tortura lancinante. A sera gli occhi mi bruciavano lacrimando di continuo. Da studente avevo sofferto un poco con gli occhi. Stavolta ero preoccupato. Marta e Capo Windisch mi consigliarono di andare a farmi vedere da un ottico, che si trovava a Mittersill. Per andare dall’ottico dovevo scendere a piedi per 12 chilometri dal Passo a Wald, dove trovavo il treno che mi portava a Mittersill. Dovetti chiedere due giorni di permesso. Dopo un vero patimento per i 12 chilometri di neve percorsi a piedi senza alcuna difesa dal sole, arrivai nel pomeriggio inoltrato a Mittersill, dove ebbi il tempo di accertare l’indirizzo e l’orario dell’ottico e di trovare una casa privata che mi servì la cena e mi affittò una cameretta per la notte. La camera, sotto il tetto, era gelida; il letto non aveva né lenzuolo né coperte, ma solo uno strano saccone bianco. Ebbi bisogno di molto coraggio per togliermi di dosso qualche indumento. Quel saccone era il piumone che ancora non si conosceva da noi e che a malapena copriva tutta la mia persona. Méssomelo addosso con un certo sconforto e rimasto immobile per un quarto d’ora a battere i denti, con mia gran meraviglia mi sentii circondato completamente dalle piume che pian piano si erano assestate intorno al corpo senza lasciare il minimo vuoto, accogliendomi in un calduccio da sogno. L’ottico il giorno dopo constatò una irritazione degli occhi e mi ordinò di portare rigorosamente occhiali da sole, che acquistai in farmacia in base a una sua regolare prescrizione medica, a un prezzo veramente modico. A sera ero di nuovo al passo con questi utilissimi occhiali parasole.

Il lavoro e la vita in quell’ambiente relativamente isolato davano luogo spesso a nostre lamentele indirizzate all’impresa. In occasione di una visita dell’ingegnere venuto da Gerlos esponemmo un po’ confusamente le nostre rimostranze. L’ingegnere era venuto per esaminare la situazione e per costituire un rapporto organico con noi: a questo fine, noi dovevamo seduta stante designare un  rappresentante cui affidare la nostra tutela secondo le regole dell’Arbeitsfront. Ci riunimmo subito e rapidamente si misero tutti d’accordo per designare me, forse perché ero il compagno che parlava meglio il tedesco. Non potei rifiutarmi. Così divenni ufficialmente - e con tanto di attestato scritto dell’Arbeitsfront - il Vertreter (rappresentante) o il Betriebsverbindungsmann (uomo di collegamento con l’azienda). Ebbe così inizio allora una mia carriera sindacale, ripresa poi di tanto in tanto nella mia attività futura.

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