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De bono comuni

Il bene comune

originale latino

volgarizzamento (2007) di EP

10. Idem probatur ex parte subiecti sive hominum amantium

Capitolo 10. Il bene comune va anteposto al bene privato del singolo: lo prova l'argomento tratto da parte del soggetto, ossia di chi ama.

Consequenter restat idem ostendere ratione sumpta ex parte subiecti idest hominum amantium. Omnis enim homo quantum est ex parte sua naturaliter illud plus amat quod est sibi magis coniunctum, puta se ipsum magis quam proximum et inter proximos magis consanguineum quam extraneum, et inter consanguineos magis filium quam fratrem et magis fratrem quam nepotem; et sic semper minuitur amor quanto magis ad remotiores proceditur. Sicut et ignis, cui amor assimilatur, magis sibi propinqua magis calefacit. Sed totum magis est coniunctum parti quam pars sibi ipsi. Ergo etc.

Discussa la  cosa da parte dell'oggetto, resta ora da provare la nostra tesi da parte del soggetto, ossia delle persone umane che amano. Ogni uomo per naturale inclinazione ama di più quanto gli è più congiunto: se stesso più del prossimo, tra i prossimi ama il consanguineo più dell'estraneo, tra i consanguinei il figlio più del fratello, il fratello più del nipote. E così l'amore si affievolisce man mano che procede verso i più remoti. Come il fuoco, se vogliamo paragonarlo all'amore; riscalda di più le cose che gli sono più vicine. Ora il tutto è più congiunto alla parte di quanto la parte lo è a se stessa. Dunque eccetera (= Dunque l'uomo deve amare più il tutto della propria polis che se stesso).

Minor probatur per hoc quia in omni genere rerum illud quod est principium et causa, et maxime quando est causa non solum fieri rei sed etiam conservationis ipsius, potius est quam illud quod est principiatum vel causatum ab illo in quantum huiusmodi. Contingit enim filium esse potiorem patre, qui est principium factivum filii, sed non in quantum huiusmodi sunt sed ex aliis causis. Nec tamen pater est causa conservativa substantie filii, cum filius, deficiente patre per mortem, nichilominus possit conservari in esse.

Proviamo la minore (= il tutto è più congiunto alla parte di quanto la parte lo è a se stessa) del sillogismo. In qualsiasi area della realtà, ciò che è origine e causa - soprattutto se oltreché produrre una cosa la fa anche persistere -  è preminente in quanto tale alla cosa originata o causata. Si dà, certo, che un figlio sia superiore al padre, che pure è principio generante del figlio, ma non a ragione del rapporto padre/figlio bensì per altre ragioni; né il padre è causa preservativa della realtà del figlio, visto che costui può sopravvivere al padre deceduto.

Sed coniunctio quam habet pars ad se ipsam causatur a coniunctione quam habet pars ad totum, et conservatur ab ipsa quia pars extra totum existens non est pars, ut patet ex dictis. Quod autem non est, nulli potest coniungi, nec sibi nec alteri, quia coniunctio presupponit esse sicut et omnis alia res |100vb| creata, puta vita magnitudo sanitas amicitia loqui febrire etc., quia «prima rerum creatarum est esse», ut dicitur in libro De causis[1].
Ergo totius ad partem maior extat coniunctio quam partis ad se ipsam.

Al contrario, la relazione della parte con se stessa è generata dalla relazione che la parte ha col tutto, e da questa è alimentata; fuori del suo tutto infatti la parte non è tale, come illustrato sopra. E ciò che non esiste non può neppure rapportarsi, né con sé né con altri, perché relazione presuppone esistenza, al pari di qualsiasi altra cosa |100vbcreata, quale vita grandezza sanità amicizia parlare febbricitare eccetera. «La realtà prima delle cose create è l'esistenza», dice proposizione IV del libro Le cause.
La relazione dunque del tutto alla parte è superiore a quella della parte a se stessa.

11.  Idem probatur ex parte causarum ipsius amoris quantum ad causam sine qua non

Capitolo 11. Il bene comune va anteposto al bene privato del singolo: prove tratte dalle cause dell'amore, e per primo dalla causa necessaria.

Sequitur idem declarare ratione sumpta ex parte causarum ipsius amoris. Et primo potest accipi ratio quantum ad causam sine qua nichil potest amari, secundo quantum ad causas que movent homines ad amandum. 

Argomenti tratti dalla parte delle cause dell'amore stesso. Primo, quanto alla causa senza la quale non si dà amore; secondo, quanto alle cause che muovono gli esseri umani ad amare.

Circa primum notandum quod cognitio est illa causa sine qua nichil possumus amare, iuxta illud Augustini, libro X De Trinitate, «Invisa diligere possumus, incognita nequaquam». Sed pars in quantum pars naturaliter magis cognoscit totum quam se ipsam. Ergo et per consequens ipsum naturaliter magis amat quia quantitas amoris naturaliter sequitur quantitatem cognitionis, sicut etiam erit in gloria beatorum, quam constat non contra naturam esse sed potius perfectivam nature.

Quod autem dictum est de naturali cognitione partis maiori respectu totius quam sui ipsius, potest ostendi ad presens tripliciter.

La condizione prima senza la quale l'amore non può darsi è la conoscenza, secondo l'adagio «Potremmo sì amare cose non viste, mai quelle non conosciute», tratto da Sulla Trinità X, 1-3 (CCL 50, 311-19; PL 42, 971-76) di Agostino. Ora la parte in quanto parte conosce per natura più il tutto che se stessa. Conseguentemente ama per natura più il tutto, poiché la misura dell'amore segue per natura la misura della conoscenza; come avverrà anche nella gloria dei beati, gloria non contraria alla natura ma di essa perfettiva.

Che poi la parte per natura ha superiore conoscenza del tutto che di se stessa, lo si può illustrare con tre ordini di riflessione.

Primo quidem quia prius ipsum cognoscit, secundum Philosophum in I Phisicorum ubi dicit: «Sunt autem primum nobis manifesta et certa confusa magis, posterius autem fiunt ex hiis nota elementa et principia nobis dividentibus hec». Illud autem quod prius naturaliter cognoscimus eo ipso et magis quodammodo videmur cognoscere [congnoscere scr. et exp. n1], hoc enim planum est in illis que sunt etiam priora quoad naturam; sicut contingit in principiis primis in mathematicis, de quibus et loquitur Philosophus in I Posteriorum dicens quod magis scimus principia quam conclusiones, quia «propter quod unumquodque et illud magis».

Primo, perché la parte conosce dapprima il tutto. Aristotele, Fisica I,1 (184a 21-23): «A noi le cose evidenti e certe appaiono dapprima in modo indistinto; in un secondo momento alla nostra analisi svelano i loro elementi e princìpi». Ciò che naturalmente conosciamo per prima, ci sembra in qualche modo di conoscerlo meglio. Cosa pressoché scontata per le cose anteriori in natura, come i princìpi primi in matematica; di essi parla Aristotele, Secondi analitici I,2 (72a 29-30), laddove dice che i princìpi ci sono più noti delle conclusioni, perché «maggiore è ciò da cui altro deriva».

Patet hoc etiam in illis que sunt priora tantum quoad nos, scilicet in sensibilibus respectu pure intelligibilium, sicut sunt substantie separate que sunt priora quoad naturam. «Sicut enim se habet oculus vespertilionis seu noctue sive nicticoracis[2] ad lucem solis ita se habet intellectus noster ad ea que sunt manifestissima [manifactissima cod.] in natura», ut habetur in I Methaphisice. Sed et hoc idem videtur in ipsis naturalibus, quia quod prius cognoscitur, diutius cognoscitur si oblivioni non tradatur.

Lo stesso si ha anche nelle cose che sono anteriori soltanto dal nostro punto di vista, ovvero nelle sensibili rispetto alle intelligibili in senso stretto, come sono le sostanze separate, anteriori secondo natura. «Come infatti gli occhi del pipistrello si comportano di fronte alla luce del giorno così il nostro intelletto si comporta di fronte alle cose evidentissime per natura», si ha in Aristotele, Metafisica II,1 (993b 9-11). Medesima cosa si riscontra nelle realtà naturali: quel che prima vien conosciuto, permane più lungamente nella conoscenza, se non dato all'oblìo.

Comune autem sive totum prius cognitum non traditur oblivioni per cognitionem partis. Sed quod diutius cognitum manet, magis in cognitione roboratur, quia per assuetudinem vertitur in habitum et naturam, iuxta illud Philosophi in libro Predicamentorum «In hiis que contingunt per longitudinem temporis in naturam cuiuscumque transferri[3], quem iam quilibet habitudinem vocet». Ergo quod est prius cognitum quodammodo est magis cognitum.

Il comune, ossia il tutto, per prima conosciuto non è consegnato all'oblìo dalla conoscenza della parte. E ciò che più lungamente permane nella conoscenza, si radica più fortemente nella medesima, perché l'assuefazione matura in abitudine e seconda natura, a detta del Filosofo, Categorie (c. 8, 9a 1-4) «Le disposizioni a lunga persistenza evolvono in qualcosa di naturale; la chiamano abitudine». Quello dunque che è conosciuto prima, è in qualche modo meglio conosciuto.

Secundo quia |101ra| facilius ipsum cognoscit. Facilius enim cognoscitur aliquid imperfecte quam perfecte et diminute seu secundum totum. Sed cognoscere partem secundum quod est in toto tantum, est ipsam cognoscere [congnoscere scr. et exp. n1]incomplete tantum. Ergo facilius est cognoscere totum ut totum in quodam confuso quam totum secundum distinctionem partium [partitum cod.] suarum. Sed quod facilius est cognoscibile a nobis, naturaliter magis ipsum cognoscimus, tum propter defectum ingenii nostri quod huiusmodi difficilia comuniter non attingit, tum propter defectum animi nostri qui naturaliter huiusmodi difficilia refugit, quietem querens potius quam laborem.

Secondo, perché |101ra| la parte conosce più facilmente il tutto. Più facile è conoscere qualcosa in modo approssimativo anziché perfetto, e in modo ridotto ovvero nel suo insieme. Ma conoscere la parte soltanto in quanto è nel tutto equivale a conoscerla soltanto in modo incompleto. Dunque è più facile conoscere il tutto in quanto tale in termini indistinti piuttosto che il tutto nelle sue specifiche componenti. Ma quel che più facilmente è da noi conoscibile, lo conosciamo più per inclinazione naturale, vuoi a motivo dei limiti del nostro intelletto che non raggiunge abitualmente materie così ardue, vuoi a motivo dei limiti del nostro animo che rifugge da tali difficoltà, incline com'è più alla quiete che allo sforzo.

Tertio quia certius ipsum cognoscit, quod etiam ex predictis duobus videtur aliqualiter sequi. Licet enim totum, in quantum est quoddam confusum, sit incertius in se quam pars eius distincta, tamen certius est respectu cognitionis nostre qui defectuose cognoscimus. Videns enim multas monetas simul in unum congregatas, certius cognoscit quod ille est cumulus nummorum quam cognoscat monetas distinctas in illo cumulo existentes. Certius etiam cognosco numerum personarum vel etiam aliarum rerum congregatarum, puta quaternarium vel ottonarium, quam cognoscam que sint ille persone distincte. Et ideo Philosophus dicit in II De anima «Ex incertis quidem» scilicet secundum naturam, «certioribus autem» scilicet nobis, «fit certum et secundum rationem notius» etc.

Terzo, perché la parte conosce il tutto con più certezza; che in qualche modo consegue dai due punti precedenti. Sebbene il tutto còlto indistintamente nel suo insieme sia in sé meno certo della sua parte distinta, risulta di fatto più certo rispetto alla nostra difettosa conoscenza. Chi vede molte monete ammassate, vi riconosce un mucchietto di monete con più certezza che l'identità/valore delle singole monete. Riconosco meglio la quantità numerica d'un gruppo di persone, poniamo quattro o otto, prima d'individuare le singole e distinte persone. Aristotele in Dell'anima II,2 (413a 11-12): «Dalle nozioni incerte» ossia in sé, «e più chiare» rispetto a noi, «deriva il distinto e il razionalmente più conosciuto» eccetera.

Unde licet totum in quantum huiusmodi sit simpliciter incertius quoad naturam in se et absolute consideratam, tamen est simpliciter certius quoad naturam nostram; sicut vinum simpliciter est magis sanum quam tipsana[4] quantum ad naturam potus in se, licet tipsana sit magis sana simpliciter quantum ad naturam alicuius infirmi. Et per istum modum potest verificari forte dictum Philosophi in VI Topicorum ubi dicit quod genus et differentia «sunt simpliciter priora et evidentiora quam species», licet genus sit magis comune respectu speciei. Quot autem modis dicatur “simpliciter” distinximus  [distincximus cod.] in tractatu De modis rerum[5].

Cosicché sebbene il tutto in quanto tale sia assolutamente incerto se preso in sé e in senso assoluto, tuttavia è più conosciuto rispetto a noi. Il vino, per intenderci, in sé è più sano della tisana quanto alla sua natura di bevanda; mentre la tisana in senso assoluto è più sana per il suo valore curativo in rapporto al malato. E in questo senso si potrebbe forse intendere Aristotele in Topici VI,4 (141b 27-28) laddove asserisce che genere e differenza «sono in assoluto anteriori e più noti della specie», sebbene il genere sia nozione più ampia della specie. In quanti modi poi si usi la parola "simpliciter / in assoluto" l'abbiamo illustrato nel trattato De modis rerum I, cc. 3-4 (BNF, Conv. soppr. C 4.940, ff. 18va ss).

Hec autem ad presens ita dicta sint, quamvis forte aliquam calumpniam pati possint.

E così per ora metterei le cose; sebbene possano dar spazio a qualche travisamento.


[1] De causis, ed. A. Pattin, «Tijdschrift voor Filosofie» 28 (1966) 134-203; ed. Saffrey, Fribourg-Louvain 1954, 26. Trattato d'ispirazione neoplatonica, originale in redazione araba d'anonimo IX sec., traduzione arabo-latina di Gerardo da Cremona † 1187. Talvolta sotto il titolo Liber Aristotelis de expositione bonitatis pure
Due
volte (nel mio censimento)
Remigio rimette il De causis sotto il nome del filosofo arabo al-Fârâbî († 950).

D. Carron Faivre, Guillaume de Leus, commentateur du Liber "de causis", «Bulletin de philosophie médiévale» 54 (2012) 297-331: tra gli estratti, voce "Carron".

[2] L'aristotelico νuxτερίδων è vespertilionum nella traduz. arabo-latina, noctuarum in quella greco-latina di Giacomo da Venezia e nella "composita" (Arist. Lat.  25/1, 36.119), nicticoracum nella "media" (AL 25/2,36) e "nova" (EM 1926, 95b). Le edizioni volgate delle traduzioni medievali sono interpolate o addirittura "corrette" da penne umanistiche.

[3] Traduz. composita (AL 1,64). La citazione dopo transferri omette «et insanabilis vel difficile mobilis existat affectus» su cui poggia il successivo «quem iam... ». Anche in altre citazioni letterali, là dove la composita modifica la traduz. boeziana, si può accertare che Remigio usa la composita, divenuta del resto la volgata; cf. De subiecto theologie 62-64, 406-09; Extractio, cod. G3, f. 129rb (Categorie c. 12: 14a 30-32).

[4] «tipsana»: «ordeum siccatum, pila tunsum, decorticatum, et fit inde cibus aptus carentibus dentibus (...). Et dicitur tipsana a tipso, quod est percutere, quia percutitur in pila quando decorticatur» (GUGLIELMO IL BRETONE, Expositiones vocabulorum biblie, ed. L.W. e B.A. Daly, Padova 1975, 786). Cf. Uguccione, Derivationes II, 1225-26.

[5] REMIGIO DEI GIROLAMI, De modis rerum I, 3-4 (cod. C, ff. 18va ss.): ampia esposizione dei modi significandi di "simpliciter", ma niente di specifico che possa interesare il testo del De bono comuni.


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