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Riccoldo da Monte di Croce: BNF, CS, C 8.1173, f. 185rPreghiera e protesta.
La prima lettera di Riccoldo
,

«Archivum Fratrum Praedicatorum» 59 (1989) 17-88.

Epistole ad ecclesiam triumphantem, tra 1291 e 1299

sommario

1

Una mancata occasione di grazia

4

Il volgarizzamento in toscano occidentale | pisano

2

Il testo delle Epistole ad ecclesiam triumphantem 
Vat. lat. 7317 | ed. Röhricht | collazione R/V

5

Il volgarizzatore
| a questo tenpo maximamente

3

Il volgarizzamento toscano trecentesco
 | BNF, Magl. II.IV.53 | recognitio

6

Il contributo del volgarizzamento all'edizione di «Epistola» I  | Vat. lat. 7317 | Magl. II.IV.53

 

Epistola prima:  §§ 1   5   12   17   23   29   Data in oriente  | ë

 

abbrev&sigle e aggiornamento bibliografico
º Riccoldo? Come chiamarlo esattamente? | e Monte di Croce? »

º tutte le Epistole | Dante il Contra legem di Riccoldo? | Image of the Prophet »

1. Una mancata occasione di grazia

I tre sultani mamlûk Baibars (1260-77), Qalawûn (1279-90) e al-Ashraf (1290-93) smantellano i regni latini di Siria e Palestina. Quando il fiorentino Riccoldo da Monte di Croce OP approda ad Acri negli ultimi mesi del 1288, soltanto poche roccheforti d’una esigua striscia costiera restano in mano ai crociati. Visitati i luoghi santi di Palestina, Riccoldo fa vela verso la Cilicia, poi attraversa Turchia e Persia fino a Tabriz, nel corso di primavera-estate 1289. Dopo una sosta di sei mesi in Tabriz, scende nella valle del Tigri; qui risiede, tra Mosul e Baghdad, per molti anni, verosimilmente fino agli ultimissimi anni del secolo. La notizia della presa di Tripoli (aprile 1289) lo raggiunge che è a Sivas, in Turchia. Appena due anni dopo, Mâlik al-Ashraf liquida definitivamente gli ultimi resti delle Crociate; Acri, Athlît (il Castrum Peregrini dei Templari), Tiro, Sidone, Beìrut, Tortosa cadono tra maggio e agosto 1291.

Atrocità e violenze d’ogni genere. Come in ogni guerra. Come a suo tempo dall’altra sponda. E come recentissimamente nella stessa Acri, agosto 1290, quando in occasione d’una rissa di quartiere i crociati trucidarono tutti i musulmani alla loro portata; saltò la tregua concordata dopo la caduta di Tripoli, e l’ira del sultano vi trovò motivo per anticipare l’ultimo colpo (cf. S. Runciman, Storia delle Crociate, Torino 1970, II, 1034-35).

«Nell’intenzione e nel mito, la crociata è realtà dell’unità» (P. Alphandery - A. Dupont, La cristianità e l’idea di crociata, Bologna 1974, 389). Era venuta meno, già da tempo, l’unità ideale e militare dell’Europa cristiana che sosteneva i regni latini d’oriente. Permaneva, tenace, l’unità d’una fede assuefatta da tempi antichi a tessere le cose di Dio con le cose degli uomini su un continuo omologo e necessario; restia a mettersi confini negli spazi della fisica celeste così come della geografia umana; insofferente ad accogliere nel proprio seno i segni del diverso e del molteplice. Le moschee erano diventate chiese; ora le chiese diventano moschee. I cronisti arabi rendono lode all’altissimo Iddio che ha restituito ai veri credenti la città di Acri; palesemente con provvidenziali intenti di giusta vendetta, se Acri è ora restituita all’islâm il medesimo giorno e mese che era stata sottratta a Saladino nel 1191 (Storici arabi delle crociate, a cura di F. Gabrieli, Torino 1973, 338, 341). Poco oltre verso est, in Baghdad, territorio d’obbedienza mongola, il cristiano Riccoldo apprende della caduta d’Acri (18 maggio 1291) e dei massacri che ne seguirono. È colto dallo sgomento. Uno sgomento di fede, che interpella Dio e i suoi nascosti disegni. Non esattamente uno sgomento della fede, perché Riccoldo non retrocede a interpellare parole e rappresentazioni che il linguaggio della fede elabora nell’atto di leggere la provvidenza divina operante nelle cose degli uomini, e di tutti gli uomini. Lo smarrimento fabbrica in Riccoldo un insidioso interstizio tra fede e Dio, almeno un interstizio psicologico, nel cuore del credente sopraffatto dallo stupore d’una Provvidenza inerte o impotente. Non la propria fede, né il proprio linguaggio di fede, è sotto accusa; bensì Dio, la sua provvidenza e i suoi santi.

Se il rovescio militare non persuade a desolidarizzare le grazie salvifiche di Dio dagli estremi geo-politici della christianitas, né dunque ad articolare nuove e autonome ragioni di fede sull’imprevisto corso della Provvidenza, dolore e prostrazione scatenano in Riccoldo il mondo dei sentimenti. «So bene, Signore, che benigna è la tua misericordia; ma ora non la vedo con chiarezza», esclama a fine Epistola I. Lo smarrimento dell’uomo di fede non è meno prezioso. Le parole della certezza la cedono a quelle dell’interrogazione, della preghiera, perfino della protesta. I modelli biblici non mancano: Geremia, Giobbe, il salmista. Ma del tutto nuovo è il modello del cristiano sorpreso nel dubbio e nell’angoscia di fede. Aveva già studiato arti liberali, Riccoldo, quando nel 1267 entra in Firenze nell’ordine dei Predicatori. La carriera scolastica dei corsi filosofici è alimentata dalle opere aristoteliche. Nel 1272 Riccoldo è nominato lettore nello studio delle arti del convento pisano. E lettore sarà «in diversi e grandi conventi», come dice la Cronica di SMN. Mette per iscritto le lezioni di logica sul secondo libro del Perì hermeneias d’Aristotele (unico ms Sibenik, Bibl. Min. Convent. cod. 14.B, ff. 1-8). Si forma e cresce dunque in una tradizione di scuola che ha già espresso il meglio d’una disciplina mentale rigorosa, dalla consapevolezza dei propri strumenti analitici e dai serrati procedimenti dialettici. Ricca sì delle diversità temperamentali e culturali entro i confini della scola, ma avara d’esperienze esposte al dramma reale d’una fede contestata dai fatti perché ribelli all’ordine provvidenziale inscritto in quella stessa fede. Il dubbio metodico dell’utrum nella questione disputata si dilegua sulla soglia della responsio; lo scioglimento delle obiezioni dà l’intellettuale conforto della congruità razionale all’asserto di fede. Ebbene, Riccoldo, frutto intellettuale della scuola, esposto direttamente al dramma che si consuma sulla frontiera della cristianità, non soltanto è sopraffatto da uno smarrimento che gli sottrae la compiacenza di riproclamare antiche certezze, ma è impotente a darsi una ragione  -  almeno per ora  -  del disordine provvidenziale della storia: i saraceni vantano, con la vittoria militare, la verità del corano e di Muhammad; i cristiani sono nell’abbandono e nella prostrazione; in preda allo scempio, finanche alla derisione della fede: Il vostro Gesù figlio di Maria non vi è d’aiuto alcuno contro il nostro Muhammad. Dite che è potentissimo? Peggio: è in grado di darvi soccorso e non lo fa (Ep. I n. 26). Perché tutto ciò? La risposta, Riccoldo la vuole da Dio Padre e dal signore Gesù (Ep. I), dalla Vergine Maria (II), dagli angeli e santi tutti del cielo (III), da Nicola de Hanapis OP patriarca di Gerusalemme, vittima dell’eccidio di Acri (IV). Tutti sordi i protettori celesti. Riccoldo non sa a chi altri ricorrere (Ep. V, f. 266r; ed. 294). Tra le spoglie di Acri arrivate al bazar di Mosul c’erano un messale con epistole e vangeli, e un Moralia super Iob di san Gregorio Magno. Riccoldo riscatta i libri, «schiavi anch’essi» (Ep. III, f. 258r, 258v; ed. 280, 281) con gli schiavi cristiani. Apre ora i Moralia di Gregorio e vi medita gl’imperscrutabili disegni di Dio sulla falsariga delle sciagure di Giobbe. Risposta parziale e provvisoria, solo «theorica». Attende quella dei fatti: «practicam responsionera facti non verbi» (Ep. V).

L’insolita esperienza genera un insolito prodotto letterario; unico  -  per quanto si sappia  -  nella letteratura d’ascendenza scolastica: Epistole ad ecclesiam triumphantem. Stupore e smarrimento di fronte all’esaltazione dell’islâm e all’abiezione dei cristiani d’oriente. Le glorie della chiesa trionfante oscurate dalle sciagure di quella pellegrinante. Solitudine, preghiera, protesta, contestazione di promesse di ieri smentite dai fatti di oggi, ironia, perfino sarcasmo, che in altro contesto sarebbe risonato blasfemo: «Anche tuo figlio Gesù Cristo, o mia Signora, s’è fatto saraceno? », che significa musulmano nel lessico di Riccoldo. «Temo di sì, a veder quanti favori ha già loro accordati» (Ep. II, f. 255r; ed. 274-75). Verso la fine della prima lettera l’animo desolato sembra placarsi e abbandonarsi alla misericordia di Dio; supplica confermazione nella fede e loda il nome santo di Dio (Ep. I n. 30). Irridente la battuta che segue, inaspettatamente lanciata al cospetto di Dio: «Se vuoi che regni Maometto, faccelo sapere e andremo a venerarlo» (n. 31). L’astuzia retorica rilancia il tema alla lettera seconda.

Qualche tempo dopo le Epistole, Riccoldo compone il Contra legem Sarracenorum (1299-1300 ca.): sistematica, robusta, lucida confutazione della profezia dì Muhammad. Conoscenza diretta del corano arabo, dell’islâm mesopotamico del XIII secolo di tendenza hanbalita, repertorio controversistico sottile e minuzioso, rigore e compiacenza nell’assetto sillogistico e nei trapassi dialettici. Le pause argomentative accolgono sfoghi ostili e sprezzanti della fede altrui. L’uomo di scuola ha ricuperato le proprie certezze. Ma le istanze del sentimento e le istanze della ragione sono rimaste estranee le une alle altre; nessun processo di maturazione le ha ricomposte in più fecondi equilibri. La crisi di fede s’era conclusa senza che dolore e sbigottimento dessero accesso a una meditazione sulla grazia che salva irriducibile ai confini della christianitas; e irriducibile alle ragioni apprese nel Perì hermeneias e negli Analytica posteriora. Un’autentica prova di fede non ha generato un senso più trepido di fronte al mistero di Dio né uno sguardo più longanime sulle vicende degli uomini; neppure interiore serenità, frutto precipuo della grazia che risolve le angustie del credente in superiore maturazione mistica.

■ Parlare di Riccoldo da Monte di Croce come precursore del dialogo islamocristiano e della dichiarazione Nostra aetate (1965) del concilio Vaticano II equivale a barare in materia di storia e in materia di teologia. Vedi in specie Nostra aetate n° 2 su religioni non-cristiane, ben oltre il caso del non-cristiano virtuoso, nonostante la sua religione!

2. Il testo delle Epistole ad ecclesiam triumphantem

La straordinaria bellezza delle Epistole ad ecclesiam triumphantem, degne d’apparire tra le pagine più significative della letteratura spirituale del tardo medioevo, ci è consegnata in un testo disastrato. Unico manoscritto, Bibl. Apostolica Vaticana, Vat. lat. 7317, ff. 449, cartaceo, XV secolo; le Epistole di Riccoldo sono a ff. 249r-267r, appartenenti al blocco ff. 213-382 scritto da una stessa mano che lavora nel 1458 per il cardinal Domenico Capranica:

«Explicit liber tercius domini Marci Pauli de Veneciis de condicionibus et consuetudinibus orientalium regionum [= traduz. latina di Francesco Pipino OP] quem cum aliis precedentibus scripsi ego Arnoldus Melxter de Werlis clericus coloniensis diocesis in alma romana urbe pro reverendissimo in Christo patre et domino domino Dominico, miseracione divina tituli Sancte Crucis in Iherusalem sacrosancte romane ecclesie presbitero cardinali firmano comuniter nuncupato, sedis apostolice maiori penitenciario ac hospitalis Sancti Spiritus in Saxia de Urbe protectore, anno a nativitate Domini millesimo quadringentesimo quinquagesimo octavo, indictione sexta, die vero iovis vicesima septima mensis aprilis, pontificatus sanctissimi in Christo patris et domini nostri domini Calisti divina providencia pape tercii anno quarto» (f. 373r-v).

L’inchiostro iperacido, dilatatosi in più luoghi, ha perforato il supporto cartaceo di ff. 213-382; una velina moderna è stata incollata sulle carte a scopo di protezione. Un terzo circa, e forse più, delle lettere riccoldiane è oggi illeggibile. Reinhold Röhricht aveva trascritto e pubblicato nel 1884 le Epistole, «Archives de l’Orient Latin» t. II, Documents, II Lettres, Paris 1884, 264-96. Gli si dovrà infinita riconoscenza. Sfortunatamente l’editore nulla dice nell’introduzione (pp. 258-63) sullo stato materiale del manoscritto al suo tempo. Emenda più volte, rimettendo in nota la lezione del tardivo testimone. E facendo credito all’illustre orientalista, è da pensare che così lui leggesse nell’esemplare Vaticano là dove oggi questo resta muto. Una sola volta, in Ep. V, f. 266v (ed. 295, 17: intendi pagina e rigo), l’edizione lascia in bianco con punti distanziati mezzo rigo di stampa. Almeno qui il testimone ms doveva esser già illeggibile al lettore ottocentesco, come lo è oggi a noi. La velina di protezione incollata sulle carte del codice è del tipo usato dai conservatori della Biblioteca Vaticana a fine Ottocento e inizio del nostro secolo: così mi si dice nel Gabinetto di restauro della Vaticana. È probabile dunque che già al tempo del Röhricht talune carte fossero in parte invase dall’inchiostro e perforate. Almeno quelle sezioni di carte che appaiono nel medesimo stato di degradazione di f. 266v. Ma non sappiamo con esattezza in quali proporzioni, visto che l’editore nulla dice del suo antigrafo e nulla rivela nelle note all’edizione.

Chi voglia assicurare un testo delle lettere riccoldiane quanto più prossimo all’originale si trova di fronte a un primo delicatissimo problema: nelle sezioni in cui R (= copia Röhricht) rimane unico testimone perché V (Vat. lat. 7317) ormai illeggibile, il Röhricht trascriveva sempre e dappertutto il suo modello oppure in parte restaurava per congettura nelle carte più devastate? E se ciò si è dato (come la nostra ricognizione qui appresso fa credere), quali sono i brani testuali non confortati dalla tradizione ma frutto di restauro ex divinatione dell’editore?

Nessuna risposta è possibile, vista la reticenza dell’editore. Né questa rimuove del tutto il ragionevole sospetto che frammenti di testo fossero già illeggibili al lettore ottocentesco. R sarebbe un descriptus, e dunque da ignorare, se V sussistesse integro; ma poichè R è unico testimone per almeno un terzo del testo delle Epistole, s’impone un controllo della copia Röhricht sulle sezioni leggibili di V per saggiare l’autorevolezza di R là dov’è unico a trasmettere il testo.

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